Nella quinta e ultima puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”, Fabio Orecchini risponde a Bianca Battilocchi.



E’ tipico delle culture di massa in stato di emergenza 

il fatto che le immagini animate siano divenute
decisamente più vive di chi le osserva: 
una ripetizione dell’animismo all’altezza della modernità.
P. Sloterdijk

Sei auto-contagioso, non dimenticarlo. Non lasciare 
che il tuo “TU” prenda il sopravvento!
H. Michaux

La catastrofe in atto, accelerata, per disvelamento, dall’evidenza sindemica, è prima di tutto crisi della presenza, crisi di presentificazione, crisi dell’esperienza, dell’altro e dell’altrove. Per Paul Preciado siamo definitivamente entrati nell’Era digitale. «Le mani hanno mani che non afferrano», scrivo in un mio testo, non c’è presa che tenga (Samuel Beckett già ne L’innominabile), siamo costretti ad una resa. Prossimi oramai, già smaterializzati, spettri instabili di un esistere umano non più chiamato ad essere, ad Essere-nel-mondo, nella e alla sua sparizione. 

«L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza», scriveva Ernesto De Martino ne La fine del mondo, «l’angoscia come alienazione di sé a sé, un precipitare, come angoscia di non poter esserci, di non poter partecipare in una storia umana. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente nel divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana».

La distinzione tra presenza e mondo-che-si-fa-presente decade del tutto, va in frantumi; il confine tra pubblico e privato, soggetto ed oggetto, io e mondo, vacilla, e la storicità sporge, qualcosa di decisivo accade (o sta per accadere), costringendo la presenza stessa ad accadere, a sporgere a se stessa. 

Sappiamo bene che il “realismo capitalista” tratta la salute mentale come fosse un fatto naturale, e che, sempre con Fisher (e prima con Foucault e Deleuze e altri) tali disordini, divenuti comuni (moltiplicati vertiginosamente dalla crisi sindemica), vadano invece politicizzati, messi in comune, affinchè non venga mai accettata la privatizzazione dell’angoscia e dello ‘stress’.

Siamo tutti prede di uno stato di sospensione dell’essere, agiti, come nei celebri stati amok, olon, latah (solo per citarne alcuni, analizzati tra l’altro, con piglio comparativo, dallo stesso De Martino), fondamenti della materia etnopsichiatrica, in cui, sintetizzando all’ossatura, l’uomo o la donna destabilizzati da un evento o un contenuto emozionale fortissimo, determinato da angoscia, paura e umiliazione (quali i ‘sentimenti del tempo’ oggi dominanti?) perdono l’unità della propria persona.

Se  l’attenzione del soggetto è attratta dal movimento oscillatorio dei rami mossi dal vento, egli imiterà passivamente tale movimento, il soggetto che ode una parola diventerà la parola che ascolta, abdicando come presenza, sino ad arrivare (nell’amok, ad esempio) alla aggressione omicida di familiari ed estranei nelle strade, in una furia incontrollabile. ‘Idrofobia umana’ chiamava Stefan Zweig lo stato amok.

Come assolutamente imprescindibile si configurava la pratica rituale, che, ponendosi proprio in questa faglia, in questo iato, attraverso un’esecuzione corporea e vocale comunitaria, di presentificazione, reagiva alla crisi, operando, nella performance, una risemantizzazione e riattivazione in chiave terapeutica (ma non solo, e soprattutto non nel senso che noi diamo al termine “terapia”), di specie potremmo dire, attraverso il rito (‘perfomance politica’, nell’ottica di una politica della performance, idiosincratica alla “performance della politica” odierna, i cui esiti, dal berlusconismo al trumpismo sono sotto gli occhi di tutti, e l’attacco in maschera al congresso americano ne è il contrappasso più fortemente simbolico). 

Oltre l’esserci-per-la-morte, la maniera rituale trafigge la Storia, istituendo un corridoio “umanitario” a ricongiungere tempi, mondi e linguaggi, «il suo scopo (del rituale) non è creare uno spazio virtuale alternativo ma stabilire una connessione, una comunicazione, un legame ontologico tra spazio reale e spazio virtuale. L’agentività immaginante è dunque al servizio di una riconnessione con il mondo, è l’allestimento di un’architettura semiotica e cognitiva in grado di usare il virtuale per rischiarare, intensificare, risemantizzare l’adesso-qui» (Matteo Meschiari, a partire da un’intuizione di Charles Stépanoff, in un suo articolo qui ).

Proviamo allora ad immaginare l’atto poetico come pratica e poetica del rituale, come riscrittura, in disgrafia, di una partitura spaziale, un paesaggio di segni da intermediare, risemantizzare, lo spazio come fosse un testo, una relazione di forze coesistenti nel luogo inesatto dove l’opera converge , la voce come corpo, un corpo attraversato che attraversa, la parola una ferita infetta, che rimargina e riapre, dal bianco e continuamente, ri(n)tracciare versali cicatrici.

La maniera rituale, matrice del mio lavoro, da Dismissione a Per Os/TerraMotus, sino a Figura e Mal Bianco, ultimi lavori dedicati all’Alcesti, è fondamentale per comprendere sia la funzione poetica la sua effettiva incidenza sul reale, in un’ottica preminemente relazionale sia la funzione rammemorante (an-denkend) derivata da Gregory Bateson, secondo cui:

«Il pensiero poetico intuisce la possibilità di vivere l’esserci senza cadere dal bilico in cui si trova nell’abisso dell’assenza. È un problema di sopravvivenza (“il fare poetico produce senso non conoscenza”), perché non è mai questione tra menzogna e verità, ma di “trasformazione della storia”. Il pensiero poetico si preoccupa di “sfondare”, oltre l’esserci per la morte, in direzione della memoria produttiva della specie».
(Da una conferenza di Antonio Porta sul ruolo dell’intellettuale).

