Nobilitate da Gérard Genette negli anni ’80, le “soglie” paratestuali sono come piccoli inconsapevoli gesti, come quei modi di scansare i capelli dagli occhi o di accelerare il passo quando si è in ritardo. Gesti che ognuno di noi compie e che possono passare del tutto inosservati, così come fare innamorare chi si ritrovi a notarli. All’orizzonte di Benjamin Myers (tradotto a maggio per Bollati Boringhieri da Simona Garavelli, dall’originale The Offings) racchiude molta della sua poesia in quella soglia appartata che è la pagina dei ringraziamenti. L’autore, che scrive anche di musica, arte e natura per il Guardian e diverse altre testate, annota qui, nelle ultime righe, che «gran parte di All’orizzonte è stato scritto a mano, usando carta e penna, nelle biblioteche». Considerando che Myers è membro fondatore del collettivo dei Brutalisti, nato nel 2006 su Myspace per sottrarsi alle dinamiche commerciali dell’industria editoriale, è significativo leggere che il libro «è dedicato ai bibliotecari di qualunque luogo, ai librai e agli insegnanti, e a tutti coloro che lavorano per condividere la passione per la forza della parola scritta». Un nucleo caldo di fiducia nella letteratura. Una dichiarazione di intenti sull’onda lunga della tradizione scritta, pur con gli occhi di chi ha visto evolvere la scrittura, e di chi la sta accompagnando nelle sue migrazioni su supporti digitali. Un gesto d’amore per chi scrive, chi legge, chi tramanda. Amore per i diversi gradi di materialità e al tempo stesso per l’aura di ogni libro. Amore per il romanzo.

Romanzo…

All’orizzonte sembra emergere dai meandri della tradizione romanzesca, sicuro rappresentante della propria genía, così come la cattedrale di Durham, in Inghilterra, si staglia maestosa tra i meandri del fiume Wear. Da Durham si parte e a Durham si torna, in questa storia. Nel mezzo, il dialogo. Dialogo nel senso bachtiniano del termine, come essenza stessa della forma romanzo. Dialogo tra Robert, protagonista e voce narrante, e Dulcie, la donna che questi incontra in un giorno d’estate, per mai più separarsene. Dialogo tra giovinezza ed età matura, maschile e femminile, futuro e passato.

Robert incontra Dulcie mentre muove dal suo nord-est verso sud, verso la baia di Whitby, deciso ad esplorare l’Inghilterra all’indomani della seconda guerra mondiale e della fine della scuola. Sa che lo aspetta un futuro in miniera, nero come il presente di suo padre e il passato dei suoi nonni e bisnonni. Ma prima decide di provare a seguire il suo istinto, che lo porta da Dulcie e a capire che, una volta arrivato nel suo cottage, forse questo istinto è diventato un destino a tinte meno fosche del previsto.

Dulcie gli offre infuso di ortica e una prospettiva nuova sui combattenti di ogni guerra, vittime di ideologie e decisioni più grandi di loro. Poi è la volta di una cena con astice al burro e vino bianco, accompagnata da storie sulle città inglesi e i loro nomi. Robert, che inizialmente considera l’incontro con Dulcie solo una tappa del suo percorso verso sud, è presto blandito dai modi sicuri e premurosi della donna, dal suo modo di raccontare senza domandare o farsi domandare. Il giorno diventa notte, due giorni diventano settimane, che diventano un’intera estate.

…di formazione…

Al suo arrivo nel giardino di Dulcie Piper, Robert abita lo spazio sfumato della pubertà, tanto col suo corpo magro quanto con la sua mente, curiosa ma ancora incerta su cosa dire, come muoversi, cosa cercare. In quel giardino affacciato sulla baia, lo travolge gentilmente una maieutica morale e intellettuale, una formazione. In barba allo stravolgimento che del termine è stato fatto nel discorso economico e giuridico contemporaneo, in cui la formazione è diventata sinonimo di lavoro subordinato, a breve termine e spesso ai limiti della dignità personale, quella di Robert è una formazione totale, rotonda, armonica.

