L’autore

Manuel Micaletto ha pubblicato Piombo a specchio (2012, Cierre Grafica), AFK nell’antologia EX.IT – Materiali fuori contesto (2013, Cierre Grafica), assieme a René Nielsen Carsten 8 Animali e 14 morti (2014, EDB) e Stesura (2015, Prufrock spa).

Walkthrough

Quattro anni fa sono state pubblicate sul blog nazione indiana delle prose intitolate Walkthrough,1 che Manuel Micaletto aveva presentato alla prima edizione del laboratorio di scritture contemporanee prove d’ascolto da me curato assieme a Fabio Teti.

Partiamo dal titolo. «Nel gergo videoludico, walkthrough si riferisce a un documento testuale o audiovisivo creato appositamente per familiarizzare l’utente con le ambientazioni di uno specifico videogioco. Si tratta, in altre parole, di una guida illustrata di luoghi inesistenti. La sua funzione è eminentemente didattica: le guide aiutano i giocatori a superare livelli particolarmente ostici, a individuare aree “segrete”, a imporsi su un avversario più tenace del previsto, a recuperare risorse disseminate nel territorio […]. In tempi più recenti, tuttavia, i walkthrough hanno assunto l’aspetto di playthrough, termine che indica la registrazione e successiva diffusione della performance di un player. Sempre più spesso, tale performance è trasmessa in diretta, via streaming. In questo caso, lo spettatore “accompagna” in forma vicaria l’esploratore di turno che si avventura in lande sconosciute alla ricerca di avventure, fama e successo. Si tratta, in altre parole, del surrogato di un viaggio. […] Nei racing game di ultima generazione, il gameplay si ispira esplicitamente alla pratica del Grand Tour. […] Oggi il Grand Tour si estrinseca in forma essenzialmente simulacrale, schermica.»2

Già dal titolo Walkthrough, quindi, Micaletto ci introduce in ciò che non è solo un tema, bensì una modalità di percezione, che ha implementato il paradigma epistemologico del gaming, e a partire dalla quale si attiva la pratica di scrittura. In questo resoconto di una “passeggiata”, un “viaggio attorno al mio quartiere”, il confine tra reale e virtuale è ormai saltato: l’uno deborda nell’altro, contaminandolo, arricchendolo. Reale e virtuale sono resi indistinguibili, quando non invertiti dal ribaltamento dei loro statuti ontologici e delle loro prerogative esperienziali: è nel mondo che si scorgono pixel, screensaver, bug e glitch, mentre è nel recesso di un livello di Super Mario che è possibile fare vertiginose esperienze esistenziali dell’impensabile e sublime nulla «che tutto intorno insiste e preme».

Lo statuto della guida illustrata perde la sua funzione didattica e il suo scopo “intergamico”, così come il paradigma del Grand Tour viene svuotato dei suoi oggetti d’interesse esperienziale: monumenti, opere d’arte e paesaggio naturale. Il walkthrough mantiene del primo la postura ludica e del secondo l’attitudine alla riflessione filosofica. Così il Grand Tour si fa petit e il gamer torna a essere flâneur antisociale che rifugge l’umanità preferendo il mondo inorganico e di conseguenza quello virtuale, dove le coscienze sono purificate dai corpi organici e dove l’intersoggettività, che pure è ancora possibile, è delocalizzata e mediata da interfacce. Infatti, «il game video rappresenta simultaneamente un’appropriazione e sovversione delle modalità d’uso del testo definite a monte dai progettisti. Ciò implica una ridefinizione del ruolo del giocatore: il conquistatore diventa esploratore, anzi flâneur».3 Micaletto esporta questa modalità nel mondo reale senza che ciò significhi una disciplinazione del soggetto: anche il reale, infatti, può essere sovvertito.

Il flâneur antisociale

Il flâneur, incarnato da Baudelaire e brillantemente analizzato da Walter Benjamin nei suoi scritti dedicati al poeta francese,4 era il cronista e il filosofo dei passages, un osservatore ebbro di curiosità e meraviglia, la cui oziosità e indolenza risultavano apparenti perché egli era costantemente attento a cogliere le cose del mondo. Nei suoi scritti sull’arte5 Baudelaire definisce il flâneur un io insaziabile di non-io e lo paragona a un caleidoscopio dotato di coscienza che trasfigura il reale, capace di estrarre da esso delle fantasmagorie, essendo, come l’artista e il bambino, sempre nello stato convalescente dell’infanzia, la cui facoltà si estrinseca nella capacità di provare meraviglia anche davanti agli oggetti più banali. Per Benjamin il flâneur era invece figura dai significati politici: egli, infatti, camminando in deriva, senza scopo, oziando, era il ritratto vivente di Dio nella società, non il Dio che crea ma il Dio che riposa; protestava contro il progresso e la divisione del lavoro del taylorismo che trasforma gli uomini in specialisti laboriosi, opponendo loro la teologia dell’ozio che si fonda sull’idea che il profitto dell’ozio abbia più valore di quello del lavoro.

