Nella seconda puntata dell’inchiesta “Ecosistemi poetici – abitare creativamente l’antropocene”, Bianca Battilocchi conversa con Renata Morresi e Matteo Meschiari.


Renata Morresi

Qual è la tua opinione su poesia e attivismo, militanza poetica, partecipazione dei poeti rispetto al collasso culturale e ambientale in cui ci troviamo?

Credi che sia importante che i poeti passino dalla pagina ai fatti, e dal necessario ‘esilio poetico’ lavorino, parallelamente, sulla costruzione di ‘comunità’ aperte al confronto tollerante, alla condivisione, in opposizione all’individualismo di massa che ci rende vulnerabili e soggetti alle decisioni altrui?

Nella tua esperienza personale, hai testimonianze positive (o meno) da condividere (anche foto, link …)? Se sì, cosa funziona a tuo avviso?

Credo che occorra sgombrare il campo da alcuni equivoci sulla ‘natura’ come qualcosa di esterno all’umanità e contrapposto alla ‘cultura’. Non c’è niente di più costruito e stratificato di nozioni quali Madre Natura, terra vergine, la natura selvaggia della wilderness, il ritorno alle origini, il mal d’Africa, il buon selvaggio, e così via. Sono concetti densi di storia, di vitalità umana e di morte disumana. Difatti, per fare un esempio, non c’era niente di pristino nel Nuovo Mondo, che non era certo nuovo ma già abitato, goduto, segnato, vissuto da altri umani. E i campioni dell’incontaminato erano proprio coloro che rimuovevano dalla storia i popoli incontrati, senza contare che la loro mera presenza fisica iniziava la contaminazione batterica e virale decisiva per il genocidio. Anche chi vuole credere al fatalismo e all’inevitabilità della storia deve riconoscere che la verginità delle Americhe non era che una colossale invenzione.

C’è un saggio bellissimo di Jamaica Kincaid in cui l’autrice, appassionata di giardini, si ritrova davanti l’intreccio tra le classificazioni botaniche di Linneo, il potere mercatile che lo sponsorizzava e l’imperialismo che rendeva possibile l’acquisizione di piante, animali e organismi, ma pure il potere di nominare le cose. È quello che Kincaid chiama «il principio di Colombo» giacché «lui dava nomi in continuazione: dava nomi ai luoghi, dava nomi alle persone, dava nomi alle cose», obliterando quelli che esistevano ovviamente. L’autrice nasce a St. John, sull’isola di Antigua, nello stato di Antigua e Barbuda, a lungo isole schiaviste. Noi pronunciamo questi nomi – Barbuta, Antica, San Giovanni – e ci rendiamo conto che essi discendono dai loro colonizzatori, prima spagnoli e poi inglesi, e che non sappiamo nulla dei nomi dei loro predecessori, né dei nomi dei loro schiavi. È ‘naturale’, quasi lo diamo per scontato che gli schiavi non abbiano un nome, che siano i padroni a controllare la nominazione. Dico tutto questo non per arrivare a un discorso rivendicativo. Non sto dicendo che non debbano esistere nomi scientifici o che dobbiamo rivoluzionare i toponimi, ma che gli umani tendono a naturalizzare (dare per assodati, compiuti, universali, eterni) processi molto più complessi. Se di qualcosa chi scrive si occupa, se di qualcosa sospetta, sono le parole.

