In uno dei più famosi dialoghi delle Operette morali di Giacomo Leopardi, il titano Atlante, cedendo a un capriccio, lancia la Terra ad Ercole e acconsente a giocare con lui, finché un tiro sbagliato non fa cascare il mondo e con sé gli uomini che lo abitano. Esiste una letteratura della caduta in Italia, che spesso racconta con la voce di un «testardo narratore realista», come si era autodefinito Cesare Pavese nella presentazione all’edizione dei Dialoghi con Leucò. Ma dietro si nascondono gli dèi e un’idea di destino a forma di precipizio. Gli uomini provano a scampare, strappandosi le unghie come quella bestiolina di Rosso Malpelo rimasto cane randagio per la morte di suo padre; ma continuano a cadere.

Esordio narrativo di un’autrice abituata a raccontare con le immagini, Il medesimo mondo di Sabrina Ragucci si inserisce in questa linea discendente e spietata e accompagna il lettore nelle profondità della terra, nella caduta a cui sono destinati gli uomini, senza scampo. Il libro si presenta come un romanzo familiare: la storia dei Mogliano, proprietari terrieri andati in rovina durante la Seconda Guerra Mondiale. Non sono presentati riferimenti geografici precisi e possiamo solo supporre che la storia prenda avvio in una zona del centro-sud Italia negli anni della Ricostruzione.

Nel romanzo della Ragucci il destino si avvera in un paradosso e il bambino che cade è quello che si salva: è il dopoguerra e Angelo Mogliano ha dodici anni. Non vede l’ora di crescere; si veste già da adulto e ama ballare perché si possono stringere le ragazze. Un giorno, solo in casa, decide di bere una bottiglia di vino del padre; è il suo «ultimo gioco d’infanzia» (p.13), perché sta per raggiungere un punto di non ritorno: sente il fratellino Paolo piangere nella culla al piano di sopra e lo raggiunge, lo prende, lo porta sulla terrazza, lo afferra per i polsi e inizia a girare. Il mondo ai loro occhi si frammenta e l’atto fatale si compie: il neonato cade a terra, la terra che un tempo era stata dei Mogliano, coltivata a tabacco, la loro fortuna perduta.

Paolo non muore e, anzi, si salva dal destino di Angelo, perché viene soccorso da Ada, la zia dei due bambini, che decide di tenerlo con sé, di crescerlo e dargli la possibilità di un futuro diverso; Angelo, invece, guarda le sue mani e non sa che la sua vita intera è tutta in quel vuoto. La famiglia Mogliano ha infatti una storia di continue sconfitte e le tre generazioni che il romanzo attraversa sono tutte votate al senso di perdita: la terra che possedevano; la propria identità italiana, lasciata per emigrare in Germania in cerca di un futuro migliore; una lingua in cui esprimere le proprie emozioni, speranze, il proprio disagio.  

Nei ringraziamenti, Ragucci sottolinea l’importanza che hanno avuto per il suo libro il lavoro di ricerca «negli archivi e le interviste sul rapporto tra immigrati italiani in Germania e tedeschi della stessa generazione». Un romanzo realista?

Effettivamente il reale è un grande protagonista del romanzo: ambientazioni e azioni dei personaggi vengono rappresentati in modo estremamente minuzioso. Il lettore riesce a vedere gli aloni alle finestre, le macchie di vino sulla camicia bianca di Angelo che ancora ubriaco corre dalla zia a chiedere soccorso per il fratello, i segni di erba e terra sui suoi pantaloni, le escoriazioni che gli si formano sulle mani mentre si aggrappa all’erba per muoversi più velocemente. Ma si tratta di un reale volutamente eccessivo, claustrofobico, la rappresentazione di un universo chiuso in se stesso ed entro il quale i personaggi agiscono come anime infernali in preda alla loro condanna, incapaci di mostrare le proprie emozioni proprio perché sconfitti dalla nascita. 