«questa presentificazione, poi, istituisce una dimensione condivisa dell’evento rievocato. Se Tiresia è il primo osservatore, che rivive la scena descritta, fino ad identificarsi con le stesse vittime, è solo nella dimensione partecipativa comunitaria che il testo si adempie. Come per l’inno callimacheo, dobbiamo immaginare che il poema attivi, nel momento stesso in cui viene recitato, una cornice per la sua esecuzione».

In questo secondo inciso è invece Bernardo De Luca, in un suo recente saggio apparso su L’Ulisse, a riferirsi alla pratica rituale nella poetica di Giuliano Mesa, derivante dall’analisi dell’opera Tiresia (in Poesie, 1973-2008, La camera verde, 2010), sempre tesa, vibrante, in questa dialettica tra cornice finzionale e dimensione partecipativa, ‘poematica’ del testo. 

Divinare il passato, l’irrelato, ancor prima che il futuro, a questo è costretto Tiresia, «è questo il suo discapito» (da un verso dello stesso Mesa). 

Una dimensione in cui la performatività, già assorbita, riavvolta (folded direbbe il poeta americano Robert Duncan) nel “testo” come nel corpo della lingua, sia nuovamente dispiegata (unfolded), continuamente risemantizzata in corpo comune di senso. 

È proprio nella lingua infatti, nel corpo di essa, che si esercita l’esperienza abissale del confine Vita-Morte, in questa faglia aperta nella gola, se vogliamo dal rituale della “voce”, che avviene la «virtualizzazione spettrale dell’essere nella parola», come Jacques Derrida precisava nello Schibboleth dedicato a Paul Celan. 

La parola perde così il suo tenore analogico e diviene “corpo” per se stessa, corpo politico a questo punto, spettrale e dinamico, come snodo della tensione, come derma della relazione, che perpetuamente si ricrea, reinnervandosi a interfaccia. 

Ma se è vero che nella nostra epoca il luogo caratteristico dell’universo innovato dei media è ancora e sempre più l’interfaccia, «in realtà, il volto davanti allo “specchio” è entrato in rapporto pseudo-facciale con un Altro che non è un altro. Egli può godere dell’impressione di vedere se stesso in un campo visivo chiuso perché ha scacciato l’Altro e gli Altri dal proprio spazio interiore e li ha rimpiazzati con mezzi tecnici di completamento del sé – i media nella loro funzione moderna».

È qui Peter Sloterdjik (in Sfere I. Bolle) a chiarire che l’interfaccia odierno non designa più lo spazio di incontro tra i volti, ma il punto di contatto tra volto e non volto, quando non addirittura tra due non-volti.    

Del “terzo volto” dell’interfaccia, seppur sghembo e deforme, stravolto, spazio della relazione e del rapporto, della soluzione e dell’enigma (pensiamo inevitabilmente a Giotto e al bacio di Gioacchino e Anna, come matrice iconografica dell’interfaccia) non rimane che una sterile sinopia, nel diluvio pandemico delle solitudini.  

Lo stesso immaginario, che aveva subito una prima aggressione dalla Società dello spettacolo, risulta drasticamente rastremato, imploso: siamo ben oltre lo stato ‘elementare’ di spettatori-consumatori, oramai parte integrante di un processo osmotico tra soggetto che vede, oggetto veduto e medium (Vilém Flusser ne discuteva già negli anni ‘80, a ben vedere). 

E se l’immaginario divenisse quindi assolutamente inessenziale? Dalla limpidezza di Lascaux (di una “figurazione” come indigestione, di un animale divorato e digerito nell’immagine, come descritto da Emilio Villa nel suo Arte dell’uomo primordiale) alla trasparenza ologrammatica della ‘dieta’ odierna ? 

Pratiche cannibaliche di senso, di presenza, di presentificazione: abitati, innervati, da sempre ci nutriamo dell’altro e dell’altrove, della memoria di un altro tempo.

Ma ora, chiusi nella caverna con la pietra-schermo digitale da scalfire, da introiettare, con l’immaginazione tecno-centrata che già sé pensa e divora.

Non ho risposte che non siano ulteriori dubbi, scarti, ri-sentimenti.  
Non so come agire, come essere agito. 

Nell’assenza di territorio (base di conquista della Storia, nota Edouard Glissant), nel confino, posso ancora chinarmi, avvicinare lo sguardo scendere sino al reale con una mano a terra e una al cielo; fare parte, stare nella lacerazione, nella tensione, nella relazione sempre aperta con il mondo, nell’atto poetico, phoné e sacrificio rituale, archetipico e futuribile, per cui tutto si trasforma e traduce continuamente, contagiandosi con l’organico come con il digitale. 

L’indistinto dell’ibridazione (teriantropica? Anamorfica?  Tanatomorfica?). 

Vi lascio con due piccoli suggerimenti di lettura: La palpebra rovesciata, di Antonio Porta e il Margine dei fossili di Cosimo Ortesta, a rintracciare una vena sommersa, a dissotterrare un’ascia, un’amigdala stretta nella mano, segno-ferita, «dal centro della paura» (verso rubato allo stesso Ortesta) del Novecento appena scomparso.