Senza prevaricazione e con garbo, Dulcie ascolta le poche parole del ragazzo e lo guida verso una rinnovata comprensione della storia e della natura. Come nella migliore tradizione pedagogica, il prendere e il dare si intersecano in un gioco di equilibri in costante negoziazione, di scambi reciproci e reciproca fiducia. Dulcie stessa, all’apparenza sicura del suo modo di stare al mondo, di scegliere le spezie più adatte per ogni pietanza e i silenzi più appropriati in ogni discorso, apre sé stessa al suo giovane amico. Col tempo trova le parole per raccontare del suo amore per Romy, la compagna che le ha presentato il conto della morte, così come della vita più felice.

Nel portare aria e luce nelle stanze del ricordo di Romy, un elemento ulteriore si aggiunge all’equazione formativa tra i due personaggi. L’elemento della poesia, della scrittura, della loro forza. Di quella passione che Myers nomina sul finale dei propri ringraziamenti. Tutto quel che gira intorno all’assenza di Romy è poesia, e alla poesia si avvicina gradualmente anche Robert. Il ragazzo inizia a leggere di notte alcuni libri accatastati nel capanno che è diventato il suo rifugio. Mastica alcune poesie che dapprima non capisce, poi pian piano digerisce, assimila, a suo modo. Quando Dulcie gli suggerisce che probabilmente ha bisogno di una poesia con cui possa relazionarsi, lui risponde che non crede possa esistere.

«Mio caro ragazzo, certo che esiste. Certo che esiste. Credimi quando dico che tutto ciò che hai provato è stato sperimentato da un altro essere umano prima di te. Potrebbe non sembrarti così, ma è vero. La poesia è proprio questo. Esiste per ricordarci esattamente questa verità. La poesia è il modo in cui il genere umano ci dice che non siamo completamente soli su questa terra; offre una voce consolante che riecheggia attraverso i secoli come il lugubre richiamo di una solitaria sirena da nebbia nella notte nautica. La poesia è una scala a pioli tra i secoli, dall’antica Grecia a domani pomeriggio» (pp. 101-2)

Così controbatte Dulcie, prima di prestare al giovane amico L’amante di Lady Chatterley in una rara edizione integrale e Foglie d’erba. Poi aggiunge Percy Bysshe Shelley, John Clare, W.H. Auden, John Keats, e anche Emily Dickinson, Christina Rossetti e Emily Brontë. È grazie a questo scambio che Robert, pur inconsapevole, inizia a scrollarsi di dosso la polvere di un futuro in una miniera della contea di Durham che sarebbe sembrato già scritto.

Durham è così nelle pagine del libro, era così nel secondo dopoguerra ed è così ancora oggi. Una contea economicamente poco avanzata, fatta di villaggi fuori dal tempo e sfumature ininterrotte di verdi, intorno a una città storica dalla bellezza struggente, il cui rigoglio è preso per mano dallo sviluppo di una delle università più prestigiose del Regno Unito. Si potrebbe considerare alla stregua di un mosaico cinematografico, in cui il realismo senza sconti di Ken Loach si apra all’improvviso su dei frammenti di Harry Potter.

E Robert, pur nato a Durham – proprio come l’autore del libro – sembra rassegnato alla dicotomia “town and gown” (letteralmente “città e toga”), rassegnato a non appartenere alla schiera degli universitari, che pure abita gli stessi suoi spazi. «Quelli come me non vanno in posti del genere», confida con candore una sera a Dulcie, inconsapevole dell’impatto di queste parole sulla sua interlocutrice. Farà parte della formazione reciproca la progressiva strada verso un sovvertimento di questo destino. Una formazione valoriale, interiore, intellettuale, come si diceva, eppure non priva di inaspettati risvolti pratici.

