La perdita e il perdono (Pietre Vive editore, 2020), di Roberto R. Corsi, è un libro notevolmente più eterogeneo del precedente Cinquantaseicozze (Italic Pequod, 2015): lì, sequenza numerata di testi in versi lunghi liberi, dall’andamento discorsivo e agglutinante, quasi un lungo poema sospeso fra flânerie, elegia continuamente affiorante e continuamente fustigata, e dolore di matrice psico-sociale che si eleva a male esistenziale (si veda la Cozza III, che analizzai qui – analisi poi riportata in postfazione al volume); qui, la sezione eponima più coesa La perdita e il perdono, divisa a sua volta in cinque sotto-sezioni, viene fatta precedere da ripescaggi e selezioni da lavori precedenti: L’oracolo della pizza (pubblicato in formato Epub, Kindle e Pdf, e liberamente scaricabile dal sito dell’autore), del quale si ripropongono «Tre spicchi»; e la sezione Personal Branding, mai uscita in ebook eppure non integrata nel progetto principale eponimo del libro.

L’impressione che se ne deriva, scorrendo l’indice quale prima spia del macrotesto, è di un lavoro ibrido fra auto-antologia e raccolta nuova: due nature che si spartiscono circa il 50% delle pagine ciascuna (la sezione La perdita e il perdono comincia a pagina 27 su 53 totali, note finali escluse). Tale natura bifronte è sottolineata poi dalla diversa formattazione, all’interno stesso dell’indice, riservata a ciascuna delle due parti: titoli in colonna, secondo l’uso tipografico tradizionale, per le prime due sezioni (fatte precedere da un’Avvertenza e dalla poesia Jeux de Vagues); titoli meno convenzionalmente elencati in orizzontale, separati da ellissi (…), per La perdita e il perdono. Questa scelta non può essere stata dettata da trascuratezza o approssimazione, soprattutto considerando la bellezza dell’oggetto-libro (l’immagine di copertina, scattata dall’editore stesso, Antonio Lillo; il formato, la qualità e il colore della carta). Il legittimo desiderio secondo cui l’oggetto-libro debba essere coestensivo all’opera, al progetto, è tuttavia destinato a rimanere eluso. Come vanno dunque interpretate queste scelte ancipiti?

A livello di presentazione, proprio di personal branding, sembra emergere un’esitazione tra il voler salvare qualcosa del proprio passato poetico, dandogli la chance dell’ufficialità, e l’incapacità o il rifiuto di proporsi monoliticamente, di identificarsi in (e credere a) un progetto in grado di farsi veicolo dell’autore. Questo rilievo non è evidentemente dettato da poca cura, ma da forti motivi psicologici e perciò di poetica: «Per essere creduto, perché vada tutto liscio, | devi inscenare o credere sacralità nell’atto», leggiamo a p. 15 (Consuntivo: lirismo e poesia), a cui si aggiunge la laconica e sconsolata constatazione in explicit «a me proprio non riesce». Proporre un progetto coeso e coestensivo al libro avrebbe significato proprio «inscenare o credere sacralità nell’atto»: una scorciatoia che Corsi non vuole o non sa concedere a sé stesso, in accordo con l’esortazione poundiana in esergo: «Pull down thy vanity, I say pull down».

Ma c’è altro: le sollecitazioni troppo entropiche della realtà – a maggior ragione nell’annus horribilis appena trascorso – finiranno sempre per scavalcare anche gli aggregati più dispersi e in teoria flessibili, e così nell’Avvertenza a p. 7 (Al Panfilo! (e al Lettore)), apprendiamo della decisione dell’autore di non aver incluso le poesie composte nel solco della pandemia, a ridosso della pubblicazione: il che avrebbe ulteriormente accresciuto l’eterogeneità e l’entropia del libro. Il fatto stesso di volerlo segnalare, quasi una excusatio non petita, suggerisce una sensibilità anti-ideologica, dove per ideologia penso a una tensione unificante che voglia svincolarsi dalle sollecitazioni idiosincratiche del contingente. L’eterogeneità ha il pregio di non annoiare, nonché quello di restituire un’autorialità inquieta, che dubita, che sperimenta, che non sa o vuole ancorarsi; il rischio è quello di incorrere in alti e bassi nei risultati specifici, e dell’incistarsi nel lettore di alcuni testi luminosi a discapito della media e del disegno complessivo. E in effetti, il breve maṇḍala che chiude il libro pare anticipare proprio questa obiezione, ed esorcizzarla in un eccesso di modestia che è, al contempo, lucidità sulla sorte della maggior parte dei libri di poesia contemporanei (ma non di questo, ci auguriamo): «Un libro. | Dal libro una poesia. | Da essa uno, due versi, | poi più nulla» (p. 53).