Infine, il flâneur era il prodotto sociale della rivoluzione architettonica di Huysmans e di quella economica della Parigi del Secondo Impero di Napoleone III, ed era una delle figure che costituivano la variegata bohème in cui recentemente6 è stata ravvisata la genealogia delle forme di vita della precarietà, che hanno preparato il Quinto Stato contemporaneo, costituito da lavorat* indipendenti, autonom*, intermittenti, precar*, free lance, partite iva:

La forma di vita della precarietà ha allora i suoi antenati in una rassegna di figure riconducibili alla bohème – il flâneur, l’ozioso, il cospiratore di professione, il giocatore, il nottambulo, il detective, lo straccivendolo, la prostituta, il poeta, l’artista – che, al loro apparire sulla scena parigina erano al di fuori del mercato, in quanto la loro produzione si sottraeva al valore di scambio e alla mercificazione. Benjamin sa cogliere la trasfigurazione di queste forme di vita che poi sono state inesorabilmente catturate all’interno del mercato del lavoro.7

Benjamin ha avuto la sensibilità estetica e politica di cogliere la tragicità della figura di Baudelaire e, con lui, dei poeti tutti, costretti a vivere nell’era del capitalismo che impone un aut aut brutale: o la capitolazione nelle maglie e leggi del mercato o il suicidio economico e sociale. Benjamin analizza come Baudelaire si sia piegato e come, non potendo sopravvivere delle sue poesie e volendosi pervicacemente identificare nella figura del poeta anche se svuotato del mandato sociale, abbia trasformato sé stesso in una merce, diventando così imprenditore di sé: «è stato insomma Baudelaire per la prima volta a conferire alla propria vita un “valore di esposizione”, ben prima che oggi ciò diventasse per chiunque la prerogativa del regime di visibilità e di autopromozione sui social media e non solo.»8

Qui la discontinuità e la distanza della figura di Micaletto, che ha dapprima scelto di soggettivarsi pubblicamente come troll, giovane letterato un po’ dandy un po’ snob, disturbatore sagace, volto a evidenziare ipocrisie e mediocrità nei discorsi/testi altrui; poi, più recentemente, come autore-fantasma, iper-sottoesposto. Questa scelta esistenziale non è ascrivibile esclusivamente all’ascetismo, che pure alligna nel nichilismo di ascendenza schopenhaueriana intriso di noluntas, ma è anche una scelta politica di stare fuori dal mercato, quantomeno editoriale. La questione che qui interessa e a cui siamo tenuti a rispondere, si spera negativamente, in quanto lettori e operatori culturali, è se stare fuori dal mercato editoriale equivale a essere fuori dalla letteratura e dai discorsi che la letteratura informano.

Un petit tour

In Walkthrough Micaletto accompagna il lettore attraverso luoghi sì d’attrazione ma non spettacolari: ferramenta, bar, androni, edicole, mesti dehors che da mere location assurgono a protagonisti di una fantasmagoria di un mondo senza uomo, eppure totalmente antropizzato, densamente popolato da oggetti, giocattoli, videogiochi, fossili a venire.9 Il petit tour, annuncia l’autore, prevede come tappe i «posti più migliori ed eccezionali del mondo», che non sono molti e che proprio per questo è possibile visitare tutti nel giro di pochi paragrafi, “connessioni”. Segue una classifica dove al primo posto svettano i ferramenta, anzi, le vetrine dei ferramenta, luoghi superdotati in quanto a estetica e meraviglia. Prima di tutto le vetrine dei ferramenta sono prive della maggior parte delle strategie espositive dettate dal marketing: faretti, evidenziature luminose, posizionamenti strategici. Ma a rendere speciali queste vetrine sono soprattutto due caratteristiche ad esse sostanziali: l’effetto flipper e l’effetto Wunderkammer, dove il primo si esplica in un peculiare e stroboscopico modo di elaborare e rendere la luce, e il secondo in una meraviglia originata dal fatto che tanti oggetti insignificanti e di valore economico quasi nullo, se esperiti tutti insieme, siano altro da una somma di zeri, anzi, si configurino come un tripudio barocco di oggetti, contraddetto dallo stile razionalista degli spigoli e delle superfici metalliche.