Rettificare la dicotomia tra natura e cultura, dicevo. Il lavoro di depurazione che separa natura, società e discorso è stata forse l’occupazione principale della cosiddetta modernità. Si tratta di un lavoro di suddivisione della natura dalla civiltà che è stato lungo e laborioso, mosso da ragioni anche molto diverse: il superamento del pregiudizio metafisico, per esempio, ma pure la classificazione dell’umano secondo gerarchie razziali che servivano il discorso imperialista tanto quanto le armi. Ora siamo al punto in cui realizziamo che non possiamo più scucire natura e cultura, che le intricate reti di ibridi – cose, umani, animali, parole – di cui è fatta la vita sono, per citare Bruno Latour, “reali come la natura, raccontate come il discorso, collettive come la società” (Non siamo mai stati moderni, 18). Non solo, il collasso sistemico è così avanzato che oggi ci rendiamo conto che la fede nella perfettibilità, la celebrazione della libertà, la fiducia nell’eterna crescita sono bolle proprio come le idee di fine della storia e di auto-regolamentazione del mercato. Il mito del progresso è fondato sul mito della natura come infinita e potente, al cospetto della quale gli umani si sentono investiti dei più svariati diritti (dominarla, ottimizzarla, valorizzarla, celebrarla, e così via); che questa idea di progresso abbia portato alla distruzione di interi ecosistemi, popolazioni comprese, non è un pensiero facile da tollerare. Nessuno vuole credere di essere dalla parte degli assassini. E anche chi non vuole arrendersi alla miopia e alla negazione, rischia derive reazionarie persino di opposto segno: da una parte quelli che credono che il dominio ‘dell’uomo sull’uomo’ sia giusto e inevitabile, dall’altra quelli che pensano che è ora di rinunciare alla scienza e ai suoi portati e tornare ‘naturali’. Suprematismo e primitivismo sono due reazioni abbastanza comuni rispetto alla crisi climatica: celebrazione di ‘sangue e suolo’, chiusura nelle gated communities, esaltazione di essenze etniche e razziali, feticizzazione delle culture come fossero monoliti, messa a profitto di qualsiasi valore condiviso (che passa per note frasi fatte: la difesa del territorio, la riforma della scuola, la tutela del paesaggio, il decoro urbano, la meritocrazia, ecc.). Sembriamo delle marionette rotte che ripetono ad libitum i soliti vecchi schemi senza renderci conto che puoi erigere muri e chiudere confini quanto vuoi, ma non saranno certo quelli a fermare il CO2, l’aumento delle temperature, il riscaldamento degli oceani, l’innalzarsi del livello del mare e la sua acidificazione, l’erosione del suolo, gli eventi meteo estremi, il venir meno del territorio abitabile, le guerre per il controllo degli spazi e delle risorse che creano milioni di rifugiati. È davvero paradossale che qualcuno esulti perché muoiono tre persone in mare (accade mentre scrivo) mentre non desta particolare preoccupazione la decisione degli USA di ritirarsi dagli accordi di Parigi sulla crisi climatica. Una decisione omicida, una negazione della realtà che preferisce il genocidio diffuso alla perdita di ricchezza di alcuni. Mentre siamo ossessionati dall’occupazione della ‘nostra terra’ da parte di qualche essere umano in fuga (l’ossessione è significativa: esorcizza la propria paura della morte facendo morire colui che ci ricorda del pericolo), i plutocrati del mondo occupano l’aria che respiriamo con le loro emissioni. Scrive Di Ruscio: «il mondo deve essere atrocemente terrorizzato / perché tutta questa merda si perpetui in eterno.»

Non credo sia un problema cognitivo quello che ci fa credere alle verità alternative, il punto è, come suggerisce ancora Latour in Tracciare la rotta, che forse noi viviamo in realtà alternative: non abbiamo una coscienza planetaria. O esiste il globo freddo e astratto dei mercati e delle borse su cui non tramonta mai il sole, o l’esperienza ristretta della nostra località, della nostra nicchia, così atomizzata da non riuscire a diventare mondo condiviso (arrivando piuttosto a quella che Enzensberger già nel ’93 chiamava «guerra civile molecolare»). Allora non è un problema di informazione o di comunicazione a impedirci di percepire l’ecocidio, non un problema di dati, percentuali, registrazioni di frane, testimonianze di scioglimenti, fotografie di orsi polari e documentari sui coralli. Anzi, la quantità di dati e fatti è talmente enorme che ci fa sentire sopraffatti, ci fa ritirare nel fatalismo o nel vagheggiamento di qualche buen retiro. Arrenderci o fuggire sono opzioni perdenti, diciamocelo. Occorre rivoluzionare l’orizzonte del pensiero. Dunque non basterà convocare i vari scienziati, fisici, biochimici, ingegneri, sociologi, e poi i lobbisti, i deputati e i presidenti, occorrerà mobilitare anche le competenze degli umanisti, inclusi, addirittura, i poeti.

