Prosegue la serie di interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020, che quest’anno si svolge interamente online. Dopo Ferruccio Parazzoli e Nadia Fusini e Tommaso Pincio, e Filippo Tuena, tocca infine a Emanuele Trevi presentare il suo libro, Sogni e favole. Un apprendistato (Ponte alle Grazie 2019), al pubblico: oggi, alle 18, in diretta Instagram con il profilo del Premio Bergamo. L’abbiamo raggiunto via mail e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.


Il romanzo Sogni e favole prende forma nel riverbero che una poesia di Metastasio produce nei pensieri dell’autore-narratore. È una poesia che scalfisce la costruzione perfetta e quasi ossessiva di uno scrittore che ha fatto di tutto per cancellare le tracce dei propri tratti biografici e cristallizzarsi nel personaggio di poeta cesareo alla corte di Vienna. Il romanzo si muove proprio in questo squarcio “nel velo dell’arte”, che lascia intravedere il vuoto nascosto dietro a tutti i nostri tentativi di dare senso al mondo: «tutto è menzogna, e delirando io vivo!». In un secolo come il Novecento, sarei stata sicura della tua risposta, oggi un po’ meno: è possibile ancora concepire la scrittura come Metastasio, e cioè come qualcosa di totalizzante e salvifico, o è costretta a mostrare, in ogni sua manifestazione, i segni di una ferita? 

Questa domanda coglie perfettamente nel segno, perché in effetti Metastasio è uno scrittore animato da un riserbo pressoché totale. Nemmeno nell’epistolario si lascia andare più di tanto, anche il tono confidenziale di certe lettere al fratello o a qualche amico più caro degli altri non va oltre un certo limite. Mi sono fatto l’idea che, venendo da un mondo socialmente infimo, non si sia mai fidato totalmente dei suoi protettori, anche quando i sovrani d’Europa iniziarono a contenderselo. Quello che gli premeva era preservare il suo dono, la sua meravigliosa musicalità. Quella poesia che ha ispirato il mio libro è un’eccezione, perché, nonostante tutte le convenzioni del genere, Metastasio parla di sé, come se si spiasse, e giunge alla conclusione di vivere in una specie di perpetua follia. Però non sarei così sicuro che si tratti di caratteristiche storiche, o almeno non ci ho mai pensato in questi termini. Ho provato un’istintiva simpatia per quest’uomo che non dava confidenza a nessuno, ma non l’ho mai considerato un contrario dell’artista moderno.

L’autodiegesi, in questo romanzo come in Qualcosa di scritto e in Senza verso, non fa sì che il “critico e scrittore Emanuele Trevi” divenga lui stesso un Metastasio, si salvi cioè dalla gravità del suo dato umano, trasformandosi in un personaggio letterario? E non sono dei Metastasio anche Arturo Patten, Cesare Garboli e Amelia Rosselli, i tre fantasmi eccezionali evocati a riaccendere le braci del Novecento?

Trasformarsi in un personaggio letterario non è una strategia molto efficace, si sta sempre con un piede di qui e un altro di là, Alice non attraversa mai completamente e una volta per tutte lo specchio. La realtà, credo, è che non c’è nulla che ci possa veramente “salvare”, tanto vale non pensarci nemmeno in questi termini. 

Perché hai scelto proprio loro tre?

Ero partito con l’idea di scrivere due libri, uno su Metastasio e Garboli che mi aveva fatto conoscere quella poesia, il secondo sul ritratto fotografico che Arturo Patten ha fatto ad Amelia Rosselli. Poi mi sono reso conto che tutto faceva parte dello stesso mondo. E i ricordi di queste persone sono legati a un’area molto ristretta di Roma, dove c’è anche la casa natale di Metastasio, e proprio di fronte alla chiesa dove si sono tenuti i funerali di Arturo, la statua del poeta. Quello che più mi piace della scrittura è creare questi spazi dove converge tutto, perché lo spazio ridona unità a ciò che la memoria tende a separare. 