La meraviglia non emana dal singolo tuttavia oggetto, ma da come la somma di moltissime unità a valore 0 produce invece, alla fine, un valore complessivo inestimabile. Sono luoghi esauriti, saturati dalla presenza diffusa, granulare degli oggetti: lo spirito è barocco, ma le linee sono nette, austere, votate allo scopo, razionali.

L’interesse verso le vetrine dei ferramenta è dovuto anche alla natura degli oggetti esposti: sono, infatti, oggetti insignificanti perché solo nell’uso acquistano il loro senso e funzione. Nelle vetrine appaiono quindi disinnescati, in latenza, densi della loro potenzialità che poi però, anche quando verrà attuata, lo sarà in modo umile, appartato, senza protagonismi. Oggetti indispensabili per la vita umana eppure ignorati, non visti, su cui di solito non cade lo sguardo, l’attenzione o la penna di uno scrittore. La pietas di Micaletto è tutta rivolta all’insignificante oggettuale che produce «l’incanto e perfino la commozione».

Al secondo posto troviamo i distributori di palline magiche, ma soprattutto le palline stesse. Ad oggi quasi scomparsi, hanno puntellato le strade e l’infanzia di chi è cresciuto negli anni ‘90. Perché queste palline sono magiche? Per vari motivi: in primo luogo sorprendono nella loro capacità di rimbalzare indefinitamente, poi hanno la superficie lucida e questo è un topos essenziale all’interno della poetica dell’autore; infine epitomano l’intero universo nel loro essere simili a pianetini nella forma e nella colorazione.

Al terzo posto ci sono i bar. Qui, a differenza di quanto accadeva con i ferramenta esauriti dalle loro vetrine, il tour di Micaletto ci permette non solo di fermarci a contemplare le insegne struggenti e tautologiche, ma anche di visitare i loro interni. Ciò che sorprende nella lettura è che siano luoghi sempre desolati eppure sempre in azione: la macchina del caffè che sfiata ma senza barista, il rumore delle slot machine ma senza i giocatori incalliti, il ventilatore acceso ma per nessuno. Benché si svolga all’interno di tappe/livelli dominati da una dimensione di presentismo infraordinario, il mondo rappresentato in Walkthrough si rivela infestato di virtualità dal tenore apocalittico, che rimandano all’H.G. del Morselli migliore in cui il protagonista, deciso a suicidarsi, cambia idea all’ultimo momento e scopre che nel frattempo l’intera popolazione umana è scomparsa nel nulla. Il nostro flâneur antisociale sceglie di dribblare le figure umane in cui inevitabilmente si è costretti ad inciampare ogni volta che si esce di casa, quando non preferisce eliminarle totalmente, switchando le modalità del reale per concentrarsi su ciò che più gli preme, ovvero le cose lucide e luccicanti, i non-luoghi ordinari, e la loro capacità di stimolare l’esperienza sensibile della coscienza autoriale tanto da innescare riflessioni metafisiche. Come accade con i bar interni ai centri commerciali, portatori di un paradosso logico-ontologico, nel loro essere dotati di uno spazio esterno che però è interno, di un effetto matrioska nei volumi di cemento, di una cocciutaggine nel voler uscire da sé anche quando ciò non è possibile. Oppure con gli androni, «un’invenzione rivoluzionaria» perché dall’interno delle vetrate di questi novelli spazi sacri la vita può essere osservata al ralenti, in posizione protetta dal mondo.

Il presupposto di una tale poesia è evidentemente il misantropismo, unito a un certo snobismo, anch’esso tipico della flânerie:

L’inconveniente è che tra tutti questi posti top élite pianeta, per quanto ravvicinati, intercorre il mondo fatto di centri estetici dove le genti esibiscono facce che vanno dal gradiente chitarra acustica in su e perfino peggio, discopub dove l’adolescenza prolifera come una coltura batterica, cinema dove chi non ha il talento di guardare il soffitto si espone a una narrazione e molte altre zone invise al signoriddio.