Il modo in cui l’autrice li fa muovere nel romanzo sembra rifarsi alla tecnica recitativa dello straniamento del teatro epico di Bertolt Brecht, per cui gli attori «non compivano più una trasformazione completa, ma mantenevano un distacco rispetto al personaggio da loro interpretato e giungevano fino a sollecitarne palesemente una critica» (Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi 2001, p. 63). I personaggi del Medesimo mondo ci tengono alla larga, le loro vite ci giungono attutite, proprio perché non hanno possibilità di intervenire per cambiarle. 

Ormai adulto Angelo segue il fratello maggiore, Carlo, in Germania. Spera di trovare fortuna e invece trova soltanto un lavoro in una cartiera e una casa «dalle pareti opache con striature di muffa. La muffa sembra provenire direttamente dai fiori color senape della tappezzeria. È davvero un fenomeno naturale» (p. 68). La moglie che si sceglie, Teresa, aveva un fratello gemello, sepolto per errore in una bara e soffocato sottoterra. Il destino di morte colpisce anche lei: a Lichblau, dove si è trasferita con Angelo e dove è nata Roberta, la loro prima figlia, verrà investita da un’auto mentre attraversa la strada. Nell’incidente morirà anche il bambino che porta nel grembo.

Chi è il protagonista del Medesimo mondoIl protagonista di una storia è chi ha il diritto al cambiamento o al fascino della tragedia. Ma questa è la storia di una famiglia sospesa in un mondo talmente feroce da impedire non solo ogni reale cambiamento, ma anche la possibilità di esprimere il proprio dolore; così il destino di Angelo marchia anche il corpo della figlia Roberta.

Durante il parto Teresa prende il Contergan, un farmaco tedesco poi tolto dal mercato perché, pur alleviando le nausee della gravidanza, provoca gravi malformazioni nei nascituri. I medici dicono ai genitori che a Roberta non si svilupperà il seno sinistro e anche una mano resterà piccola: una manina che la ragazza sentirà sempre di dover proteggere come qualcosa di privato e di non condivisibile, qualcosa da nascondere anche alle persone più vicine affettivamente; forse perché la considera un difetto troppo orrendo, inaccettabile; o forse perché quella manina, rimasta neonata, è l’unico lascito di un’infanzia libera dalle prigioni del destino e, per questo, da preservare come il suo bene più grande. 

L’unico personaggio che in qualche modo esprime una forma di ribellione dalla propria prigione esistenziale è Lia, la seconda moglie di Angelo; solo che il suo modo di opporsi al destino è compiendo altra violenza, altra ferocia. Lia si sceglie per lavoro la propria ossessione: pulire le case, gli uffici; pulire lo sporco del mondo senza sentirsi mai soddisfatta perché il vero sporco che vorrebbe cancellare si accumula nei pensieri, nei polmoni, nelle mani con cui Lia picchia la figliastra senza pietà: è la rabbia per non aver potuto scegliere il proprio destino, per non aver dovuto «sedurre, acquistare vestiti, scarpe adatte, non ha dovuto investire su se stessa, sulla propria giovinezza passeggera alla quale assegnare un valore per il futuro». Per non aver mai avuto un futuro, perché il destino è sempre un presente che accade.

Se la loro colpa è la nascita e la volontà che li abita, la pena dei personaggi del romanzo è proprio l’estraneità alla loro stessa esistenza e al mondo, troppo reale, in cui sono inseriti. È Angelo a suggerircelo. Mentre sfoglia il giornale locale di Lichblau, Angelo «guarda le immagini e legge le didascalie dei giornalini, non riesce a tradurre tutte le parole, ma sa che le parole contano più delle immagini. Tutti noi, sempre, diamo molta importanza al potere delle parole». Le parole però non appartengono ad Angelo, che non riesce a riconoscersi in nessun linguaggio e a farlo suo: «Angelo è invaso da due lingue e da un dialetto, le parole sono soldatini di un esercito occupante; realizzarsi che poi i soldatini parlino tedesco, italiano o dialetto, poco importa: ogni lingua è straniera per Angelo». Così come straniero è Angelo rispetto a qualsiasi terra.

