Maria Pace Ottieri, giornalista e scrittrice, ha da poco pubblicato per Nottetempo un piccolo libro sulla gloria; una ricognizione personale tra storia, letteratura e attualità per ragionare attorno a un valore inseguito lungo i secoli dai nostri predecessori e invece assente dalla nostra quotidianità.

Intervista realizzata durante la venticinquesima edizione del Festivaletteratura di Mantova.

Maria Pace Ottieri, un libro sulla gloria sembra quanto di più inattuale si possa scrivere oggi. La gloria come tematica su cui ragionare sembra infatti una materia del tutto archiviata e superata; dunque per prima cosa le chiederei quali ragioni hanno mosso la scrittura del libro e quale natura abbia questa gloria di cui si parla.

L’idea del libro è partita da un progetto editoriale, poi mutato, che voleva ragionare attorno a singole parole. Come scrivo nel testo, una serie di piccole situazioni personali mi ha poi portato a interfacciarmi spesso con questo vocabolo (lo ritrovai persino scritto sulla copertina di un vecchio quaderno dimenticato intonso in un cassetto), che pareva inseguirmi e con il quale ho iniziato a intrattenere un rapporto di studio scoprendo che nei discorsi culturali era stato un termine non così tanto archiviato – nel 2014 c’è addirittura stata un’edizione del Festival della filosofia di Modena su questo tema. “Gloria” è una parola che ha attraversato tutta la nostra civiltà e per questo al mutare della storia ha cambiato la propria natura; per gli Ebrei era un elemento concreto, quasi come un patrimonio; per i Micenei, invece, era acustica legata al verbo “udire” ed ecco nascita dei poemi, dei poeti, e del rapporto tra gloria e arte, dal momento che non esiste gloria senza un poeta che la canti. Il suo oblio, invece, penso che sia da far risalire alle due guerre mondiali, dove il concetto di gloria tradizionalmente inteso – ossia ottenuto sul campo di battaglia – è caduto vertiginosamente in quanto nulla di glorioso vi era in quelle mattanze da guerra meccanizzata. La natura della gloria, però, è mutevole; oltre a quella eroica ci sono infatti altre declinazioni di essa che sentiamo più contemporanee, come quella che prende piede a partire dal ‘700 con i grandi attori o quella che tocca alcuni autori come Rousseau o Byron, che furono tra i pochi ad avere una grande fama in vita, la cui persona era diventata più famosa della sua opera. E quello che oggi ci rimane della gloria è proprio questo, la celebrità.

Attraverso la medializzazione della società, oggi, notorietà e celebrità sono qualità tanto più diffuse e ricercate quanto effimere, legate al tempo del mondo digitale. Questa temporalità accelerata e l’eterno presente in cui siamo immersi sembrano pretendere uno svuotamento degli atti come condizione per accedere più rapidamente a una fama che si rivela, però, di segno contrario rispetto a quella passata, che veniva concepita come bene duraturo, stabile, solido, in grado di non essere intaccato neppure dal tempo. Tuttavia fin dal passato, la gloria era materia scottante, in grado di annientare coloro che ne andavano in cerca oppure era acquistabile a un prezzo alto come la morte, entrambe condizioni-limiti che oggi tendiamo a rifuggire. La transizione da un concetto assoluto di gloria alle sue declinazioni più modeste che si aggirano per la nostra società è un tratto totalmente vacuo oppure presenta dei risvolti positivi?

Mi torna in mente la differenza tra gloria e gloriola che fa l’Abbé de Saint-Pierre, rilanciando un concetto già caro ai Romani. Della gloria, la gloriola rappresenta una sorta di sottoinsieme che ha più a che fare con l’umano che con l’eroico, è di tutti ed è ambivalente nella sua essenza. Essa infatti non è pura come la gloria vera, ha in comune molto con la vanità (la quale, come ricorda Pascal, appartiene anch’essa a tutti, anche a chi ne parla male); la gloriola infatti è vanitosa dal momento che corrisponde al pensare che la propria potenza vada misurata ed esercitata sugli altri. Tuttavia, dice l’abate, resta possibile tramite questa sorta di volontà di potenza raggiungere un grado di gloria vera e propria che consiste nel fare della propria potenza il meglio. Ecco, penso, questa è un’idea che possiamo recuperare oggi visto che, in senso generale, non siamo mai stati così potenti. A tal proposito credo dunque che la “vera” gloria oggi possa essere solamente una gloria collettiva, una gloria del terrestre che ha un soprassalto d’orgoglio verso se stesso e la realtà in cui è inserito, sforzandosi di piegarla e modellarla.

Ma la facoltà di piegare la realtà di cui parla si manifesta a favore delle forze dell’ordine oppure della sovversione?

