Nella quarta puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”, Bianca Battilocchi conversa con Viviana Fiorentino e Giorgiomaria Cornelio.


Viviana Fiorentino

Fai tua l’espressione di ‘militanza poetica’? In che modo? Credi che i poeti debbano prendersi più responsabilità nel passare dalla pagina all’azione? Se la poesia vuole naturalmente rifuggire libera e autonoma da politica ed economia, non credi che comunque fare poesia sia anche un atto politico? 

Tutte le tue, nostre, vostre | faccende diurne, notturne | sono faccende politiche, scrive Wisława Szymborska in Figli dell’epoca. Che ci piaccia o no, tutto è politico. Ogni scelta, ogni oggetto che acquistiamo, ogni parola che usiamo. Questo perché ogni cosa ha una risonanza, perfino quando camminiamo per boschi selvaggi o campi sperduti, c’è uno sfondo politico. Chi ha deciso che quel bosco rimanga selvaggio? E come ho fatto ad arrivare fin lì? Sono domande che pongono una questione politica

L’ecologia è la scienza che studia le connessioni degli esseri viventi, i nodi della rete biologica nel quale siamo immersi e come questi nodi interagiscano tra di loro. Ogni movimento sui fili di questa enorme rete del sistema vivente muta la forma, le funzioni della rete stessa e ciò che la costituisce. Ogni essere umano è chiamato alle sue responsabilità rispetto al sistema Terra. Così, anche i poeti. Ma chi sono i poeti? Prima di tutto esseri umani, come tutti gli altri, cittadini abitanti del pianeta Terra. I poeti creano attraverso un particolare linguaggio che tenta di decodificare o manipolare il mistero della vita. Per questo, sì, i poeti, gli scrittori, così come chiunque detenga un codice in più di accesso al mistero della vita da portare alla coscienza collettiva, hanno una maggiore responsabilità.

Passare dalla pagina all’azione: per alcuni non si pone neanche il quesito poiché sono magari scrittori che sono finiti nelle peggiori prigioni del mondo per ciò che hanno portato sulla pagina scritta o per la lingua che hanno usato (se sei curdo, il solo fatto di usare questa parola ti mette a rischio penale in Turchia); Galal El-Behairy, Aron Atabek, Dawit Isaak, Nedim Türfen, Chimengul Awut, per citarne solo alcuni, la lista è lunghissima. My dear son | Please don’t cry | The whole world will cry for you! (Figlio mio, caro | Ti prego, non piangere | il mondo intero piangerà per te) scrive Chimengul Awut, poeta Uyghur, in prigione in Cina, per il semplice fatto di appartenere a una minoranza culturale che il governo cinese non riconosce. In passato, alcuni poeti non hanno usato la carta stampata, perché in carcere non gli è stata concessa. Ci hanno lasciato le loro liriche scalfite sull’intonaco delle prigioni. Quello scalfire con le proprie unghie, quello è un atto politico. Finché l’intero mondo non piangerà e non riconoscerà in quei segni sull’intonaco il segno di un’intera storia, ci saranno artisti in prigione per difendere la libertà di parola a nome di tutti noi. La poeta irlandese Paula Meehan ha scritto: «la poesia, il mio mestiere, si adatta idealmente all’isolamento. Alcune delle più grandi poesie del mondo sono state scritte in estremi stati di prigionia e isolamento, dai poeti russi che hanno scritto all’ombra del terrore di Stalin, alle poesie di Yannis Ritsos dai campi di internamento della guerra civile greca e il regime del colonnelli». 

È politico, dunque, tutto ciò che fa parte dell’umano, quindi anche la letteratura e tutte le arti. Qualsiasi artista con la sua arte ha uno strumento sensibilissimo e preziosissimo tra le mani, il sismografo della storia e della società, attento a ogni scossa e vibrazione che avvenga sul pianeta. Ovvio, la letteratura non si sostituisce alla politica, ma grazie al suo sguardo disorientante, sconfinante, ricco di prospettive diverse, ha tutti gli strumenti per ristabilire certi valori etici e ribaltare le prospettive consuete.

Quanto è importante creare una ‘comunità’ intorno ai poeti o invitare i poeti e fare comunità? Credi nel bisogno di comunità come alternativa al sistema capitalistico che ci vuole sempre più soli, sempre più vulnerabili e quindi con i portafogli sempre aperti? Se sì, come agire in quel senso? Hai testimonianze da condividere (anche foto), ad esempio nel tuo vissuto nomade attraverso l’Europa? Cosa funziona a tuo avviso? 