L’eterogeneità, ad ogni modo, non è solo suggerita dall’indice nelle modalità che si sono evidenziate: è reale nelle forme e nei modi dei testi. Questi vanno dalla narrazione omodiegetica in versi liberi dai risvolti morali (Whistle while you work, p. 19; si noti la distanza psicologica indotta dall’uso dell’inglese) a quella eterodiegetica di un ritratto satirico in quartine (Capaneo s’impaurisce); dall’epigramma arguto di Attualizzando su-Chê alla bella e solenne lirica incipitaria Jeux de vagues, che Northrop Frye chiamerebbe «poem of expanded consciousness», o poesia della consapevolezza espansa; dalla lettera in prosa Quel quasi nulla che so sull’amore (p. 41) al cozzo di registri e attitudini fra un haiku di Ogiwara Seinsensui e la parafrasi dell’autore:

Nonostante ci siano i fiori
c’è ancora una farfalla
che cerca i fiori.

Nonostante il gineceo
in bikini, qui intorno
c’è ancora un filisteo
ridotto ai siti porno.

Questo beffardo epigramma a rime alternate si incarica di mettere a nudo (è il caso di dirlo) gli impliciti sessuali dell’haiku in una forte de-idealizzazione a tinte comico-realistiche.

Un modo tuttavia c’è, per orientarsi in questo mare di forme tipograficamente esacerbato dal fatto che più testi o frammenti convivono nella stessa pagina – vuoi per necessità di contenere i costi di produzione; vuoi per precisa scelta discorsiva e antilirica, antimonumentale, dell’autore; vuoi per ambedue le ragioni. Il modo è quello di andare oltre, avendola constatata, la pluralità quasi indifferente delle forme, e concentrarsi invece sulle costanti tematiche ed attitudinali.

Il tema d’elezione, forse subìto più che scelto, e vero basso continuo del libro, è quello metapoetico. Oggi la parola ‘metapoetico’ fa pensare a una poesia che riflette su se stessa e sui propri processi di creazione e significazione, sulla scia del poemetto modernista e tardo-modernista (due esempi supremi: Notes Towards a Supreme Fiction, di Wallace Stevens, e Un posto di vacanza, di Vittorio Sereni); oppure, nei casi deteriori ma oggi anche più dilaganti, una poesia in odor di orfismo che si imbelletta di sillabe, di Parola, nome, lingua, verbo e quant’altro per rattoppare con un sovrattono da iniziati un’oggettiva povertà d’idee, un oggettivo carattere epigonico e gregario. La posizione di Corsi è distante da entrambe queste tendenze: egli piuttosto riflette sull’irrilevanza socio-culturale della poesia, cui paradossale e deplorato corollario è l’arrivismo, la meschineria che serpeggia nella comunità dei cosiddetti poeti.

In Scena: recondita armonia (notare l’ironia sottesa all’anteposizione dell’aggettivo e alla scelta stessa del lessico da poetese), l’io viene «trascinato vicino alla stazione, in un ufficio candido | di sapientoni» (p. 13). La situazione kafkiana del giudizio definitivo travestito da colloquio di lavoro diventa occasione per contrapporre profitto e poesia. Un breve confronto con la poesia La genia degli utili di Pasquale Del Giudice può essere istruttivo. Del Giudice rivendica rabbiosamente la propria inadattabilità al mondo degli utili («definisci | il gesto inutile, il gusto del tuo sgretolarsi»), vorrebbe metterlo in scacco mostrandone l’inconsistenza, titanicamente e con piglio da punk. Corsi, al contrario, da umanista integrale qual è, soffre dell’esclusione della poesia dal consorzio umano, e la rinuncia alla vanità gli impedirebbe di difenderla frontalmente. Da qui il falsetto ironico, irrisorio, con cui viene di leggere la soffiata sull’aspirante candidato («Lo sapete? Corsi scrive poesie»). «Nessuna musa ex machina a difesa», dunque: nemmeno quella un po’ ingobbita del tardo Montale de La mia musa. Il processo di demistificazione si è concluso, lasciando chi scrive del tutto inerme, alla mercé del pensiero produttivo dominante: incapace di reagire quanto di lasciarsi assimilare.