L’oikos di ecologia per i greci era la casa, l’ambiente domestico, le aree esterne se ce n’erano, e la famiglia stessa che vi risiedeva, una famiglia non nucleare, ma allargata e multi-generazionale: non siamo semplici inquilini di una casa comune, ma parti pulsanti di un ambiente che lega passato e presente, esterno ed interno, relazioni e responsabilità. È davvero così insensato che la questione ecologica non riguardi solo i tecnici? Le tecniche della scienza e quelle della politica? Si tratta di ripensarci come esseri terrestri, né dominatori, né dominati, ma parti tra le altre parti. Decentrare la mente, suggeriva Robinson Jeffers, un poeta molto amato dagli animatori del Dark Mountain Project, letterati che guardano dritti nel disfacimento ecologico e sociale in corso proponendosi di «non dare per scontata la centralità umana». De-narrare le storie, scrive NourbeSe Philip, quelle intollerabili e stucchevoli, le retoriche balorde con cui viene difesa la sopraffazione, i serissimi documenti che sventoliamo come fossero giustificazioni sufficienti all’annientamento. «Ritrovare il proprio vocabolario . . . ripartire dalla pressoché assoluta mancanza di vocabolario», vuole Ponge, «[c]ome ogni tanto sulle strade si trovano dei mucchi di sassi che servono a rimetterle a posto, è sicuramente così che esistono anche le parole. Bisogna andarsele a cercare. In gola, dentro la gola degli altri, nei libri, nei dizionari. Con la pala, raschiando la ghiaia.»

Inviteremo allora anche gli eterni outsiders che sono i poeti, sempre esclusi dalle classifiche e dai campionati, perfezionatisi nella loro singolare specialità: essere nella lingua, esserne fuori.

Non si tratta solo di quello che suggerisce Timothy Morton in un libro recente, dove l’autore usa la poesia come stimolo al pensare ecologico, intuizione della molteplicità e strumento di ecopsicologia, rendendola un antidoto alla semplificazione: «Leggere una poesia è un fantastico esercizio per imparare a non farsi turlupinare dalla propaganda . . . perché una poesia rende assai incerto il modo in cui presumibilmente tu accogli l’idea che essa presenta. […] Leggere una poesia inserisce un certo spazio di manovra tra le idee e le varie maniere di averne.» (Noi, esseri ecologici, 67). O se vogliamo sì, nel senso molto ampio per cui leggere una poesia, coi suoi tanti strati di significazione, è un invito inesauribile all’interpretazione. E se dobbiamo scardinare gli automatismi attraverso cui conosciamo il mondo, di domande da affrontare ne abbiamo un bel po’.

Come tutti ho le mie teorie, le mie fantasticherie, le mie provvisorie convinzioni sulla scrittura poetica. Così separata da chi legge, nello spazio e nel tempo, nei referenti e nell’esperienza, una poesia è come un essere da un altro mondo: una macchina della presenza e della distanza, della concentrazione e della digressione, per entrare in intimità con cose che non si potrebbe altrimenti mai conoscere, per meditare profondamente sulle cose qualunque, che diamo per acclarate. Non sto pensando a temi o stili particolari, ma alla poesia come discorso che indaga i presupposti su cui siamo al mondo, che riguardi un glifo o la cacciata dall’Eden. C’è qualcosa di imprevedibile nell’oggetto poetico, nel modo in cui interpella chi legge/guarda/ascolta, e questo scarto, nella sua genericità, è paradossalmente la specificità della scrittura poetica, fatta del materiale promiscuo, usato e abusato, che è il linguaggio, fin nelle sue estremità non comunicative, e al tempo stesso inerente al suo stesso gesto, un’impronta che restituisce palpabilità al mondo. (Essere dentro, esserne fuori).