Tuttavia è anche vero che l’anti-antropocentrismo a cui approda ha un’importanza etico-politica rilevante, che risente della lezione pongiana del Partis pris des choses, così come della poetica degli oggetti del crepuscolarismo nostrano: lo sguardo verso gli oggetti umili, gli enti diseredati dal mercato, le cose piccole e minute che passano inosservate, ma senza le quali non si darebbero le cose importanti, come i quadri senza i chiodi. Questa ginnastica etica è ancor più attiva in sede di ricezione e lettura del testo, e ha delle ripercussioni pratiche sugli habitus e i comportamenti osservativi che si hanno nel mondo: è dunque una postura politica.

Thauma o della meraviglia

Il motore dell’enunciazione di Micaletto è certamente la meraviglia, atteggiamento teoretico che nel celebre incipit della Metafisica era posto da Aristotele come causa efficiente della filosofia, sebbene si trattasse di uno stato di smarrimento (aporein) provvisorio, tipico di chi ignora le cause di ciò che è, e che viene superato grazie all’episteme. Per Platone, invece, il pathos della meraviglia, arché della filosofia, era vertigine, paura esistenziale, status ontologico permanente dell’animale atopico che è l’essere umano. Secondo il Wittgenstein della Conferenza sull’etica è solo nell’esistenza del linguaggio stesso che si mostra l’esperienza assoluta e sublime del miracolo del che del mondo, la meraviglia come stupore ontologico verso il puro esserci delle cose. E infatti in Micaletto, alla meraviglia come motore del testo corrisponde un’euforia della nominazione, anche grazie all’uso di un lessico attinto a campi disparati, mescolando «la lingua della filosofia a quella della scienza, quella dell’informatica a quella della poesia lirica».10 Questa euforia della nominazione è rinvenibile tanto sul piano dei significati, attraverso iperdescrizioni derealizzanti che procedono per espansioni metaforiche, quanto sul piano dei significanti, attraverso l’eccitazione dei registri, le forzature del tessuto grammaticale e le torsioni linguistiche, «di solito tramite il ricorso creativo e ‘fuori luogo’ ad anacoluti e brachilogie tipici del parlato, o a certi leggeri, calcolati sfasamenti delle iuncturae che riformulando locuzioni logore ne ripristinano la pregnanza».11

Meraviglia, ma disforica, controbilanciata e smorzata da riflessioni nihil-tanatocentriche, in cui si condensa la tradizione del pensiero nichilista occidentale, che nei cartelloni dei gelati esposti all’esterno dei bar è capace di scorgere inaspettatamente i correlativi oggettivi di quel «compasso che è la morte quando gira attorno al suo perno».

Il soggetto dell’enunciazione

Il soggetto dell’enunciazione messo in campo da Micaletto ha uno statuto simile a quello presente anche in altri testi di autori contemporanei, basti pensare alla testualità di Broggi, Bortolotti e Cirilli. Vi si riflette una delle soggettività più diffuse e/o narrate nella condizione storica contemporanea, impossibilitata a una visione/esperienza unitaria/individuale, incapace o nolente rispetto alla costruzione di una narrazione unificante, inoperosa e attivata da particolari stati di intensità del sensibile: in Micaletto il soggetto dell’enunciazione è un occhio-cursore, una coscienza-telecamera meditabonda che contempla con meraviglia il mondo luccicante e inorganico, su cui ha tantissime cose da dire e che viene sussunto a esponente di una categoria ontologica opposta pervicacemente a quelle e del bìos e della zoè, in conformità alla poetica antivitalistica dell’autore.

Alla classifica dei non-luoghi ordinari Micaletto fa seguire delle prose sfrangiate, irregolari, in cui assistiamo ad un’accelerazione del dettato: il tour passa, infatti, dai luoghi agli oggetti, ma è una carrellata rapida anche nelle riflessioni. Il soggetto-gazza costruito da Micaletto viene attivato da una serie di oggetti che hanno tutti in comune il topos cui abbiamo già accennato: la lucidità. Infatti il paesaggio in cui veniamo accompagnati è composto da stampanti, telefoni Sip con la scocca lucida, conserve lucide nel buio smentito dalle luci di emergenza, polaretti iridescenti in condizioni di luce favorevoli, tatuaggi a tempo che brillano per subito scomporsi in pixel, la luce fantasmatica della tv, i neon delle insegne. Come anche le abat-jour in Stesura:

le abat-jour non trattano la luce come una qualsiasi lampada, il loro compito non è diffonderla: semmai soffonderla: hanno l’incarico di governarla, disciplinarla, distribuire equamente la massa delle ombre […] abbattono la luce, la smorzano, la ammorbidiscono, la dotano di una curvatura che ben si adatta a quei momenti che precedono il sonno, a quell’interregno. la lavorano sino a farne una glassa: spalmata intorno, sulle cose: se la tocchi, rivela l’impronta. […] sono, al modo dell’uno plotiniano, quella sorgente di luce che però della sua stessa luce non partecipa: la escogita e se ne libera, e quella poi si dispone gradino dopo gradino, ipostasi dopo ipostasi, a formare il mondo. un apparecchio ontologico.12