Ciò che muove il racconto e il cammino del narratore per le strade di Roma e nei ricordi è una fuga dalla depressione che si fa più forte nella casa e nei luoghi chiusi in generale. Ma il tuo non è un romanzo sulla depressione, che anzi descrivi come un ostacolo, una chiusura al senso narrativo all’esistenza. La letteratura è sempre una fuga da noi stessi? Quale distanza si deve creare tra un dolore vissuto e un “dolore letterario”? E, di conseguenza, quale distanza intercorre tra autore e personaggio autodiegetico?

Sia l’autore che il personaggio possiedono certe tare, dalla tendenza a sprecare il loro tempo al rifiuto di responsabilità che gli adulti accettano normalmente. Quanto alla depressione, per me è stata sempre una situazione narrativa perfetta: il narratore manca di vitalità, e viene attratto da persone che vivono fino in fondo la loro vita, ci credono, si buttano nel proprio destino senza stare sempre in quella condizione elegiaca che è propria al malinconico. Dato che non se lo sa insegnare da solo, dagli altri impara che la vita è possibile. E un po’ vive anche lui, anche se una parte di sé non partecipa, rimane ostinatamente sulle sue. Questo certamente corrisponde a delle caratteristiche ben precise del mio carattere. Ma allora vuol dire che sono stato capace di trasformarle in un procedimento formale, nella descrizione di legami forti basati su una dissimmetria, su un’opposizione tra vitalità e malinconia.  Dico questo perché ci sono altri elementi di un carattere che invece non servono a nulla sul piano della scrittura, o perché non sono per natura trasformabili, oppure perché uno non ci riesce. Così, se mi capita di conoscere direttamente qualcuno che scrive come me, cioè usando un personaggio in prima persona evidentemente ispirato all’autore in carne ed ossa, penso sempre che c’è una differenza tra questa persona che ho di fronte e i libri, perché nella persona ci sono più cose che nella pagina rimangono totalmente inerti, per moltissimi motivi. Penso che quando parliamo di psicologia e di arte dovremmo sempre, per non fare confusioni del tutto inutili, riferirci sempre a quella parte del carattere che in effetti si presta a un lavoro formale, a una rappresentazione.

In Qualcosa di scritto, riferendoti all’amore di Laura Betti per Pier Paolo Pasolini, scrivi: «Non c’è forse, tra tutti i dolori che la vita ci costringe a sopportare, un dolore più grande di questo: amare qualcuno più di se stessi, e godere, fino a un certo limite, della sua presenza – e nello stesso tempo, capire che quell’essere amato, proprio mentre è lì con noi, in realtà appartiene solo al suo destino che già, mentre siamo sicuri di stringerlo a noi, lo porta lontano. Perché la sua storia, per quanti sforzi possiamo fare, non è la nostra e non lo sarà mai». Può essere, questo amore, rivolto non a una persona ma alla letteratura stessa? E in questa impossibilità di farla nostra, di possederla, non è forse il motivo più grande del suo incanto?

Sì, l’impossibile è una specie di incanto. Io rifuggo abbastanza dal possedere, cose e persone, così come non amo che qualcuno mi possieda. Il problema è che poi ti trovi ad affrontare molte cose da solo. Noto che c’è gente che riesce a conciliare meglio i piani dell’esistenza, ci sono ottimi scrittori che mettono su famiglia, non è necessario vivere totalmente consacrati alla letteratura. Quindi questa forma di vita vagamente eremitica (anche se sono molto socievole, a un livello più superficiale) la vedo come un mio limite, non potevo fare altro. A 57 anni, vivo ancora come uno studente nella sua stanzetta, dal punto di vista mentale. Per fortuna la vita mi ha quasi imposto degli affetti, che provo in maniera profondissima, anche se ho fatto di tutto per sabotarli e negarli. Mi sono reso conto che quella piccola parte di me che non è preoccupata esclusivamente della propria libertà e del tempo per scrivere è quella che…lavora davvero! Certo, bisogna farsi accettare, senza mentire e senza promettere cose che non puoi mantenere. Io sono uno che a un certo punto se ne deve sempre tornare a casa, recuperare la sua solitudine. Questo può creare dei rancori, ma se qualcuno ti vuole veramente bene, alla fine ci ride su, ti accetta per quello che sei.