La gloria è sempre una tensione verso qualcosa che abita dimensioni a noi profondamente estranee e per questo diventa un ponte verso l’utopia. In questo senso la concepisco senz’altro come una forza di sovversione, soprattutto oggi in cui l’ordine è diventato soffocante, sempre più legato ad iniquità legate al dominio economico di poche persone. C’è poi lo storico dilemma se la gloria stia dentro o fuori la morale, posto a partire da Cicerone, il quale sostiene che sì, la gloria debba essere un valore derivato dal riconoscimento collettivo di una qualità morale. A lui, però potremmo contrapporre Machiavelli che invece ammirava la gloria che eccedeva, straordinariamente, dal consesso e dalle pratiche comuni. Perciò penso che la gloria sia una sorta di recipiente il quale contiene e rispecchia i valori di una specifica società ed epoca. Oggi, per noi, è chiaro che molti degli aspetti di questo valore si siano persi – primi tra tutti il rapporto con la morte e la pazienza di capire che cosa sia memorabile e che cosa non lo sia.

Nel suo saggio Critica della vittima, Daniele Giglioli sostiene il ruolo dominante della vittima nei discorsi e nelle posture politiche e sociali contemporanee. Essere vittima garantisce la parte del giusto e tutela le proprie azioni; inoltre la vittima è intoccabile, in quanto ha subito un torto, e spesso è anche implicitamente velata di eroismo per essere sopravvissuta. È la vittima l’eroe contemporaneo? E, in alternativa, quale figura potrebbe ricoprire tale ruolo?

Mi viene in mente quel passo del Galileo di Brecht dove il suo assistente, Andrea, dice «sventurata la terra che non ha eroi» e Galileo replica «sventurata la terra che ha bisogno di eroi». Questo passaggio può significare molte cose, ad esempio che una società avanzata e consapevole (da una prospettiva civile più che tecnica) non ha bisogno di eroi perché tutti fanno la loro parte in maniera responsabile, oppure, al contrario, che si è persa la tensione a un orizzonte ulteriore. Ciò che è chiaro è che l’eroe tradizionalmente inteso, quantomeno fenomenicamente, per noi oggi sarebbe un disadattato, una figura chiaramente antistorica, il cui sacrificio non capiremmo e riterremmo inutile – almeno in Occidente. Per quanto riguarda il rapporto tra vittima ed eroe, mi sembra un argomento decisamente in bilico – infatti Giglioli è stato molto criticato per quel saggio ardito. Da un punto di vista storico è vero che c’è stato un capovolgimento, cioè, è vero che lo sguardo si è spostato a favore di chi il mondo lo subisce, ma questo, cioè il fatto che le vittime e gli oppressi abbiano più voce di ieri, è prima di tutto un enorme passo avanti. Certo si può poi aggiungere che a seconda dei contesti in cui ci si muove, soprattutto da noi, alcuni fenomeni come la medializzazione e una certa attitudine pietistica primomondista, edificano in favore della condizione della vittima strutture e narrazioni forse talora forzate, identificandola come l’unica in grado di essere compresa, assolta e accettata.

Nel libro più volte lei sottolinea come la gloria abbia a che fare con la conservazione e come quest’ultima sia una dimensione lontana da quella odierna, animata invece del consumo compulsivo. È questo uno dei termini secondo cui sostiene che la gloria possa avere ancora un risvolto eversivo?

Senza dubbio, come ho detto, la nostra civiltà ha oggi un problema molto profondo nel rapportarsi alla morte e dunque alla memoria. Interfacciarsi costantemente con la morte, osservata come un evento comune, permette di sviluppare una riflessione sulla memoria come agente fondamentale per la sopravvivenza e la continuità culturale. Ed è proprio questa prospettiva che oggi mi sembra venire meno all’interno della società, in cui forse, l’ansia di lasciare andare alcune zavorre culturali del passato si estende anche a elementi che non andrebbero lasciati andare. È chiaro che, da un lato nel tentativo di allontanare la morte dai nostri orizzonti, dall’altro nell’anelito di catalogazione universale del reale, oggi produciamo un tipo di memoria cumulativa che può stare soltanto fuori da noi, nei dispositivi e sulla rete. Per certi versi siamo ossessionati dalla conservazione, ma d’altro canto siamo sempre meno in grado di gestirla e diamo per scontato che, ponendola al nostro esterno e non esercitandola più in maniera “muscolare”, essa continuerà a svolgere il ruolo che ha sempre avuto, ma così non è. In questo modo, la gloria può essere un fattore che riconnetta a una riflessione attiva sulla memoria, togliendola dalla condizione di feticcio in cui giace (oggi siamo ossessionati dalle ricorrenze tra cui, la stessa giornata della memoria), permettendo così di sganciarci un attimo da questo eterno presente di cui parlavi, che assomiglia sempre di più ad un libro le cui pagine strappiamo, una volta lette.


Maria Pace Ottieri, Amor di gloria, Nottetempo 2021,
144 pp., 15€