Negli ultimi anni è sotto gli occhi di tutti: movimenti e mobilitazioni ascrivibili a una non meglio definita destra reazionaria godono di un successo crescente. Ed è sempre più difficile per le scienze sociali interpretare una tale avanzata. 

Gran parte degli sforzi analitici sono stati infatti rivolti alla decifrazione degli sviluppi partitici di tali movimenti. Una dimensione tuttavia spesso evitata, se non direttamente osteggiata. In effetti, si tratta quasi sempre di fenomeni strutturalmente differenti, connotati da composizioni e interessi spesso fortemente contrastanti; eppure, vi è tra questi una certa simpatia, un’aria di famiglia

Davanti all’urgenza della situazione, le categorie disponibili sembrano insufficienti. Da un lato, sono ancora relativamente poche le ricerche di stampo accademico sui movimenti di destra; dall’altro, abbonda una vasta pubblicistica “d’opinione”, più o meno rivolta a un pubblico generalista, ma che non sembra allontanarsi dalla cosiddetta breakdown theory. Si tratta di un paradigma sociologico (o meglio, un suo luogo comune) caduto in disgrazia nel mondo scientifico dagli anni Settanta in poi, ma tuttora più che diffuso altrove. L’estensione delle destre e della violenza reazionaria, secondo la teoria, risponderebbe a una crisi dell’unità sociale e all’atomizzazione interna. 

Occorre quindi ricominciare quasi daccapo, muoversi oltre alle banalità di una certa letteratura e cercare spunti più fertili, se non si vuole cadere nelle solite pastoie in cui si sprofonda non appena si pensa che “senza uno spirito cittadino vincono i populisti” o che le destre “rispondono a un bisogno di entusiasmo e di meraviglioso”.

A distanza di pochi mesi sono usciti due testi curiosamente in risonanza l’uno con l’altro, pur nelle marcate differenze. Si tratta di Neofascismo in grigio: La destra radicale tra l’Italia e l’Europa (Einaudi, 2021) di Claudio Vercelli e La rivolta dello stile: Tendenze e segnali dalle subculture giovanili del pianeta Terra (DeriveApprodi, 2021), a cura di Stefano Crisante, Angelo Di Cerbo e Giulio Spinucci.

Il primo propone lo studio di un fenomeno contemporaneo e ancora di pressante attualità, come la crescente fortuna di mobilitazioni autodefinite “apolitiche”, ma marcatamente reazionarie nei tratti, quali le manifestazioni per le riaperture commerciali durante la fase pandemica. Il secondo è la riedizione ampliata di un’antologia del 1983 sulle cosiddette bande spettacolari (mods, skinheads e punk) in Italia e all’estero. Un fenomeno all’epoca particolarmente discusso, e ora in larga misura tramontato. 

Oltre alla distanza temporale che separa i due libri – poco meno di quarant’anni – è lo stesso oggetto d’analisi a risultare sostanzialmente eterogeneo. Se l’obiettivo di Vercelli è la descrizione delle dinamiche fondamentali di movimenti e dimostrazioni politiche, la collettanea di testi affronta temi che ondeggiano tra devianzatrasformazioni dei consumi culturali e avanguardie musicali.

La prima differenza è strettamente demografica. Se in La rivolta dello stile il discrimine generazionale e la collocazione negli strati giovanili risulta dirimente, in Neofascismo in grigio il ventaglio si fa più sfumato e variegato. 

Ne consegue che anche gli approcci interpretativi adottati paiono marcatamente divergenti. Negli anni Ottanta, infatti, i centri di ricerca di Chicago e di Birmingham costituivano un punto di riferimento obbligato per l’analisi delle “subculture” giovanili; oggi, invece, i debiti verso queste scuole si fanno generalmente più timidi.

Dal canto suo, Vercelli esprime i suoi richiami teorici in una maniera molto più tenue. Oltre un’assonanza con le indagini di Furio Jesi sulla “cultura di destra” si ha ben poco di definito. Se dunque La rivolta dello stile insiste nel ricercare le trasformazioni simboliche della conflittualità di classe, Neofascismo in grigio si concentra sui punti di convergenza tra le nicchie politiche estremiste e lo spettro “ufficiale” del discorso.