Ho scoperto la parola “comunità” per la prima volta quando mi sono trasferita in Germania. Soprattutto, negli anni berlinesi, ho scoperto che non soltanto potevo fare affidamento nelle persone che mi stavano attorno, ma che addirittura questi gruppi erano organi decisionali con importanti effetti tangibili sulla realtà quotidiana. Ancora più sconcertante per me, che venivo da una grossa città italiana, folle per sua natura e alla deriva per cause storiche, era che mi si chiedesse in cambio, e a buon diritto, di partecipare. Insomma, scoprivo qualcosa che in fondo dovrebbe essere ovvio: abitare significa condividere. Ma il funzionamento di una comunità l’ho imparato in Irlanda, paese nel quale vivo ancora e nel quale ho preso a far parte di diverse comunità: dai community gardens (per la produzione e fruizione comune di risorse alimentari) alle comunità di rifugiati politici o a sostegno delle famiglie che subiscono atti di razzismo. Ho imparato che lavorare per una comunità significa riconoscere i nodi della rete – quei nodi dei quali parlavo prima – e come le interazioni tra di noi modifichino quella rete. Ignorare che le vite quotidiane di tutti noi siano connesse materialmente non significa che la rete non esista, piuttosto semplicemente lasciare che la rete sia gestita e modificata da chi detiene il potere.

Una comunità di poeti, e letterati in genere, può creare un organismo dalle membrane permeabili, transculturale e transdisciplinare. Sorpassare le prigioni e le frontiere – da quelle del nostro corpo a quelle della società –  è una sfida a ritornare consapevoli. Smantellare l’elitarismo culturale, che, invece, favorisce monopolizzazione e autocensura. Se l’arte finisce per essere una disciplina esclusiva ed elitaria, perde quel suo carattere essenziale di analisi ed espressione del mondo, diventa una tecnica come un’altra o, peggio, manieristica. Né la tecnica né la libertà di espressione possono essere dominio di pochi; sarebbe un favore a tutte quelle dittature che operano censura (pensiamo alla Turchia o all’Egitto) ma anche a tutti quei poteri che normalizzano le narrazioni a favore di una visione manichea dominante che rifiuta qualsiasi prospettiva diversa, ambivalente, conturbante – gli Stati Uniti, per esempio, ma giusto perché lì gli esempi sono di portata mondiale, penso al recente dibattito sul cancel culture. Girano le generazioni, cambiano i contenuti e i valori, addirittura si capovolgono (dai film contro i pellerossa ai film anti guerra in Vietnam): la narrazione è al servizio del potere dominante.

Scrittura e comunità sono legate, se si ascolta la necessità di chi aspetta che la letteratura si occupi (o torni a occuparsi) disperatamente del mondo, per quello che è: violenza, diseguaglianza, crisi societarie e ambientali. L’esperienza della pandemia è incastonata lì dentro, emerge dalle disuguaglianze. Non dico con questo che per parlare del mondo, la letteratura debba essere civile, moraleggiante o didascalica. Tutt’altro. Piuttosto, per parlare del mondo la letteratura deve sganciarsi da ogni forma di mainstream, proporre pensieri e prospettive sempre nuovi, nuovi terreni di ricerca e sperimentazione.

Boschi abbandonati, wildness e responsabilità ambientale.

Una ridefinizione del selvaggio è certamente in corso. Wild, dalla radice indeuropea *wel- è il pelo animale lungo e non curato. L’alterità, il sottosuolo che è in noi, l’unknown, l’elemento di ferocia presente in ogni vivente. La radice etimologica di selvaggio richiama il viaggio e l’assenza di un viatico. Il limine, se una linea è tracciabile, è il territorio delle ombre dove ci chiediamo se è possibile mantenere la padronanza del sé, come e se risponderemo a quel unknown

Selvaggio è forse una delle parole più importanti della poesia di Cristina Campo. Per la Campo, rimanda alla selva che metaforicamente aveva partorito le truppe tedesche durante l’occupazione di Firenze nel 1944, come anche allude alla forza delle “wild nights” della Dickinson che la Campo tradurrà. Biologia e storia hanno un legame che non si slaccia. Risiede, allora, nella nostra responsabilità divenirne consapevoli non solo come singoli ma come comunità.