Bello. Sì. Ma. Capisco che tutto questo non risponda per niente alle domande sull’attivismo poetico. Se penso agli autori e alle autrici che ho conosciuto negli anni, non mi viene in mente neanche un esempio di quello che chiami “esilio poetico”, se con questa espressione intendiamo l’isolamento sociale e il disinteresse civile. Conosco poeti esuli per lavoro, che hanno dovuto lasciare l’Italia per seguire la strada professionale che avevano scelto. Conosco poeti appartati, che non amano l’esposizione spettacolare. E ne conosco altre e altri che si fanno in quattro per trovare di che campare, come tutti. Sono stata fortunata, o forse è inevitabile essere attratti dalle comunità di ascolto e di azione con cui c’è affinità. Sta di fatto che non conosco poeti che non siano impegnati in una visione più ampia della propria opera editoriale, e con loro ho condiviso tanti progetti. Ce ne saranno pure di narcisisti ed egolatri, mi sta bene evitarli.

Non so bene cosa debba/possa fare chi scrive poesia davanti l’ecocidio. Scrivere poesie sugli alberi? (è come disegnare un albero sulla parete di una nave che affonda, diceva Bertolt Brecht). Darsi all’agricoltura biodinamica, fondare movimenti verdi, diventare hacker, vivere di artigianato d’arte, sabotare Amazon, inventare nuove forme di risparmio energetico, studiare idrologia? Oppure potrei dire: redistribuire il terrestre nel politico, credere in un locale che non sia culto dell’identità e in un globale che rispetti la multiformità delle forme di vita, uscire un poco da noi stesse, rifare da dentro tutte le parole. Cosa dobbiamo fare? Non possiamo essere ingenue: non esiste una risposta ovvia. E come potrebbe, se non esiste neanche una percezione condivisa dell’estinzione di massa, un’idea della crisi climatica più evoluta della notizia di colore a fine Tg. Quello che so è che c’è un lavoro culturale enorme da compiere, di interpretazione e mediazione, di conoscenza, sintesi e critica. Dice Insana: “è qui che bisogna durare / dove cova il grano e l’insalata / nel tempo arbitro e arato”.

Dal punto di vista più basico e pragmatico possibile questo significa andare a bussare alle porte degli assessorati alla cultura, scrivere progetti per i fondi europei, chiedere al comune una stanza dove fare incontri, letture, lezioni, allestire una piccola biblioteca, cercare risorse per finanziare pubblicazioni, riviste, rassegne, prendere accordi con editori, collaborare con un gruppo teatrale e con dei musicisti, inventarsi interventi nelle scuole, nelle comunità, nelle carceri, creare dialoghi per la radio, organizzare eventi indimenticabili (alcuni anche dimenticabilissimi), animare lit-blog, curare collane, allestire mostre, fare seminari di traduzione, tradurre, insegnare, scrivere cose, saggi, riflessioni, cronache, lettere, scrivere di libri che tutti hanno dimenticato, scrivere libri che forse tutti dimenticheranno. Queste e altre cose mi è capitato di fare nel corso degli anni, quando ho potuto trovare le «reti di piccole comunità» di cui dici. Questo e molto altro si può fare. La piccola poeta bussa alle porte piccole, il grande poeta alle sue grandi porte. Non è mai semplice. È come essere dei cercatori d’oro. «Con la pala, raschiando la ghiaia.»

Al tavolo di un’associazione civica, di un comitato di quartiere, di un gruppo tecnico, di un partito, durante un sit-in, una occupazione, uno sciopero, un raduno politico, in un seminario di formazione, un convegno, nei festival della cultura, sulle pagine dei giornali, persino in una libreria o in un’aula universitaria, devi sempre lottare perché qualcuno ascolti/legga una poesia. O esprime autorità assoluta, o, più spesso, è vista come una complicazione (tutt’al più una pausa). Oscilla tra il dilettantismo assoluto e la sacralizzazione. Una poesia non c’entra mai niente. C’è sempre qualcuno che ti dice: «ora abbiamo una cosa più importante a cui pensare.» E spesso c’è anche qualcuno che ti chiede se sei poi abbastanza pura o abbastanza valida per parlare. Perché tu? Perché non un’altra? La brava poeta attivista prende i suoi fogli, il suo laptop, la sua pala, e continua a cercare.