I due volumi risultano dunque autentiche testimonianze dei loro anni; e non soltanto nel divario tra le diverse strumentazioni categoriali e metodologiche. È la stessa serie di preoccupazioni avvertite dagli autori a determinare, in una certa misura, tanto le scelte nell’impostazione del problema quanto le conclusioni tratte dalle esplorazioni.

Come ricorda Crisante nella nuova prefazione a La rivolta dello stile, la chiamata alle penne prendeva allora l’avvio da una serie di interrogativi che le nuove identità muovevano alle strutture organizzative della sinistra parlamentare – nella fattispecie, l’Arci e le Estati Romane – durante gli anni successivi al ’77. Si trattava, in breve, di individuare la carica di conflittualità di classe di cui, in pieno periodo di “riflusso”, si sarebbero fatte portavoce le nuove bande.

A inquietare Vercelli, invece, è il problema opposto. L’antagonismo sociale risulterebbe il frutto maledetto di una sfiducia verso la mediazione istituzionale, dalla quale non potrebbe che sorgere necessariamente il rifiuto per il pluralismo civile.

Eppure, fatta la tara di queste divergenze, si rintracciano parecchie assonanze. E, quel che più conta, nelle rispettive introduzioni (di carattere più generale) emergono tratti capaci di far reagire i due testi in maniere impreviste. Lette “contropelo”, si ricavano indicazioni più che fertili, che in molti casi permettono di andare oltre i singoli casi di studio – che purtroppo deludono spesso e volentieri le aspettative. Certo, avendo a che fare con fenomeni sociali in pieno divenire, caratterizzati da una spiccata varietà di temi e dai confini decisamente mobili, una descrizione esauriente è quasi impossibile. Resta tuttavia in chi legge una certa scontentezza, che invita al rilancio e alla riapertura dei cantieri.

In entrambi i casi, si ha a che fare con esperienze collettive profondamente ambigue. Con riferimento alle retoriche populiste, revansciste e neofasciste più diffuse, Vercelli nota giustamente un “asfissiante riferimento al ‘non conformismo’ come radice della propria identità” (p. XII), sebbene si tratti di contesti fortemente gregari e contraddistinti dall’insorgenza di chiare leadership e forme di culto dei “capi carismatici”. Non dissimilmente, all’interno di La rivolta dello stile si sottolinea quanto l’elemento divergente delle subculture giovanili si ibridasse con elementi pregressi, che venivano in tal modo rinnovati:

Infatti nei comportamenti e nei rituali delle bande coesistono quasi sempre le caratteristiche istituzionali del sistema, per quanto riciclate in modi critici o “ironici”, e le caratteristiche, palesi o latenti, che “emergono” dalla crisi stessa del sistema alludendo a un nuovo tipo di organizzazione dei rapporti sociali (p. 35).

Con l’eccezione forse del punk, gli autori e le autrici dipingono degli agglomerati comunitari che rivendicano un’estraneità alla politica e una collocazione “né a destra né a sinistra”. Oggi è facile ritrovare in affermazioni come queste qualcosa di più che un semplice qualunquismo; e, piuttosto, la consapevole retorica tra affabulazione e malafede messa in campo da forze politiche come Lega o Movimento5Stelle. Le controculture delle bande, nella loro spettacolarità, sono invece ricondotte a una “forma latente di politica non ideologica” (p. 72). Procedendo con la lettura, si comprende subito come la questione cruciale – sebbene non venga sempre tematizzata nei diversi contributi – sia riuscire a cogliere il divario tra protesta e rottura

Non è raro vedere imputare quest’ambivalenza degli obiettivi a una mancanza di prospettive ideologiche definite e, soprattutto, all’assenza quasi completa di testi teorici di riferimento. Ma anche qui, piangere l’esilio degli intellettuali risulta, come minimo, controproducente. Non solo è ingenuo pensare che questi siano una componente indispensabile per un movimento sociale; ma, in questo specifico caso, impedirebbe di vedere quali scopi e finalità specifiche siano comunque presenti. 

In entrambe le analisi, infatti, si insiste giustamente sul recupero di elementi culturali pregressi. Quel che preme sottolineare è che ciò non significa soltanto riciclare costumi e lessici dal passato, ma la conservazione di precise gerarchie e posizionalità sociali.