La seconda caratteristica che i luoghi dovevano avere per entrare in classifica era essere dotati di vetrine/vetrate: è infatti il vetro, in tutte le sue forme, a dominare. Le vetrine-Wunderkammern dei ferramenta, la vetrina dei bar «che getta come un alone prerender su tutte le cose»; le porte vetrate degli androni, il finestrino del treno che, «nelle gallerie, capovolge il vettore della visione, facendo leva sul buio in attuale versamento»; lo specchio «che ti restituisce la faccia perfettamente integrata, fissa la tua presenza per sempre».

La doppia riflessione

Il vetro è confine architettonico, ma anche limes ontologico: permette di vedere aldilà mentre riflette l’aldiqua, è un intermondo in cui coesistono e si sovrappongono due alterità, in cui l’opposizione tra io e non-io, tra qui e lì collassa; è soglia magica dove le identità e le coordinate spaziotemporali saltano, mescolandosi nell’indifferenziata unità e coesistenza degli opposti che manda all’aria il principio di non contraddizione.

Alla specificità degli enti “magici”, ossia la loro capacità di riflettere il mondo esterno ad essi, di appropriarsi dell’alterità, corrisponde la riflessività speculativa dell’autore, che dal punto di vista testuale si configura in micromonologhi o microtrattatelli filosofici in cui è ravvisabile la lezione di alcuni numi tutelari come Manganelli (tanatocentrismo, retorica barocca), Perec (infraordinario, iperdescrizioni derealizzanti), Ponge (forma proematica, poésie désaffublée non più identificata nella forma del verso o nella specificità di un linguaggio altro rispetto a quello ordinario).

I materiali riflettenti e questi mirabilia inorganici permettono anche di fuggire dall’empiria e da tutto ciò che sta intorno, dentro e tra questi non-luoghi. Il walk through è allora soprattutto un watch through, nella sequela di esperienze visive narrate durante una pausa da un hikikomori intriso di passioni tristi ma capace di meravigliarsi, trasfigurare e trollare il reale nella sua peculiare e neotenica ibridazione di lirismo e oggettivismo. Micaletto segna e prosegue, dunque, una delle possibili vie d’uscita dall’antropocentrismo di cui la poesia è solitamente permeata, contaminando la verticalità dell’autocoscienza con l’orizzontalità dei materiali e delle cose del mondo, un mondo a sua volta slabbrato dalla virtualità di mondi altri in assedio o in cui rifugiarsi.


1M. Micaletto, Walkthrough, Nazione Indiana, 15 ottobre 2017, https://www.nazioneindiana.com/2017/10/15/prove-dascolto-15-manuel-micaletto/

2 M. Bittanti, Walkthrough: documentare gli iper-luoghi dei videogiochi, https://www.linkideeperlatv.it/walkthrough/

3 M. Bittanti, cit.

4 W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi C.-C. Harle, Neri Pozza, Vicenza 2012.

5 C. Baudelaire, L’artista, uomo di mondo, uomo delle folle e bambino, in Opere, Mondadori, Milano 1996, pp. 1277-1284.

6 R. Ciccarelli, G. Allegri, La furia dei cervelli, manifestolibri, Roma 2011, pp. 67-77.

7 D. Gentili, Crisi come arte di governo, Quodlibet Materiali IT, Macerata 2018, p. 103.

8 Ivi p. 104

9 D. Farrier, Tracce. Alla ricerca dei fossili di domani, Mondadori, Milano 2021.

10 R. Batisti, Su Manuel Micaletto Stesura, Prufrock Spa, https://criticaimpura.wordpress.com/2015/09/28/su-manuel-micaletto-stesura-prufrock-spa-2015/

11 Ibidem.

12 M. Micaletto, Stesura, Prufrock Spa, Padova 2015, pp. 28-29.