Si conclude con una rassegna di recensioni il progetto di collaborazione fra la rivista “La Balena Bianca” e il Master in Editoria promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e dall’Università degli Studi di Milano nel contesto della sesta edizione del Premio POP – Opera Prima, coordinato da Andrea Tarabbia. A coronare mesi di discussione e lavoro in classe intorno ai libri in lizza per il premio, le studentesse e gli studenti del Master si sono cimentati nel recensire a gruppi i titoli giunti nella cinquina finale.
[qui la prima recensione]

Questa recensione è a cura delle studentesse e degli studenti Martina Battocchio, Filippo Tonti, Giulia Munari, Irene Chieli, Virginia Nencetti.


Parlare de Le cose di Benni, esordio letterario di Giacomo Perale, non è cosa facile: è un romanzo intimo, viscerale e claustrofobico, che trova nell’ampiezza di temi significativi una propria dimensione originale. Narrato dall’unico punto di vista malato di Davide, racconta la storia dell’amicizia con Benni, presentata come complessa e tesa: un’amicizia che è la storia della solitudine di due ragazzi ed è anche la perdita di sé nella malattia dell’altro.

La prima informazione che riceviamo su Benni e che caratterizza in nuce il suo personaggio è che ha tentato di darsi fuoco: lungo le pagine scopriamo a poco a poco il suo approccio alla vita, i suoi tormenti e le spigolosità del suo carattere, che la vicinanza ossessiva e premurosa di Davide tentano invano di smussare. Il loro legame turbolento è la chiave di lettura per varcare la quarta parete e affrontare senza reticenze morali né pregiudizi tutto ciò che si nasconde dietro le cose: la mai nominata depressione, le relazioni, le paure e i pensieri che la ragazza tiene per sé. La voce e gli occhi di Davide ci raccontano le vicende e il mondo della sua migliore amica, permettendo al lettore di conoscere solo la parzialità soggettiva della quotidianità vissuta insieme. I due passano le giornate tra il bar della Statale di Milano, le canzoni di Dalla e le maratone di film anni ‘80 e, per effetto delle ricorrenti citazioni musicali e cinematografiche disseminate nel testo, sembrano muoversi in un’atmosfera nostalgica, necessaria per evadere da una contemporaneità alla quale non sentono di appartenere. Tali richiami, inoltre, rappresentano i riferimenti culturali condivisi sui quali è costruita la loro relazione, le prove tangibili dei momenti di profonda confidenza che hanno vissuto e ormai perduto, e che forse proprio per questo hanno bisogno di continuare a rievocare.

Il ricordo dell’affetto e della smarrita sintonia, però, non riesce a scalfire il muro di sottintesi e omissioni che aleggia tra i due protagonisti, sicché l’espressione del loro intimo rimane comunque racchiusa in monadi intoccabili e separate. A partire dal titolo, il lettore viene catapultato nell’apatia comunicativa che assedia i personaggi e mina le relazioni, dimostrando come anche le cose quotidiane possano non avere un nome.

Avvicinarsi infatti a questo romanzo significa prima di tutto scontrarsi con il suo titolo, apparentemente fumoso e indistinto. Il termine “cose” – polisemico e confuso per definizione – introduce il lettore al tema dell’incomunicabilità tra i personaggi e alla loro inconsistenza. Le “cose” che riguardano Benni sono gli stati d’animo e le preoccupazioni che il narratore-protagonista osserva, tentando di comprenderle. Sono quelle che riguardano l’interiorità frammentata di Benni. Sono quelle che interagiscono in modo disfunzionale nella rete di amicizie – sono davvero amicizie? – e che fanno sì che questi ragazzi, Davide, Benni e i due rispettivi amici Carlo e Rebecca, non riescano ad adempiere alla richiesta di mutuo soccorso gridata attraverso le pagine. Le cose di Benni è un titolo funzionale che racconta in un sintagma l’incapacità di chi non riesce ad avere un rapporto sano con chi ama. Non meno rilevante è notare che “cose” è l’unica parola con la quale è possibile definire tutto ciò che rientra nel campo gravitazionale di Benni e che quindi per Davide assume un’improvvisa ed esorbitante rilevanza; è da notare che sempre all’indefinitezza di “cose” si affida l’onere – che in realtà nasconde il turbamento e la paura – di nominare la sfera delicata e spigolosa attinente alla salute mentale.

