Per dare un senso alla vita dello strano uomo di cui si accingeva a raccontare gli ultimi giorni, avrebbe dovuto svelare se stesso insieme al suo soggetto, perché la storia e il narratore erano accomunati dal vincolo della razza, del luogo d’origine, dell’epoca e delle circostanze. Forse questa storia bizzarra era una versione trasfigurata della sua. D’altronde, lo stesso Quichotte, se avesse saputo dell’esistenza di Fratello (cosa impossibile, naturalmente), avrebbe potuto affermare che in realtà era la storia dello scrittore a essere una versione alterata della sua, invece che il contrario, e avrebbe potuto sostenere che la sua vita “immaginaria” era di certo la narrazione più autentica tra le due.

Qualsiasi cosa si dica su un peso massimo della letteratura contemporanea come Salman Rushdie, si rischia di farsi megafono del già detto. L’autore nativo di Bombay è il campione del florido filone della cosiddetta letteratura postcoloniale – etichetta superficiale che lo stesso Rushdie criticò, poiché preferisce parlare semplicemente di “letteratura in lingua inglese” – , affratellato a un maestro come Gabriel García Márquez dall’aderenza ai paradigmi del realismo magico, noto al grande pubblico per la fatwā decretata dall’ayatollah Khomeyni dopo che I versi satanici (1988) aveva creato sconquasso nel mondo islamico, ma soprattutto padre di altri romanzi indimenticabili come I figli della mezzanotte (1987) e L’ultimo sospiro del Moro (1995). Da almeno un paio di decenni è in predicato di vincere l’agognato Nobel, ma viene puntualmente azzoppato in questa corsa (come Atwood, King o Murakami) dall’eccessiva popolarità, mentre l’Accademia di Svezia punta a premiare autori di nicchia per farli conoscere a platee più ampie (si pensi, per attenerci al passato recente, a Modiano, Aleksievič, Tokarczuk, Glück). Resta tuttavia fra i maggiori romanzieri contemporanei, e ogni sua nuova fatica viene salutata con toni entusiastici. Non fa eccezione Quichotte, suo ultimo romanzo uscito in Italia a maggio 2020 per Mondadori.

Ismail Smile è un agente di commercio della Smile Pharmaceuticals Inc. Anziano, originario dell’India, facoltà intellettive agonizzanti, senza fissa dimora, viaggia a bordo della sua auto, fermandosi di quando in quando in motel provvisti di tv via cavo e servizi premium. Passa le giornate ingurgitando doti massicce di ogni schifezza inserita in palinsesto, che si tratti di talk, sitcom, reality, telenovelas o talent show. La sua «pressoché totale dedizione al materiale audiovisivo» lo porta a dissociarsi della realtà, a sentirsi in qualche modo cittadino onorario di quel mondo al di là dello schermo. Malgrado ciò, anche provando a recidere i legami col passato e sbiancando metaforicamente la sua pelle per diventare organico alla società occidentale, Ismail prova attrazione per una donna dalla pelle bruna, anche lei di origini indiane, e non una donna qualsiasi: Salma R., amatissima diva della tv. Si tratta di un’infatuazione malsana e a senso unico, ma che per qualche ragione Ismail sente di dover dichiarare a lei e al mondo intero. La sua personalità è dissociata, i ricordi più lontani sembrano rabberciati quasi che qualcuno li abbia ficcati lì a forza, un Evento Interno gli ha perturbato la psiche. Quel che è certo è che non potrà dichiararsi alla bella mostrando la sua condizione umile, ma necessita di un abito e di un’identità nuovi. Mentre è assorto in questi pensieri, gli si presenta la sua nuova identità.

Quella mattina gli parve di vedere il suo io sognante rivolgersi al suo io vigile.

Lo sdoppiamento appare ancor più evidente quando i due Ismail, quello semisveglio e quello semiaddormentato, intrattengono una conversazione. Rimestando fra i ricordi d’infanzia, il protagonista va a ripescare il disco preferito di suo padre, l’opera Don Quichotte di Jules Massenet, e come folgorato, decide che sarà quello lo pseudonimo che userà, con quel nome firmerà le sue lettere d’amore a Salma. Malandato, folle, in procinto di avviarsi a un’impresa impossibile, Quichotte realizza di non avere un erede maschio e che la sua stirpe finirà con lui, ma all’altezza di Moorcroft, Wyoming, si rende conto che a bordo della sua Chevrolet Cruze c’è anche un ragazzo, suo figlio. Simile in tutto e per tutto a una vecchia fotografia serbata in un angolo remoto della sua memoria, che lo ritrae giovanissimo, in India, con indosso un kurta bianco, Sancho – questo il suo nome, è naturale – diviene il suo compagno d’avventura. Come uno scudiero o uno schiavo, è da intendersi a tutti gli effetti come un prolungamento di Quichotte sul mondo, come un mezzo per rimarcare con forza idee, convincimenti, ricordi. Il cordone ombelicale metaforico che ancora il ragazzo al padre sembra impossibile da spezzare, e la presa di coscienza del figlio è lucidissima: si sente come fosse in viaggio in una città che conosce nei dettagli, ma con la spiacevole sensazione che gli sia interdetto il cammino in alcune strade e porzioni di territorio.