Nella successiva e per me più dispensabile Un refolo di sincerità, a un primo verso («Ridurre tutto al nocciolo, all’essenza») che ricalca forse troppo da vicino l’esortazione cattafiana di espungere «dal testo perle d’acqua» per giungere all’«osso» (Tabula rasa), si insiste sulla necessità che i versi dicano «qualcosa» piuttosto che diventare «un gioco di benedizioni, | ansie, diplomazie, silenzi protocollo». Il trittico metapoetico si chiude con la già citata Consuntivo: lirismo e poesia, dove lacerti di autobiografismo («il recensore giovane mi respinge via mail») si accompagnano a convinzioni estetiche forse troppo assertive nella loro esternazione scoperta («come se la poesia dovesse a forza | essere un funerale, oppure l’aria | di un tenore ingrifato»): in casi come questo manca spazio di negoziazione per il lettore, che non può che accettare o rifiutare in blocco l’assunto. Alcune pagine più avanti, la breve Un dilettante (Caproniana), è un arguto epigramma in cui si fa l’apologia di un dilettante (controfigura dell’autore?), che almeno ha il merito di rendere «la Poesia | esattamente come, | anni fa, l’ho trovata»: il dilettante è innocuo, ha diritto di praticare l’arte; è invece l’epigono che diluisce fino a renderla irriconoscibile la poesia dei maestri. Anche in La perdita e il perdono (la sezione) c’è fin quasi subito un incipit metapoetico, in modalità diaristico-confessionale ma ancora troppo schiacciata sull’enunciato: «Gran parte dei poeti si rallegra che siamo marginali […] Io invece ne soffro» (p. 29). Si trovano altre poesie sullo stesso tema (per es. Contempt-o-rama / Contemporanea), ma ormai il punto mi sembra chiaro: la metapoesia è il tema cardine del libro, quasi una sua ossessione.

Proprio qui sta, a mio parere, il limite più evidente di un’operazione del genere: primo, la permanenza, in sottotraccia, di un’autoreferenzialità nella quale potrà riconoscersi solo la ristretta comunità poetica nostrana. Il rischio è insomma che venga appellata non solo una percentuale ristretta dei possibili lettori, ma solo quella parte che li riguarda in quanto poeti ‘pubblici’ – non in quanto poeti privati e quindi persone ‘totali’. Detto in altri termini, in queste poesie buona parte dell’esperienza sembra restringersi alla questione identitaria legata all’attività poetica, con una amputazione della complessità insita nel fare poetico stesso, che dovrebbe dar conto anche dei risvolti di bellezza, dell’energia che si sprigiona nel processo creativo, nel sodalizio disinteressato: tutte cose che esistono, ma a cui non si dà voce perché l’istinto satirico tende a sopprimere quello dell’inno, troppo facile a scadere in idillio e melodramma.
Il secondo rischio è che la satira si riveli alla lunga un modus con poco gasolio nel motore, perché chi si concentra su un bersaglio si dà meno chances non solo di trascenderlo, ma anche di trascendere sé stesso quale soggetto implicato in questa battaglia. Riprendendo le parole, sempre attuali, di Northrop Frye:

L’attacco in letteratura non può mai essere pura espressione di semplice odio personale o perfino sociale, quale che ne sia la motivazione, perché le parole che esprimono l’odio, a differenza di quelle che esprimono l’ostilità, hanno uno spettro troppo limitato (1957: 224; trad. mia)

Mentre lo spettro lessicale di Corsi è ampio («scistosi», «inclito», «romito», «diporto», «orbe», «ottobrate» e altro ancora), lo spettro attitudinale imposto dalla satira rischia di non essere troppo più ampio di quello imposto dal lirismo. Questa osservazione non vuole sminuire il potenziale positivo della satira, che acuisce capacità di analisi e osservazione e presuppone un’integrità etica e una sincerità per cui nulla si vorrebbe censurare. Vorrebbe però sottolineare che ogni monopolio attitudinale corre il rischio del vicolo cieco. Persino l’ostilità, se è autentica, non può accontentarsi della caricatura, di un tono tra risentito e scanzonato, che rischia di corteggiare il disimpegno.
Per converso, i risultati più convincenti del libro andranno cercati proprio là dove la metapoesia è, se non assente, appena un pretesto situazionale e una riattivazione mnestica, come nella seconda poesia di p. 30:

Una poesia di Matteo Pelliti
con un’anziana che sospinge il carrello della spesa
facente funzione di deambulatore
mi riporta alla teofania di tre vegetali, tre vecchie grazie fulminate
apparsemi d’improvviso in via Civitali, immobili
sulle loro carrozzine una di fianco all’altra,
testa reclina, globi e mente colàti via, le infermiere
spingevano e mentivano allegria declamando le portate del pranzo.
Il blocco navale biomeccanico impotente uniforme si muoveva verso
la mia bici, mi ha lasciato giusto un muto spiraglio
per passare e una gran voglia che si fermasse il cuore –
non il loro: questo, il mio, che ha sete di nulla
e non ne può più del sadismo di dio in ogni cosa.