La scrittura leggera e di grande impatto espressivo, evidenzia per contrasto l’impasse comunicativa tra i personaggi: il codice linguistico così vivo e originale, creato ad uso e consumo dei due, traspare con vivacità nel continuo botta e risposta dialogico, cifra stilistica e costituente essenziale del romanzo. Le ampie porzioni di dialogo vengono inframmezzate da quei silenzi e da quelle distrazioni circostanti che in un certo senso banalizzano il vivere. A livello di scrittura, dunque, avviene una scarnificazione narrativa che è metafora di quella emotiva, e che in ultima analisi produce un effetto di spontanea e spietata mimesi del reale. A corroborare la volontà mimetica sta anche la fedele riproduzione grafica (per spazio e font utilizzato) di conversazioni in chat o di messaggi sparsi su post-it, che mettono il lettore in una posizione di forte immedesimazione. Più precisamente, è la posizione privilegiata e inquietante che permette di osservare la vita di Davide – e con lui quella di Benni – da dietro le sue spalle. Ne risulta un andamento romanzesco quasi teatrale a scenografie essenziali, in cui a spiccare sono le parole – soprattutto quelle non dette – e quei concretissimi particolari che, facendo da costante rumore di fondo, tanto spesso distraggono i protagonisti da ciò che davvero vogliono.

La quiete apparente del romanzo, dovuta solamente alla calma snervante con cui Davide partecipa alle azioni e ne subisce le tensioni, è ben rappresentata dalla copertina (o meglio, dalla sovraccoperta) del libro: su un turchese elettrico spicca al centro l’illustrazione di un fiammifero acceso. L’incipit del libro (Benni che si dà fuoco dopo essersi bagnata di benzina) non tarda a svelare l’allusione grafica; e così la quarta: «La verità è che ho preso la benzina e mi sono data fuoco». Dello stesso colore del fuoco, poco sopra al fiammifero, sta infatti il titolo, estrema e unica sinossi possibile del romanzo.

A completare il progetto grafico c’è l’etichetta di genere romanzo e un blurb di Walter Siti che permette di innalzare il giovane esordiente ad autore degno di nota. La citazione funziona anche come strumento di posizionamento che individua il testo come destinato a coloro che cercano in un libro una storia capace di straziare «più coi silenzi che con le parole». Di fatti il romanzo sfrutta in modo molto abile, sia graficamente sia semanticamente, il bianco tipografico per creare la sensazione e di silenzio e di sospensione. La violenza sottesa di questo libro passa più da tutti i non detti e le spiegazioni non date che da altro. Anche per questo motivo la quantità di spazio che accompagna il testo è utile a creare un ambiente solitario e disagevole.

Ciò nonostante, scarsa sembra essere l’attenzione riservata a questo romanzo d’esordio da parte della stampa e l’attività promozionale della stessa casa editrice Rizzoli. L’autore, classe 1991, si forma sotto la guida di Walter Siti alla scuola Belleville di Milano, che invece sembra supportare al meglio il suo allievo. Ne sono testimonianza l’evento online organizzato dalla scuola per l’uscita del libro, la citazione sulla bandella e l’importante recensione da parte dell’autore di Troppi paradisi. Più che un autore Rizzoli, Perale parrebbe quindi essere uno scrittore Belleville. Chi sfogliasse il libro prima di comprarlo potrebbe porsi qualche interrogativo riguardo alla statura artistica dell’autore. Le aspettative del lettore scettico, tuttavia, tendono ad alzarsi naturalmente di fronte all’endorsement sitiano, così come rassicura il fatto che Le cose di Benni viva nella collana di narrativa italiana di Rizzoli.

All’interno di questo panorama – quello della narrativa italiana – non è certo questo il primo romanzo a prendere le mosse dal disagio psicologico di giovani ragazzi e ragazze: si pensi al recentissimo Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli, edito da Mondadori e vincitore del Premio Strega Giovani 2020, ma anche a La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, edito sempre da Mondadori e diventato pietra di paragone per i romanzi con tematiche analoghe, almeno nel contesto editoriale italiano. Le cose di Benni, tuttavia, si differenzia dalle opere sopracitate per un aspetto tutt’altro che secondario: il lettore si troverà tra le mani un libro in cui lo stile è frutto di un’evidente ricerca linguistica, segno di una grande consapevolezza, nonostante si tratti di un esordio. Perale è infatti riuscito a dar vita a un romanzo in cui il contenuto si rispecchia nella forma e viceversa, in un gioco di rimandi formali in cui nulla è lasciato al caso e tutto converge vorticosamente in un’atmosfera intima e perturbante.


Gianmarco Perale, Le cose di Benni, Rizzoli, Milano 2021, 234 pp. 19,00€