La cesura fra primo e secondo capitolo è profondissima. Il lettore viene informato che questa narrazione è frutto dell’ingegno di un mediocre autore di spy stories, pure lui originario dell’India. Si chiama Fratello, ma ha scelto anche lui uno pseudonimo perché per essere accettato deve essere occidentale fino in fondo: le sue origini possono costituire un pericolo perché gli indù sono oggetto di discriminazioni feroci, dunque diventa Sam DuChamp, un nome che è anche una corazza per difendersi dalle asperità del mondo. Trasfonde in Quichotte tutte le sue ansie e paure, su tutte quella di non riuscire ad avere figli per l’età avanzata, e soprattutto cerca un riscatto personale attraverso la sua opera. È bene non andare oltre, quanto detto è sufficiente a solleticare la curiosità del lettore, basti aggiungere che per il resto del libro si assisterà a due storie parallele e intrecciate, quella di Quichotte e quella di Sam DuChamp.

Il romanzo ha una struttura tripartita, che è utile a palesare a prima vista un avvicinamento costante e per gradi all’acme della follia. L’antieroe protagonista, il commesso viaggiatore Ismail Smile, è in sostanza uno schizoide, la sua personalità è scissa in due Io indipendenti, e la sua nuova identità non può che corrispondere a Quichotte, simbolo letterario per eccellenza della follia creatrice e portatrice di avventure. Nell’episodio della “nascita” di Sancho, Rushdie omaggia neanche tanto velatamente Pinocchio: il figlio è, come il burattino di Collodi, pura invenzione del padre-creatore, e si discosta dall’omologo cervantesco proprio per la sua consistenza eterea e non fisica.

Talvolta Quichotte ha i toni della saga familiare, in altre pagine sorprende con la vacuità stereotipata da feuilleton sentimentale, ma è soprattutto un romanzo picaresco che si svolge on the road. A guardarlo da un punto di vista cross-mediale, forse potrebbe aver tratto elementi anche dalla coppia costituita da Raoul Duke e dall’avvocato Gonzo, creata dalla penna lisergica di Hunter S. Thompson e trasposta da Terry Gilliam sul grande schermo nell’altrettanto allucinato Fear and Loathing in Las Vegas. Peripezie, incontri al limite dell’assurdo, un viaggio interminabile con interruzioni e nuove storie che si innestano sul filone principale sembrano stratagemmi ereditati in qualche modo dal gonzo journalism. La Follia e il Delirio qui non hanno la matrice esistenziale del Quichotte di Cervantes, né quella psicotropa del citato romanzo-reportage, ma affondano le radici nella dipendenza del protagonista dalla televisione, vero motore che innesca l’azione.

La prosa di Rushdie, normalmente iperletteraria e suadente, risente in un certo senso dell’adeguamento a una cornice meno stimolante come quella del mondo contemporaneo, fatto di social, star della televisione dipendenti da psicofarmaci, leadership populiste come quella di Narendra Modi e del suo gemello a stelle e strisce Donald Trump. Il fatto che si insista ossessivamente sul tema del razzismo e della percezione del diverso negli Stati Uniti in un momento in cui la narrazione dell’America First è egemone pare tutto fuorché una coincidenza: le allusioni al confine messicano da attraversare, ai controlli capillari, alla caccia al diverso, segnalano un’attenzione particolare al tema. L’autore cerca e ottiene una sovrapposizione fra le realtà indiana e americana per tracciare paralleli fra i due subcontinenti, microcosmi che abbondano di contraddizioni; dunque le critiche non sono da considerare rivolte solo all’America, ma sono strumento per lanciare invettive alla sua patria (anche se Rushdie si sente apolide), teatro di contrasti etnici mai sopiti.