Il territorio abbandonato delle erbacce, il terzo passaggio, allora, non necessariamente è un luogo dove rifugiarsi. Possiamo, invece, lasciare infestare di erbacce i centri del decoro urbano, far partire trazzere dalle autostrade. Una rivoluzione ambientalista, civile, letteraria, economica, politica, non può essere fatta rimanendo rifugiati nelle riserve del wildness. Come ci insegna l’ecologia, infatti, tali riserve si estinguerebbero nel tempo. Possiamo invertire il percorso e portare la natura selvaggia nelle nostre città. Lo dico anche in senso metaforico.

La scienza del novecento ha ribaltato tanti classici assunti riguardanti la nostra esistenza come esseri umani rispetto al pianeta Terra e all’universo; una visione completamente nuova dello spazio-tempo, della materia e delle sue interazioni grazie alla fisica quantistica, una visione sconvolgente delle interazioni e del funzionamento nel nostro cervello grazie alla neurobiologia, una percezione rinnovata delle interazioni degli organismi e delle loro conseguenze sulla nostra esistenza (ora messa in discussione) grazie all’ecologia, la biologia evoluzionistica e le scienze ambientali. Tutte queste scoperte hanno aperto abissi di conoscenza ma hanno anche definito una nostra nuova posizione rispetto al mondo, una posizione che, come si diceva prima, a ogni movimento assume valenza politica. 

Una ulteriore prospettiva si apre adesso, grazie alle nuove conoscenze sul suolo e il necessario ritorno a esso, se non vogliamo vederlo franare sotto i nostri piedi, se vogliamo, insomma, continuare a esistere e a vivere in un pianeta sostenibile. Sappiamo, oggi, delle mille interazioni che il suolo sottende: fitte reti di comunicazioni chimiche, elettriche e microbiologiche che dal sottosuolo governano il mondo naturale sovrastante, noi inclusi. Come uno specchio, nelle infinite micro relazioni degli organismi che lo abitano, il sottosuolo riflette anche il vasto universo sopra di noi. La nuova posizione dell’essere umano è posta tra due abissi: lo spazio celeste sopra di noi, lo spazio sotterraneo sotto di noi. Sapremo trovare un equilibrio?

I rapporti col mondo non-umano, animale o vegetale, sono mutati e il sismografo della letteratura li registra. La poesia, come ricerca alla radice delle parole portatrici di un’essenza che ricordano in forma di suono e di astrazione, meglio di altre forme di scrittura conserva una propensione alla ricerca del limite tra umano e non-umano, una ricerca dell’essenzialità, un’attenzione al gesto e al nostro sguardo sul mondo. Un gesto già scritto prima di scriverlo, in mille anni di storia dell’umanità. 

Whomever lives shall wear the skin of soil | from soil we came and there we rest (chiunque sia un vivente, indossi la pelle del suolo, dal suolo veniamo e lì ritorneremo), sono le parole di un contadino colombiano, inconsapevolmente poeta. L’oscurità liquida dell’origine dalla quale proveniamo e alla quale torneremo. Riappropriarci del suolo, con le mani e con la scrittura, significa ricollegarci culturalmente a una parte di noi. Curare il suolo come se fosse un’estensione del nostro corpo; parlare del suolo, dell’ambiente, di ciò che è wild, significa parlare anche di noi stessi. 
Forse davvero la poesia può avere questo potere. Come il wild, anch’essa è custodita in un luogo visibile e occulto, perché possa lasciarci un segno, quando non siamo in sua compagnia, o una sensazione, a noi ignari, “quasi una solitudine”.


Giorgiomaria Cornelio

Come coinvolgere i poeti nella conversazione sui sensi unici e i cul de sac dell’Antropocene? Come incoraggiare e valorizzare un “racconto del territorio” che sia consapevole del concetto di realtà che diffonde e responsabile di una prospettiva alternativa a visioni romanticizzate della Natura?

È importante che i poeti si spingano fuori dalla poesia, che puntino fermamente su questo ammutinamento, incastrando immagini lontane tra loro in continui rivolgimenti percettivi. Bisogna sforzarsi cioè di rompere la finitudine di ogni visione lasciata seccare nel suo giardino d’ovvietà, che è poi il vero punto di partenza di quel blando naturalismo che tu citi. Piuttosto che limitarmi a “valorizzare” il territorio, preferirei portarela poesiaa livello del micelio…  ecco tutto. Ostruire il passaggio tra la scrittura e il quotidiano, far proliferare le grandi reti d’interrogativi; e poi non cedere alle cronache, che riducono la letteratura ad ennesimo bollettino del disastro. Francis Ponge diceva: “per quel che mi riguarda in particolare, ho pensato a lungo che, se avessi deciso di scrivere, sarebbe stato proprio contro le stupidità che dicevo in una conversazione inespressiva e in parte forzata”.