Matteo Meschiari

In conversazione con Laura Pugno su «Le parole e le cose» scrivi «la parola dei poeti è, o dovrebbe essere, politica. Depositaria, a volte, di un immaginario poietico, archetipico, cosmogonico, dovrebbe farsi ascoltare con coraggio in questi anni delicatissimi. Escludendo la fiera delle plaquette e delle letture pubbliche, credo che poeti, scrittori e artisti, siano abbastanza pronti per rispondere all’urgenza che esprimi nel tuo libro. Manca solo un click. Ecco, ci proviamo?»

Io ti vorrei chiedere cosa intendi per “click”? Come pensi che questo cambiamento possa avvenire? E in particolare in territorio italiano, dove abbonda il relativismo e un tipo di discorso solo distruttivo, dove ormai non si conosce neppure più i propri vicini di casa, dove la poesia è sempre più un affare per pochi, un incontro d’élite…

Se fiction is action, che posto dai alla ‘militanza poetica’ all’interno del tuo “Antropocene Fantastico”? Credi che sia importante lavorare sulla costruzione di comunità aperte al confronto tollerante, alla condivisione … in opposizione all’individualismo di massa che ci rendere vulnerabili e soggetti alle decisioni altrui? 

Hai testimonianze da condividere (anche foto, link …), ad esempio nel tuo vissuto personale? Cosa funziona a tuo avviso? 

Se la poesia vuole naturalmente rifuggire libera e autonoma da politica ed economia, non credi che comunque fare poesia sia anche un atto politico? 

Il click di cui parlo è un click cognitivo. Come tale non è facile da realizzare né per l’individuo né per la collettività. Si tratta di lavorare sul contesto, e qui entro subito a gamba tesa. Non si può sperare in un cambio di paradigma se si parte da un’idea di poesia che si fa malinconicamente coincidere con le plaquette nello scaffalino delle librerie, con le presentazioni praticate da quattro gatti e due parenti, con le riviste smilze e le marchette critiche, con una parola poetica che è l’ombra dell’ombra della parola mantica di scaldi e rapsodi. 

Bisogna lavorare sul contesto, a monte, cioè bisogna lavorare per un’idea di poesia radicalmente diversa. Nel mondo asfittico di “una lirica una pagina”, in un far versi a capo come liste per la spesa o sul diario col lucchettino, tra piccole lobby editoriali e nomi evergreen ma solo perché smaltati di vernice, mi rendo conto che a evocare Gilgamesh, l’epica romanza e germanica, o giganti assoluti come Derek Walcott e Seamus Heaney, restiamo in pochi, e l’Italia ne esce un po’ male. 

Ma in realtà alcune vene freatiche ci sono anche da noi, penso al Mussapi di Antartide, al primo Conte di L’oceano e il ragazzo, Villa con Niger Mundus, Laura Pugno, Claudio Damiani, e più indietro Sbarbaro, Roccatagliata Ceccardi, ovviamente Dino Campana. Ma comunque a me viene da pensare piuttosto all’Anonimo Genovese o all’Ariosto, perché da un lato si deve lavorare su un’altra antropologia poetica, dall’altro c’è bisogno di epica, di invettiva civile, di poesia-narrazione, di poemi cosmogonici a fronte di liriche evenemenziali. Per questo penso sempre agli scriptoria. Oppure a poeti che si parlano via radio da luoghi sperduti nei paesaggi artici. 

Certo. Ci vogliono comunità, tribù poetiche, ordini di versificatori-viandanti. Da ragazzo immaginavo poeti che si spartivano l’osservazione della natura. C’era il poeta votato alle rocce. Quello ai muschi e ai licheni. Quello specializzato nelle migrazioni della selvaggina. C’era il poeta dei fiumi e delle nuvole. Ognuno componeva lasse di paesaggio per conto suo, poi si incontravano in una baita e in qualche giorno passato assieme bevendo, mangiando e parlando davanti al fuoco, montavano i pezzi composti individualmente per creare un grande poema collettivo. Non vedo niente di più poetico e di più politico di questo. Non so se sia realizzabile in Italia, ma ho la sensazione che in Irlanda, in Scozia, in Islanda, in Labrador o anche a Calcutta qualcosa del genere potrebbe esistere.