…(ecologica)

Il libro di Benjamin Myers non manca di illuminare un aspetto fondamentale di una formazione umana realmente completa: la capacità di interagire e comprendere quel che umano non è. Robert sembra predisposto a questa interazione in virtù della sua curiosità, e forse dei saperi ancestrali dentro cui è nato e vissuto. Alcune pagine descrivono bene la sua immersione a sensi accesi nel mondo naturale, la sua partecipazione immediata ai ritmi di quel che lo circonda:

Avvertii come un riacutizzarsi, un alterarsi dei sensi, strano ma non privo di piacere, come se stessi vivendo la natura selvaggia tutt’intorno a me a un livello più elevato e intenso. Anzi, non solo vivendola, ma diventandone parte, immergendomi in essa così completamente da poter udire il frusciare di ogni formica strisciante, lo stridere dell’ala asciutta di ogni mosca o il masticare di una vespa su un pezzo di legno putrido celato alla vista. Inalando profondamente odorai il prato, l’aglio, le erbe e il polline nell’aria, e anche l’aria salmastra del mare. Un banchetto dei sensi. Misi nitidamente a fuoco i più minuscoli dettagli: l’architettura scheletrica di una piccola foglia morta rimasta intatta a terra per tutto l’inverno; il fremito di un solitario filo d’erba laddove gli altri lì accanto erano immobili. Anche il sommesso ansimare del cane si adeguò al ritmo del mio cuore, che mi faceva riecheggiare nei timpani una dolce cadenza di dolce sangue in corsa. Una goccia di sudore mi colò lungo la tempia sinistra. Mi sentivo vivo. Gloriosamente, follemente vivo. (p. 49)

Poi ci sono la convivenza con un tasso, il mutuo aiuto stabilito con un alveare d’api e il dialogo con il cane Butler, pronto a mostrare fiducia e complicità oltre ogni barriera comunicativa e di specie, testimone partecipe del nuovo sodalizio tra Dulcie e il suo giovane amico. Eppure, è solo dopo il contatto prolungato tra i due e il conseguente incontro con la poesia che l’interazione con la natura prende corpo davvero. È solo grazie alla poesia che la natura diventa visibile, che i suoi suoni assumono un nome, i suoi ritmi una forma.

Scriveva Calvino, in Usi politici giusti e sbagliati della letteratura (1976), che «la letteratura è necessaria alla politica prima di tutto quando essa dà voce a ciò che è senza voce […]. Allo scrittore […] può accadere d’esplorare zone che nessuno ha esplorato prima, dentro di sé o fuori; di fare scoperte che prima o poi risulteranno campi essenziali per la consapevolezza collettiva». Ebbene, Robert entra gradualmente in contatto con questo potere della parola, con la capacità di vedere oltre la superficie e oltre il presente, di aggiungere vita alla vita, includendo ogni essere vivente nel percorso.

In questo tragitto, il libro di Myers incontra idealmente gli esperimenti narrativi di Max Porter e quelli poetici di Elizabeth-Jane Burnett, entrambi alla ricerca di un’innovativa resa su pagina della polifonia naturale. Il percorso è quello inaugurato già nel 1854, dall’altra parte dell’oceano, da Henry David Thoreau col suo Walden, ma il Regno Unito vanta una folta progenie in questo senso. Roger Deakin, nel 1999, ha combinato in Waterlog una classica trama narrativa con un nuovo modo di scrivere e descrivere la natura, per così dire dall’interno. Più recentemente lo hanno seguito Robert Macfarlane con Underland (2019), Brigit Strawbridge Howard con Dancing with Bees (2019) e Stephen Moss con Twelve Birds of Christmas (2019), solo per citarne alcuni. E se il cosiddetto “new nature writing” si caratterizza per la centralità dell’autore nell’esperienza descritta, a diretto contatto col mondo naturale, si potrebbe dire che All’orizzonte di Myers ne acquisisca alcuni tratti per poi rientrare nelle coordinate del romanzo più tradizionale.

Robert stesso si trova a curare un libro e poi a scriverne un altro. Egli stesso è in grado di subodorare il futuro declino dell’industria carbonifera britannica e di evitarne la lenta agonia, una volta imparato a leggere il libro del mondo «con parole cangianti e nessuna scrittura», per dirla con De André. Egli stesso finisce per preferire la poesia alla sua assenza. E coì un altro cerchio si chiude, un’altra dialettica trova la sua sintesi. Tra poesia e prosa, natura e storia, giovinezza e maturità, emerge All’orizzonte, portando con sé i segni degli incontri che lo hanno originato, la voce di Robert e Dulcie, degli animali e del mare, delle storie passate e, soprattutto, di quelle a venire.


Benjamin Myers, All’orizzonte, trad. it. di Simona Garavelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, pp. 240, € 16,50.