In Germania, pur assomigliando per aspetto a un tedesco, è considerato l’italiano emigrato; in Italia è lo svizzerino che torna al paese in vacanza, da turista che non appartiene più ai luoghi che visita. Angelo e Lia vivono in Germania, ma la loro natura di stranieri è una condizione esistenziale, così come lo è per gli altri personaggi. Desiderano incarnare il ruolo degli “italiani volenterosi”, che lavorando sodo riescono a costruirsi una piccola fortuna, a fare una famiglia, a trovare un proprio posto nel mondo. Così infatti accade, se non fosse che questo ruolo li rende disperatamente infelici

Nella vicenda di Teresa e Angelo si possono riscontrare dei punti comuni con il racconto Alba, contenuto nella raccolta L’ubicazione del bene di Giorgio Falco, compagno della Ragucci e con cui l’autrice ha collaborato, in veste di fotografa, alla pubblicazione dei libri Condominio oltremare (L’orma editore, 2014) e Flashover (Einaudi, 2020). In Alba viene racconta la storia di una giovane coppia di sposi che compra casa con un mutuo ventennale nel paese immaginario di Cortesforza, in periferia di Milano, e del loro progetto di diventare una famiglia modello, consumato giorno dopo  giorno dall’incapacità dei personaggi di riconoscere, così come avviene per i personaggi della Ragucci, lo scarto che si incide tra il desiderio di «trovare il proprio posto nel mondo», rinchiudendosi nella messa in atto di uno stereotipo, e il bisogno profondo che ognuno ha di realizzarsi nei modi che gli sono più propri.

Questa somiglianza tra il romanzo della Ragucci e il racconto di Falco ha forse radice nella medesima prospettiva narrativa che i due testi adottano: il narratore onnisciente percorre gli eventi con tono ironico e disincantato, mettendo ancor più in evidenza un’idea di destino, che soggiace ai due testi, come luogo opprimente e inospitale.

In un romanzo come quello della Ragucci, inoltre, che parla di personaggi sconfitti dal linguaggio, la voce narrante non può essere che invasiva e al lettore viene da chiederle di lasciarlo entrare, di farlo avvicinare ai personaggi, di dar loro diritto alla parola. Questo non accade mai, in un romanzo che si mostra del tutto privo di discorso diretto. 

Il narratore è un personaggio a pieno titolo del romanzo e, come Angelo e Roberta, è incapace di riportare gli eventi su un piano sentimentale, permettendo al lettore l’immedesimazione. Ma c’è qualcosa di più; si sente, costante, una crudeltà divertita e allo stesso tempo senza colpe, proprio perché estranea agli accadimenti: «Angelo parla male l’italiano, si esprime in modo poco convincente anche in dialetto. Angelo non sviluppa alcun talento, se non quello di essere il preferito della madre, il bambino che proviene dalla lunga stirpe di Giovanna. Non sarà prete né carabiniere: è l’uomo nuovo, che non teme di essere incapace. Benvenuto, Angelo!» (p. 12)

E allora viene da pensare che il narratore abbia la voce di un dio, che raccontando trasformi in atto il destino dei personaggi. Come Selene che accarezza il mento a Endimione e gli ordina di non svegliarsi più, perché così, e non altrimenti, deve essere. Come Ercole e Atlante che giocano a palla con la Terra e, per un lancio troppo forte, condannano gli uomini alla rovina. 

Angelo è un moderno Lucifero, conficcato nella terra che ha perso e in cui continua a scavare, senza accorgersi di essere diventato l’artefice del vuoto a cui era destinato.


Sabrina Ragucci, Il medesimo mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, 176 pp., € 15.