In questo caso la poesia di un collega (e qui sì, lo scambio a monte è fruttuoso) riattiva la memoria dell’io, che nel cuore e nella visione non ha letteralmente altro spazio che per queste «tre vecchie grazie fulminate», ed è quasi costretto da questa rievocata prossemica a ridimensionare radicalmente le proprie paure, le proprie velleità. Ecco che il soggetto davvero diventa proficuamente marginale, lasciando spazio alla rappresentazione mitizzata e iperbolica (con la metafora a un solo termine del blocco navale) delle anziane, necessaria per rendere iconicamente la serietà della rivelazione. Avviene qui quella sorta di trascendenza laica che rende riuscita, persino necessaria, una poesia, sedimentandola a fondo in chi legge. A chi dovesse obiettare il mio uso della categoria di «necessità», di certo non definibile stilisticamente o strutturalmente, risponderei che un testo appare necessario quando ci meravigliamo che non sia stato scritto prima, o addirittura che non sia stato scritto da sempre. Il necessario attinge a un universale o a una costante dell’umano e gli dà una forma limpidamente icastica.

Non credo sia un caso che la maggior parte delle poesie più convincenti del libro ritragga come figura principale individui ancora più deboli di un io già assediato da sensi di sconfitta e inadeguatezza: dalla «donna con l’Alzheimer» e il «nero in bicicletta» di Lungimiranza («batte la calma marimba del suo pugno | dolcemente contro il mio», p. 24) alla poesia dedicata al padre ottantenne («Mio padre di ottant’anni e qualche giorno | è un pulcino incazzato»), davvero inoppugnabile nell’icasticità del ritratto e nella pietas filiale che premonisce la morte; o la stessa, antifrastica, Personal branding (p. 23), dove si spia voyeuristicamente un uomo disoccupato che, appisolato in biblioteca, mente alla compagna sul suo imminente colloquio di lavoro:

Gli suona il cellulare mentre pisola e chiaramente spreca tempo, appoggiato al bracciolo
di uno dei divani in biblioteca. In quello accanto un marocchino, per far prima,
s’è sdraiato e ora è perso in un sonno scoperto, al punto
che manco sente il trillo. Lui, invece, si scuote. Esile, poco sotto i sessant’anni.
Occhiali tondi, giacca beige e pashmina verdementa insinuano un’ipotesi d’artista.
Risponde a voce bassa, ma lo sento: «Cara, sono qui in attesa del colloquio
di lavoro. Poi ti faccio sapere». Riprova a dormire.
Invano: la bugia difensiva, preludio a serrate inchieste serali
lo agita; si alza, va via. In fondo, ciò che gli manca
per ronfarsi e scrollarsi sereni pomeriggi è soltanto
l’indulto sociale di una scrivania.

La poesia non abbisogna di parafrasi, ma siccome finora non ho quasi descritto lo stile del libro, si può fare un rapido accenno alla raffinata trasandatezza del verso lungo, che combina unità endecasillabiche (i primi emistichi dei primi due versi, ma anche dei vv. 6 e 7, e anche del v. 8 se leggiamo «bugia» con dialefe, e l’ultimo verso, a cadenza endecasillabica benché ipermetro, o anche il secondo emistichio del quarto e dell’ottavo verso: «esile, poco sotto i sessant’anni» e «preludio a SERRAte inchieste SERAli», dove si nota anche la parziale inclusione anagrammatica, qui evidenziata) e altre misure tradizionali come settenari («appoggiato al bracciolo») e soprattutto novenari («chiaramente spreca tempo», «in quello accanto un marocchino»). Ne risulta un verso enunciativo calibratissimo, agglutinato, molto musicale per chi sappia scandirlo senza fermarsi all’impatto debordante sulla pagina.

In tutti questi casi lo stile è quello, narrativo e prosastico, delle Cinquantaseicozze, forse quello più congeniale all’autore o comunque quello che gli consente maggiore ampiezza e gravitas senza rinunciare a una comunicatività cristallina e densa; la centralità della scena, il bisogno di coglierla, non consente di rimuginare su delusioni che, per quanto cocenti e reali, ricadono tutto sommato sull’io di chi scrive, confermandolo insieme ai propri bersagli. Di fronte a figure fragili come queste, all’io non è concesso far ricorso all’ironia satirica – proprio perché l’ironia si fonda sulla distanza e su un senso di superiorità (se non rispetto ad altri, rispetto a certi assunti, situazioni, mode, codici) che risulterebbero del tutto fuoriluogo. Per tornare al maṇḍala conclusivo, viene voglia di salvare, di questo libro, ben più di un paio di versi; viene anche, però, di dispiacersi perché la congestione tipografica prima evidenziata, con il suo flusso costante di versi, tende a occludere le perle a cui anche le cozze possono dar luogo.


Roberto R. Corsi, La perdita e il perdono,
Pietre Vive Editore 2020, 62 pp., 10€