A proposito invece della percezione degli indù negli Stati Uniti, Rushdie è amaro e dissacrante.

Si era scoperto che gli indù, tutto sommato, non erano tra i principali bersagli del razzismo americano. Questo onore continuava a essere riservato alla comunità afroamericana, e gli immigrati indiani – molti dei quali abituati al razzismo britannico in Sudafrica e in Africa orientale, oltre che in India e in Gran Bretagna – erano quasi in imbarazzo per il fatto di essere esentati, in molte parti degli Stati Uniti, dagli abusi e attacchi razzisti e si avviarono a diventare cittadini modello.

Il razzismo nei loro riguardi, secondo l’autore, sarebbe acquisizione recente, da collocare dopo gli attentati dell’11 settembre. Dal giorno dopo, «i sikh venivano aggrediti, scambiati per musulmani a causa dei loro turbanti», tanto che si potrebbe essere tentati di inferire che fra lo slogan di quei giorni (“God Bless America”) e l’adagio trumpiano “Make America Great Again” ci sia una parentela stretta.

Quello di Quichotte e DuChamp è un mondo prossimo al collasso, dove uomini e nazioni ripiegano su sé stessi. Probabilmente il tema della società ipermediatizzata non è aspetto del tutto originale (siamo dalle parti di certi lavori di Palahniuk o di Bret Easton Ellis per i riferimenti continui all’universo dei brand e allo star system), e pure la pervasività della dimensione social risulterà un aspetto sempre più irrinunciabile in ogni tipo di narrazione. Quichotte, però, è forse il primo romanzo postmoderno scritto da quando la parola “sovranismo” è finita sulla bocca di tutti come chiave interpretativa del presente. A tal proposito, va detto che già venticinque anni fa, ne L’ultimo sospiro del Moro, Rushdie aveva posto l’accento sulla questione razziale e sul pericolo di recrudescenze di stampo neofascista: nel romanzo, un vignettista particolarmente carismatico, Mainduck, diveniva leader del cosiddetto “Asse di Mumbai”, trasfigurazione letteraria del partito di estrema destra Shiv Sena, famoso per azioni terroristiche eclatanti e per aver cavalcato lo sciovinismo indù. Se oggi negli Stati Uniti il Presidente in carica non ha remore ad appellarsi ai suprematisti bianchi dei Proud Boys durante un seguitissimo dibattito televisivo, è anche perché quell’humus conservatore intravisto da Rushdie in terra indiana si è mostrato fruttifero e si è diffuso capillarmente a livello internazionale.

Quichotte è soprattutto una profonda riflessione metaletteraria sullo stato di salute del romanzo, sulle scelte che uno scrittore si trova a fare, su quanto sia giustificabile la scrittura di bestseller mediocri ma vendibili – l’attività di DuChamp coi suoi romanzi di spionaggio – e quanto invece si debbano mettere in piedi ambiziose scritture a incastro, che dialoghino col resto dello scibile letterario del Canone occidentale, come tentano di fare Salman Rushdie e il suo personaggio-autore (stilema, questo, che contribuisce insieme alla presenza del tema del Doppio a collocare l’opera nei confini della narrativa postmoderna).

Il libro ha un’architettura complessa, che tutto sommato regge e vacilla molto di rado. C’è tuttavia il forte rischio che risulti una mera operazione erudita, ricca di recuperi e riferimenti ad altre opere ma priva di un suo orizzonte personale. A proposito di ciò, un maestro della critica come Renato Barilli ha scritto che «Rushdie dovrebbe resistere alla tentazione di parlarci, per dirla con un noto motto latino, de omnibus rebus et quibusdum aliis». Questo tentativo di Romanzo Universale ha quindi un solo limite: la tendenza estrema alle digressioni (non un difetto di per sé, in quanto segnala quella che lo stesso Barilli definisce «polifonia creativa»), che moltiplica all’eccesso i rivoli narrativi e non sempre depone a favore del giudizio complessivo sul romanzo, caratterizzato da un discostamento significativo dalla poetica e dall’identità dei precedenti.

La vera domanda che vien fatto di porsi leggendo Quichotte, passando in rassegna gli sterminati riferimenti letterari e mettendoli a confronto con gli svaghi del protagonista (lo zapping selvaggio e la tv spazzatura) potrebbe essere: che senso ha oggi la Letteratura, in un mondo dove rischia di essere sempre più residuale lo spazio che il pubblico le dedica?


Salman Rushdie, Quichotte, Mondadori, Milano 2020, 456 pp. 22,00 €