Il numero 389 di “Aut aut”, a cura di Alessandro dal Lago e Massimo Filippi, è un fascicolo speciale dedicato al tema della Covid-19. Due gli elementi che lo differenziano fin dalla copertina rispetto a molti altri contributi sulla questione. Il primo è una scelta linguistica: il titolo del volume, Riflessioni sulla pandemia, è semplice e sobrio, lontano dal registro altisonante, ricercatamente arguto, quando non espressamente pretenzioso della “covid-pamphlettistica”. Il secondo elemento è una scelta temporale: scrivere della pandemia a novembre 2020 quando la realtà virale è consolidata, quando c’è qualcosa come una realtà virale, non ha lo stesso significato dei molti instant book usciti in piena emergenza tra la primavera e l’estate scorsa. La riflessione, d’altronde, può necessitare dei tempi lunghi del ruminare. E tuttavia, anche questo volume affonda le sue radici in quello stesso momento, quando sul sito della rivista viene aperto subito, “senza aspettare i tempi tecnici”, uno spazio virtuale di riflessioni “a partire dall’esperienza della pandemia”. Segno che la diffusione globale del virus Sars-CoV-2, un iperoggetto (p. 13) in 4D – quattro sono le sue dimensioni fondamentali individuate dai curatori nella Premessa: aspetto medico, biologico, zoonotico e socio-politico (pp. 4-8) –, ha intruso fin dall’inizio con immediata, inaggirabile imperiosità lo “spazio di gioco” del “soggetto” rendendo entrambi – spazio di gioco e pandemia – in-e-ludibili, per pasticciare lo stile filosofico di Antonio Volpe nel suo contributo al volume, Ormai soltanto un virus ci può salvare?.

Se, come osserva Mariella Pandolfi nel saggio Homo pandemicus: governare la precarietà?, utilizzando le categorie di fine del mondo e apocalisse culturale elaborate dall’antropologo Ernesto De Martino, «l’incontro-scontro fra avvenimenti della storia e microstorie soggettive, sembra essere una tematica […] molto pertinente all’esperienza pandemica globale del 2020, dove coesistono il rischio nell’evento collettivo e il rischio di frammentazione dei vissuti soggettivi» (p. 136), non sorprenderà, né è del tutto da biasimare, il carattere bulimico e autocentrato (cfr. Premessa, p. 3) di certe descrizioni di pensatori e pensatrici sull’impatto “locale” e micro-esistenziale della pandemia, non necessariamente impatto psicopatologico a tutti gli effetti (come la schizofrenia che interessava a De Martino), ma certamente venato da sofferenza psichica.

Da una tale impostazione, i nove saggi che compongono la parte monografica del numero prendono dichiaratamente le distanze, seguendo, invece, altre due direzioni, già adombrate nei contributi appena citati. Da un lato, la riflessione filosofica (Filippi, Cimatti, Kulesko, Volpe), dall’altro quella antropologica e sociologica (Dal Lago, Fassin, Pandolfi, Giordano). A chiudere queste riflessioni una nota di Giorgio Cosmacini sulla storia anche lessicale della pandemia come concetto medico.

La molteplicità di voci che esprimono punti di vista diversi su un argomento comune si presta al procedere in questa sede non mediante rassegna puntuale del contenuto di ciascun contributo, ma tentando di intessere tra queste voci un dialogo o, almeno, dei suoi frammenti. Al contempo, si adotterà una «posizione liminale» per certi versi simile a quella del pastiche analizzata da Watkins in La lettura che trabocca in scrittura. Appunti sull’arte del pastiche che consiste nel «farsi sensibili all’aria che circola tra i personaggi» (p. 177).

Verrebbe da dire che quella che circola è (una diagnosi del) “mal’aere” o “malaria” che la pandemia attuale quale «fenomeno natural-culturale» (Premessa, p. 6) si porta appresso – oggi solo metaforicamente – come sua stratificazione semantica medica e sociale. Le epidemie e pandemie del passato, infatti, erano pesti, pestilenze, influenze pestifere, tutti termini «il cui prefisso pes», spiega Cosmacini in Una nota su paure ed epidemie nella storia, «viene collegato dai glottologi a una radice verbale antichissima, di origine indoeuropea, significante “soffiare”» (p. 162). La teoria aerista, che appunto identificava l’eziopatogenesi dei morbi nella malaria, nel soffio esiziale, nei miasmi ha tenuto testa e prevalso per molti secoli sull’interpretazione contagionista, incriminante invece il contatto. Solo con la fine dell’800, grazie ai lavori di Vichrow sulle Cellularpathologie e di Pasteur e di Koch sui microrganismi, la teoria contagionista si impone definitivamente e i fattori biologici in gioco nella malattia virale iniziano a essere chiariti: agenti «patogeni incapaci di riprodursi autonomamente, avendo bisogno di cellule ospitanti da parassitare» (p. 161).

Insisto, qui, sul passaggio da un modello biologico-medico interpretativo all’altro perché è tale transizione ciò che ha aperto la via a una comprensione fondamentale: che le malattie negli umani e negli animali potessero essere causalmente connesse. È il concetto di zoonosi. E la Covid-19 è una zoonosi.