Provo a tradurre il discorso in un ambito di “facile attualità”, riformulando quanto scrivevo in una precedente conversazione. Le battaglie che contraddistinguono la nostra epoca sono chiaramente importanti. Prendiamo ad esempio la rivolta contro il corpo “naturale”: la questione mi appartiene da sempre, eppure mi ritrovo a criticare la mancanza di volatilitàdi molti miei coetanei, che dopo essersi ficcati in un organismo crocifisso da definizioni (considerate magari “progressiste” o “fluide”), sembrano trovare conforto in un’idea di “felicità” che coincide semplicemente con il proprio “sereno completamento”, con la propria “totale accettazione”. Questo lo trovo limitante. L’ermafroditismo dovrebbe essere prima di tutto un modus vivendi: non si finisce mai di sfinirsi, di «transesserci», di espatriare da una parte all’altra del proprio corpo, che è mutevole — cioè in perenne mutazione.

Invece che appartenere alla specie di chi si riconosce, preferisco dichiararmi orfano di ogni appartenenza, e fare come gli eroi delle fiabe a cui spetta il destino di rovesciare la propria condizione di partenza. Lo ripeto spesso: veramente interessante è soltanto il punto di stortura della specie, ovvero ciò che contravviene alla misura stabilita. E questo vale per molte delle tematiche congiunte all’Antropocene: non si può semplicemente aggiornare un repertorio di formule stanche, adattandole ai cambiamenti imposti dal tempo. È di altre ipotesi immaginative che abbiamo bisogno: imagines agentes, da incarnare per soccorrere il seccume che abbiamo negli occhi, e riuscire così a disorientarci. Ma queste immagini sono di “sesso incerto”, cioè possono essere recuperate ovunque…

A tal proposito, inviterei i poeti a consultare nuovamente pensatori che — proprio perché apparentemente più lontani da queste nostre battaglie — contengono importanti indicazioni per gli scenari a venire. Apro una pagina a caso della biografia di Caterina da Siena redatta da Raimondo da Capua e leggo: “‘Mi apparve infatti il Signore, mi aperse il petto dalla parte sinistra, mi prese il cuore, e se ne andò’. Il confessore le faceva allora osservare che è impossibile vivere senza il cuore, ma la vergine rispondeva che niente è impossibile per il Signore, e che era convinta di non avere più cuore. Così per un certo tempo ripetendo sempre la stessa cosa, diceva di vivere senza il cuore”. Altro che corpo naturale!

È necessario tenersi spalancati, spigolare da ogni parte, scavalcando il puritanesimo della visione e la giustezza delle facili alleanze. Altrimenti la battaglia si trasforma in “modulo universitario”, in accomodamento, slogan, hashtag: tutti modelli di “adolescenza del pensiero” che non vanno bene neanche a vent’anni.

Possiamo aspirare ad un’azione collettiva incitata dai poeti e dagli spiriti più creativi, che investa nella creazione di nuove prospettive, costruendo magari reti di piccole comunità?

Quando dico di portare la poesia a livello del micelio intendo anche questo: un modo d’agire attraverso il quale le differenti forze e discipline si soccorrono a vicenda per penetrare spazi imprevisti, traforando il muro dell’ovvio. Costruire nuove prospettive implica dunque ciò che chiamo la manovra dello sbando: continuare a dislocarsi, ad abitare la parte che trabocca, che si sporge oltre: “essere in territorio straniero anche dove sarebbe lecito dire casa o salvezza”; e poi guardare ogni cosa con inquieto sbigottimento, come se dovesse rinascere proprio in quell’istante. Questo vale anche per le macchine, che in certa letteratura sembrano venir fuori come nemici assoluti, e invece sono fenomeni d’insorgenza che ci scuotono e fanno incessantemente ripartire l’immagine dell’universo. Felix Guattari parlava di una mécanosphèreche circonda la nostra biosfera. Vorrei citare l’intero passaggio; mi perdonerete le inesattezze di questa mia traduzione:

Le macchine non sono totalità chiuse in sé stesse. […] Una macchina risale alla superficie del presente come il completamento di un lignaggio passato (lignée passée), ed è il punto di ripresa, o di rottura, a partire dal quale il lignaggio si dispiegherà nel futuro. L’emergere di queste genealogie e campi di alterità è un fenomeno complesso. Viene continuamente lavorato [travaillée] da tutte le forze creative delle scienze, delle arti e delle innovazioni sociali, che si intrecciano e costituiscono una meccanosfera (mécanosphère) che circonda la nostra biosfera — non come il giogo vincolante di un’armatura esterna, ma come un’efflorescenza astratta, macchinica, che esplora il futuro dell’umanità [le devenir humain] (Pour une refondation des pratiques sociales, 1992).

Ci racconteresti brevemente dell’esperienza dei Fumi della Fornace a Vallecascia e di cosa ha significato anno per anno per la realtà locale e quella italiana?

Vallecascia è un paese di appena 400 abitanti, nato nella campagna marchigiana praticamente attorno a una fornace di mattoni che è stata chiusa nel 2012 dopo più di un secolo di attività. A causa di una strana diceria, si pensava che i “fumi” di questa fornace avessero fatto diventare i ragazzi omosessuali e le ragazze libertine. Una diceria, appunto: ma invece di scacciarla, abbiamo cercato di assecondarla, facendone il fondamento mitico per una seconda riedificazione del paese basata appunto sulla fondamentale stortura dei suoi abitanti. Come vedi torno a collegarmi a uno dei temi della prima domanda…

Ogni anno, per tre giorni durante il mese di agosto, Vallecascia diventa un luogo d’ospitalità per poeti, artisti, filosofi, musicisti, teatranti, bimbe e bimbi che si giocano insieme un’idea di comunità scissa da un’identità definitiva — cioè semprea venire. Senza un reale supporto, contando sui mattoni di scarto e sul valore realmente operativo della poesia, abbiamo costruito una festa che già dalla prima edizione ha cercato di essere un evento sismico, capace di scuotere il torpore di Vallecascia e di gran parte della scena italiana. In Ce voir et se regarder,Deligny scriveva: “nessuno rifarà la mappa del mondo perché un bambino autistico è attratto dall’acqua che danza in un lavabo di pietra”. Noi siamo partiti dal presupposto che è forse necessario rifare la mappa proprio a partire da questa timida danza delle cose in-viste: una specie di appello rivolto alle nostre capacità percettive, in linea con un’idea di mondo come theatrumo come grande favola dei possibili

Vallecascia. Una scena dal rito teatrale collettivo orchestrato da Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi (2020).

Credi che il progetto di esoeditoria tuo e di Giuditta Chiaraluce, le meravigliose Edizioni Volatili, possa essere portato ad esempio come pratica di poesia condivisa, come opera creativa in itinere per raccogliere e diffondere idee nuove?

Credo che le Edizioni Volatili, a prescindere da come andranno le cose, siano nate esattamente per assecondare il portamento discontinuo delle parole, i loro smottamenti, le loro rivoluzioni. Le due collane — “Cervi Volanti” e “Isole” — sono figlie del diluvio, cioè richiedono ad ogni pagina lo stesso sforzo di cancellazione e di ricominciamento, affinché la lettura non sia mai davvero “conclusiva”.

Le partiture visive di Giuditta vanno verso questa direzione: più che “illustrazioni”, sono state concepite come mappe per ulteriori navigazioni, immagini lasciate correre tra le pagine a suggerire altri possibili montaggi (in dialogo con il testo stesso). Questo perché abbiamo cercato di fare libri che siano anche punti d’inciampo, controtempi, laboratori dove tendenze molto diverse tra loro hanno modo d’incontrarsi. L’intero progetto volatile potrebbe essere visto come un unico grande Libro ancora in costruzione, attorno al quale diversi autori e autrici hanno scelto di raccogliersi in dialogo (e non è un caso che le Edizioni Volatili siano nate proprio all’interno de I fumi della fornace).

Questo primo anno di vita è stato certamente sorprendente. E tuttavia, insieme a Giuditta Chiaraluce continuiamo a pensare all’editoria come a un ponticello di fortuna attraverso il quale muoverci a torto del tempo, senza sapere bene dove andare, tenendo a mente “l’antica” esortazione di Novalis: “amici, il suolo è povero; dobbiamo spargere copiosi semi, che tuttavia ci daranno soltanto un magro raccolto”.