Il caso arcinoto degli skin lo testimonia a pieno. Gli atteggiamenti nativisti, identitari e, spesso e volentieri, xenofobi e misogini vengono promossi non soltanto descrivendoli come pratiche trasgressive; ma, soprattutto, come testimonianze del proprio inserimento in precisi punti della conflittualità sociale, considerati come connaturati a quella working o middle class che si pretende di rappresentare. Davanti al “pensiero dominante” non si cerca la sovversione. Si cerca piuttosto la concorrenza, la corsa alla spartizione del monopolio simbolico per l’autorappresentazione di un gradino della piramide sociale.

Il vecchio ritorna, ma non si tratta di un semplice rimpasto di tropi simbolici o lessicali. Anzi, come viene sottolineato dagli autori, davanti a questi fenomeni “non ci si orienta a partire dalle ascendenze culturali” (p. 39). Vercelli infatti sottolinea che:

poste queste premesse, semmai ha quindi senso parlare di rigenerazione di motivi e atteggiamenti di fondo […] che di volta in volta possono dare argomenti anche a forze politiche che paiono avere o poco o nulla da condividere con quella parte della storia in cui il fascismo storico occupò per intero la scena (p. 6).

Viene il sospetto che i singoli prodotti rappresentativi siano secondari rispetto all’alimentazione di un vettore polemico. Purché si possa giustificare la propria posizione, insomma, tutto fa brodo.

Come detto in apertura, i capitoli dei due libri solo raramente tengono fede alle precauzioni che suggeriscono. Uno dei casi più evidenti è il capitolo di Vercelli su QAnon. Se, ammettiamolo, ci si sarebbe attesi uno sguardo più generale sulla postura dei fedeli di Q e di Trump, osservando come la caccia ai loro bersagli sia condotta con armi che possono essere mediate dal culto, la ricostruzione purtroppo si fossilizza proprio sui singoli manufatti culturali. Dimenticando che, proprio poiché popolate da alfieri del “pensiero critico anticonformista”, sarà ben raro trovare nelle chat di credenti il minimo consenso tra due membri. 

Il più delle volte questo conduce a una sistematizzazione tra elementi ideologici dispersi e impugnati alla bisogna, incapace di leggervi un’attinenza con quanto attivamente portato avanti dai militanti. Se si vuole cercare un minimo comune denominatore è dunque nella direzione dell’aggressività:

Sempre più appare evidente che non è il soggetto a produrre conflitto quanto piuttosto un campo conflittuale ad accendere aggregazioni di individui a farsi ‘attori’ del conflitto (p. 34).

Posti l’uno accanto all’altro, i due testi mostrano chiaramente quanto resti vero quel che Michel Foucault scriveva nel corso del ’72 sulla società punitiva: la matrice di ogni pratica e discorso politico non è il dibattito, ma la guerra civile. La galassia di mobilitazioni non dice assolutamente nulla di nuovo finché ci si ostina a leggerla come uno “sfogo” impulsivo alla mancanza di legami informali; o come la conseguenza di alcune specifiche interpretazioni o “teorie” dell’attualità, che l’osservatore dovrebbe collezionare come un erudito. 

Fuori da questo pantano, però, si apprende una lezione preziosa. Questi movimenti sono infatti la riprova dell’esistenza di intrecci e affinità, comunanze di atteggiamenti e interessi dove, nel procedere verso obiettivi più o meno compatibili (la conservazione di una società intesa come ordine gerarchico), si racimolano strumenti organizzativi e culturali di fortuna, impugnandoli come armi improprie e scartandoli non appena esauriscono la loro efficacia. 

Sic rebus stantibus, non vi è nessuno da illuminare. E, se non vi sono storture da riallineare, ma solo una molteplicità linee di conflitto, ne consegue che non vi è un unico avversario, ma una pluralità di fronti e nemici diversi, da prendere con la medesima serietà. Infine, ci ricordano che nessuno attende una guida rischiaratrice, poiché i leader stessi sono i primi ad essere strumentalizzati.


S. Crisante, A. Di Cerbo, G. Spinucci (a cura di), La rivolta dello stile. Tendenze e segnali dalle subculture giovanili del pianeta terra (1983), Roma, DeriveApprodi, 2021, 288 pp., €12,75.


Claudio Vercelli, Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, Torino, Einaudi, 2021, XVI-112 pp., €15.