Non avrei potuto, nell’agosto del 1981, girare per San Francisco, senza infilarmi nella libreria “City Light’s Book” per comprare i testi originali e le prime edizioni dei miei scrittori e poeti preferiti al tempo. Gli amici che erano con me non credevano che io trovassi la libreria aperta. Non sapevano che Lawrence Ferlinghetti, che l’aveva inaugurata nel 1953, non la chiudeva mai, neanche la domenica e i giorni comandati e neanche a Ferragosto. Gli amici che mi accompagnavano nel mio pellegrinaggio alla mecca della controcultura americana e della Poesia dei Beat disperavano che io potessi incontrare il Padre nobile di quella poesia, invece lui era lì, grande, grosso e barbuto, ben vestito e ben disposto soprattutto con un italiano che voleva comprare e comprò General tales of ordinary madness di Charles Bukowski, dalla City Lights Books pubblicato qualche anno prima. Là dentro poi mi trovai in mano la prima edizione di Post Office e tanti altri libri che custodisco come reliquie di un tempo che fu e di una poesia che ancora è. Scambiai due parole con Ferlinghetti, tra i sorrisi di sfottò dei miei amici che non sapevano chi fosse e chi fosse stato e cosa sarebbe stato. Mi ricordo solo due frasi, forse le uniche che capii, e che mi portai dentro nel tempo. Una era un versetto del Talmud: «la miglior vendetta è vivere bene». La seconda era un ammonimento: «Don’t try it» (non ci provare!), che seguiva la mia richiesta di un consiglio: avendo il numero di telefono di Bukowski, 462-0614 (che Hank stesso aveva reso pubblico in una poesia), avrei fatto bene a telefonargli e andarlo a trovare a Los Angeles? Devo a Ferlinghetti un ritorno in Italia privo di ammaccature e delusione.

Si è poi vendicato, Lawrence Ferlinghetti, che si è spento il 22 febbraio a 101 anni? Ha vissuto bene? Come tutti un po’ sì e un po’ no (soprattutto negli anni dell’infanzia da orfano di padre e nella giovinezza da soldato nella seconda Guerra Mondiale). Certo vivendo così a lungo ha riscattato la vita agra e breve di tanti poeti di cui è stato mentore, editore, agente, padre putativo e santo protettore (a giudicare dal personaggio di Lorenzo Monsanto, “il redentore” che rispecchia Ferlinghetti nel romanzo di Jack Kerouac Big Sur ). I meriti letterari di Lawrence Ferlinghetti si possono desumere dalle sue opere (citiamo soltanto A Coney Island in my mind e la quasi autobiografia uscita per Edizioni Clichy Little boy.) Ma forse il suo merito storico più grande fu la battaglia legale vinta dopo che fu imposta la chiusura della sua libreria rea di esporre alcune copie di Howl (Urlo) di Allen Ginsberg, giudicato colpevole di aver traviato la gioventù. Ferlinghetti non si arrese, andò al processo e ne uscì con una sentenza secondo cui «il valore artistico redime socialmente dalle accuse di oscenità». Da lì il via libera alle opere di Henry Miller e D.H. Lawrence, rispettivamente Tropico del Capricorno e L’amante di Lady Chatterley, fino ad allora vittime della censura.

Di cosa si è vendicato con la sua lunga e (pensiamo buona) vita Lawrence Ferlinghetti? Di certo degli attacchi (che oggi ritornano in altra forma) alla libertà di espressione. Si è vendicato di un destino che lo ha privato del padre prima che lui nascesse, e di una madre internata in manicomio; della vergogna della sua famiglia di portare un cognome italiano che venne storpiato in Ferling; degli orrori della bomba atomica che «aveva ucciso anche le anime», da  lui constatati due mesi dopo l’esplosione e che lo rese pacifista ad oltranza. Con che cosa si è vendicato Ferlinghetti? Con l’instancabile produzione editoriale, ma anche con la sua poesia. E non chiamiamolo l’ultimo dei beat o peggio dei beatnik, ché insulteremmo la verità e la sua memoria. La sua poesia e la sua visione della vita non somigliano a quella degli autori da lui pubblicati e non pubblicati (si rifiutò di pubblicare Il pasto nudo di Burroughs perché «pervaso da una mentalità tossica»).

La sua poesia risente delle influenze di autori classici da lui studiati nei corsi alla Sorbona e alla Columbia University (tutt’altro che un poeta di strada…), risente della sua sempre intatta leggerezza da Fanciullino (Il Little boy del suo ultimo libro). La poesia di Ferlinghetti si nutre di un’infanzia re-immaginata e perenne, che lo segue fino alla fine (l’autopista del Luna Park di Coney Island è il mitico luogo in cui immagina si siano incontrati i suoi genitori ancora ragazzi. Il suo primo libro si intitola Immagini del tempo andato). La sua è una poesia molto più formale di quella dei beat; ma è pur sempre una poesia colloquiale e discorsiva, anche se a tratti impregnata del lirismo di Walt Whitman, Dylan Thomas, Ezra Pound, Pablo Neruda. Nella sua poesia non mancano certo i temi politici, ma la sua cifra è la visionarietà.

Nei versi di Ferlinghetti c’è soprattutto la fede nella bellezza che la poesia può esprimere come “possibilità di un’isola” (direbbe Houellebecq, anche lui più poeta e più formale di quanto si creda), la possibilità di una trascendenza che ci faccia levitare sul deserto che in tutto il mondo si va a creare. La bottega di City Lights Book (l’archetipo della libreria-comunità d’incontro) è circondata oggi da un ambiente urbanistico colonizzato materialmente, antropologicamente e spiritualmente dalla gelida Sylicon Valley’s way of life. Un ambiente dove, secondo l’ultimo Ferlinghetti «la poesia è impossibile», tutto il contrario di quanto sognava il poeta-libraio-editore: «Un paradiso senza la presenza di angeli custodi asfissianti». La vita di Lawrence Ferlinghetti è stata lunga, sufficiente a vendicarsi del male con la bellezza, ed è finita giusto in tempo per non cadere nella rassegnazione.


Tra le opere di L. Ferlinghetti tradotte in italiano: Un luna park del cuore (Mondadori); Il lume non spento (Interlinea); Poesie: questi sono i miei fiumi (Newton Compton); Little boy (Edizioni Clichy); Poesie – con testo a fronte (Guanda). Una biografia dell’autore curata da Giada Diano per Feltrinelli: Io sono come Omero.