È indispensabile notare che l’accettazione di questa scoperta all’interno della sola comunità scientifica (figuriamoci nell’opinione pubblica) è stata ostacolata per quasi un secolo proprio per effetto di quell’«insieme di dispositivi discorsivi e materiali» (Filippi, p. 18) che da migliaia di anni – in forme diverse – rende possibile l’insorgere stesso delle zoonosi: l’antropocentrismo o, meglio, lo specismo. Esso, infatti, da un lato, traccia «il sacro confine di specie tra l’Uomo e l’Animale» (Filippi, p. 17) rendendo impensabile – nonostante Darwin – che umani e altri animali potessero condividere qualcosa, foss’anche le malattie, dall’altro lato costituisce le condizioni di possibilità dello sfruttamento degli animali che li trasforma in possibili serbatoi di incubazione e fonti dello spillover. È proprio il saggio di Massimo Filippi (Un quasi niente che ci ri/guarda) a mettere a fuoco questo primo, cruciale, ma spesso negletto, elemento della diagnosi della “malaria” che stiamo tratteggiando. «La pandemia di Covid-19 è, almeno per ora, l’ultimo incidente di una ben precisa serie di tecnologie che hanno consentito l’appropriazione dei corpi animali (dalla domesticazione iniziata circa 10.000 anni fa agli allevamenti, ai wet markets e ai mattatoi odierni) e dei loro territori (condizione che porta gli umani a stretto contatto con “animali selvatici” e i loro patogeni “alieni”)» (p. 17).

Nel suo contributo, Volpe ci dice che una di queste tecno-logie è la metafisica occidentale, in quanto tecnica del senso, secondo la definizione di Jean-Luc Nancy. Tale «impresa del senso», con Nancy, funziona mediante un doppio movimento che è intrinsecamente (trans)umanista e antropocentrico: «comincia sempre col significare la presenza anteriore o trascendente di un senso perduto, dimenticato o alterato» (citato p. 79) (condizione animale o divina, caos o destino, ecc.), da cui emerge quindi il soggetto Umano solo, disorientato, gettato, nell’angoscia, in crisi, che esige «volontà di Senso e volontà del suo ritorno» (p. 78), progetto di significazione che si vuole svelamento, restaurazione, di quel senso perduto. Volontà che l’Occidente compirebbe mediante «sacrificio spirituale, dunque sacrificio del soggetto nel doppio valore del genitivo, ossia il soggetto che si sacrifica a sé stesso» (p. 80); ontote(le)ologia del “nuovo sacrificio” che promette la rivelazione del Senso (Libertà, Umanità, Storia, Comunità, ecc.) «attraverso il dolore e l’orrore come punto di accesso» (p. 81). Sulla base di questa lettura, Volpe ci mette in guardia da quanto la pandemia da Sars-CoV-2 abbia mostrato questa millenaria attitudine alla rivelazione-nella-crisi della tradizione metafisica occidentale. È chiaro, dunque, che è necessario pensare una diversa metafisica. Forse partendo proprio dall’ontologia processuale, assolutamente immanente e materialmente aleatoria del virus stesso, sforzo teorico in cui si cimenta Felice Cimatti nel suo Pensare con il virus.

Ad ogni modo, non è quindi inedito che tutto il «complesso escatologico-apocalittico» (Volpe, p. 74) con i suoi spettri sacrificali si sia attivato di fronte alla crisi pandemica, dopo essere già stato risvegliato dalla crisi climatica. Non a caso, la Chiesa e lo Stato – o meglio la Patria –, che potremmo vedere come istituzioni ontoteologiche per eccellenza, hanno impostato sul registro del sacrificio la propria strategia di comunicazione in risposta alla crisi. Lo evidenzia molto bene Serena Giordano (Covid in TV. Spot e propaganda nel lockdown) nella sua analisi dello storyboard di quel «sacrificio che la Chiesa [ha messo] prontamente in scena» (p. 157) che è stata la benedizione Urbi et Orbi di Papa Francesco in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020. Anche gli Stati hanno fatto ampio ricorso all’armamentario del sacrificio quando hanno reagito alla crisi con l’adozione del lockdown: “sacrifichiamo parte delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali, parte delle attività economiche, in nome delle vite da salvare”. Ma quale vita e le vite di chi? Si chiede Didier Fassin (Vite invisibili ai tempi della pandemia), mostrando la distribuzione differenziale dell’importanza della vita nella crisi Covid-19 attraverso l’analisi della situazione dei carcerati e dei richiedenti asilo. Un aspetto, questo, che mette in luce quanto la pandemia sia un problema soprattutto sociale e politico, come evidenzia l’intervento (Note sull’incertezza) di Alessandro Dal Lago.

Arriviamo così al secondo elemento della diagnosi del “mal’aere” pandemico: il capitalismo neoliberale, nel suo essere “tutto un tipo di società”, con specifiche forme economiche, forme giuridico-politiche e di popolazione che strutturano relazioni di potere e processi di soggettivazione (utile qui è il saggio Cambiare l’anima. L’ortopedia morale del neoliberalismo di Edoardo Greblo). La crisi pandemica, intersecandosi con la crisi climatica, può essere infatti letta come l’attuale manifestazione della tendenza intrinseca a ogni forma di società capitalistica al conflitto tra valorizzazione del capitale, per sua stessa logica cieco alla distruzione di umani e non-umani, e riproduzione sociale (in senso femminista, ma anche tout court). Manifestazione della sua insostenibilità per la vita.


Aut aut vol. 389: Riflessioni sulla pandemia