La recensione fa parte di un progetto di collaborazione fra la rivista “La Balena Bianca” e il Master in Editoria promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e dall’Università degli Studi di Milano nel contesto della quinta edizione del Premio POP – Opera Prima, coordinato da Andrea Tarabbia. A coronare mesi di discussione e lavoro in classe intorno ai libri in lizza per il premio, gli studenti del Master si sono cimentati nel recensire a gruppi i titoli giunti nella cinquina finale. L’iniziativa rispetta a pieno l’intento alla base del Premio POP: permettere un confronto tra (quasi) esordienti nel mondo editoriale e scrittori esordienti del panorama italiano contemporaneo.


Questa recensione è stata scritta dagli studenti Viola Angelantoni, Davide Astegiano, Madeleine Perrin, Sara Roma, Antonella Volta


Definire Città sommersa di Marta Barone solo “romanzo” risulterebbe riduttivo, addirittura ingannevole: il racconto è poliedrico perché nasce dalla commistione di ben quattro generi. Sembra un memoir: l’autrice narra in prima persona il percorso intimo ma anche intellettuale che la porta a ricostruire la vita di una figura paterna amata e respinta, conosciuta ma anche misteriosa. Inoltre, la ricchezza di aneddoti personali e familiari, associata all’osservazione delle emozioni provate nelle varie fasi della ricerca, accomunano alcune parti del testo a un’autobiografia. Eppure, la precisione nel riferimento a eventi storici, fatti, date, persone, coniugata con la diversificazione di fonti e testimonianze, l’inserimento di brani provenienti da documentazione storica e giudiziaria e la presenza a fine volume di una ricca bibliografia, assimila il racconto a un saggio storico-politico. Ma si potrebbe anche dire che Città sommersa è una declinazione contemporanea del Bildungsroman, perché il tentativo di ricomporre la figura sfuggente del padre può sembrare più un atto di costruzione della propria identità che un gesto di pace, addio e accettazione di un lutto problematico.

Proprio in virtù di questa sua natura ibrida, che apre a diverse categorie di lettore, la scelta di collocare il romanzo nella collana Narratori italiani di Bompiani è particolarmente calzante. Si tratta infatti di un grande contenitore che ha saputo accogliere storie molto diverse tra loro, in bilico tra la narrazione tradizionale e il più puro sperimentalismo, sempre espressione delle più recenti tendenze nella letteratura italiana contemporanea. Città sommersa è la perfetta sintesi dei titoli presenti in collana. In primis è un esordio – pensiamo a Luce rubata al giorno di Emanuele Altissimo (gennaio 2019) o a Planimetria di una famiglia felice di Lia Piano (agosto 2019) – inoltre attinge a piene mani al tema della ricerca della propria identità, attraverso l’esplorazione dei legami familiari – e qui ci sarebbero veramente molti romanzi da citare, fra i tanti ricordiamo Un giorno verrà di Giulia Caminito (febbraio 2019) e La nuova stagione di Silvia Ballestra (ottobre 2019), che è stato compagno del libro della Barone nella candidatura al Premio Strega.

Quelle dei Narratori italiani sono storie potenti, che trovano la loro massima espressione in un sapiente bilancio tra componente emozionale e ricerca interiore. Un duplice percorso che Città sommersa intraprende cercando di coniugare memoria storica e memoria affettiva. Un lungo racconto in prima persona capace di ancorare il lettore a sé.

È infatti la stessa Marta Barone a narrarci le vicende del romanzo. Ventisei anni, a Torino durante il periodo natalizio si imbatte nei documenti che trattano la sentenza del processo a cui era stato sottoposto suo padre Leonardo Barone, morto due anni prima e con il quale Marta non aveva avuto un rapporto particolarmente sereno. Pur sapendo che il padre era stato arrestato prima della sua nascita per aver prestato assistenza a un militante di Prima Linea, Marta scopre tra quelle carte che l’accusa del processo è di “partecipazione a banda armata”. Con questi nuovi dettagli, Marta si addentra quindi in un viaggio di scoperta e conoscenza di suo padre, L.B., ricostruendone il passato nascosto e rivelando un personaggio del tutto nuovo, non solo per il lettore, ma per Marta stessa. La narratrice dà così inizio a un percorso di ricostruzione di quella che lei stessa definisce la sua prima Kitež, facendo riferimento alla leggenda di una città favolosa situata a nord del Volga, che si inabissò nelle acque di un lago scomparendo e rendendo impossibile l’accesso ai nemici. La leggenda vuole che Kitež, tuttavia, continui a vivere e che solo ad alcuni fortunati viandanti sia permesso di udire il suono delle sue campane. Marta Barone, incrociando le testimonianze, gli articoli e i documenti, cerca di fatto di far riemergere la città sommersa del padre, riportando a galla la sua vera identità.

Leonardo Barone e il suo personaggio, L.B., sono le figure chiave del romanzo: abbiamo davanti a noi un sognatore, un romantico, un uomo che sembra trovarsi sempre dove c’è più bisogno di lui, che è pronto a sacrificare qualsiasi cosa per le persone che ama, ma che è anche silenzioso, mai alla ricerca di fama o anche solo di un ringraziamento. Difficile non appassionarsi alla sua vicenda, man mano che viene svelata attraverso documenti, articoli, ma soprattutto attraverso le parole di chi L.B. l’ha conosciuto, l’ha amato, ha potuto godere della sua amicizia. Eppure, il personaggio L.B. resta sfumato, non viene mai davvero alla luce perché è lui stesso a non permetterlo, tenendosi sempre nell’ombra lungo tutto il romanzo. In questo senso, lo spirito del libro è pienamente rappresentato dalla scelta in copertina. Il progetto grafico, affidato a Polystudio, gioca sulla sovrapposizione di due immagini in tonalità seppia. La veduta dei portici di via Roma a Torino lascia trapelare, come gli scuri di una finestra, un bambino, l’anima sommersa del romanzo. Questa ricerca del padre, questa impossibilità di lasciarlo andare senza prima aver chiarito i contorni di questa figura sfuggente nel libro di Marta Barone rendono facile l’accostamento a L’invenzione della solitudine di Paul Auster, dove lo scrittore inizia un’analisi ossessiva delle foto, dei documenti, di qualunque oggetto il padre si sia lasciato dietro per poterne ricostruire l’identità irrisolta e poter finalmente accettare la sua assenza. La scrittrice, nel ricostruire gli anni della giovinezza di L.B. compie un atto simile, se non identico: raccoglie testi, articoli, testimonianze per cercare di ricreare nella propria mente dei ricordi che non sono mai esistiti o sono ormai impalliditi, e così facendo fa pace non solo con questa figura che ha sempre guardato da lontano ma anche, sorprendentemente, con se stessa.

La storia di un uomo è quindi il dispositivo non solo per la ricostruzione di un’epoca, ma di un ricordo screpolato dal clima politico degli anni Settanta e dall’ambiguità della polvere che si è depositata sulla memoria, il ricordo di un volto – sfocato ma persistente – di un bambino nella nebbia. Nella commistione tra memoria e mito, L.B. diviene una maschera dai molteplici volti sempre raccontati da altri e, per questo, fallaci. Inventati e distorti dalla memoria, ci saranno sempre dei ricordi confinati nella zona d’ombra «del ricordato male», ma è proprio dall’irrecuperabilità di questa esperienza che l’autrice riesce a ridefinire la realtà, manipolandola e inventandola, permettendo a Marta – personaggio – di riappropriarsi della propria storia.

Una volta cadute le maschere di prima e accettato il diritto alla sofferenza, Marta si trova ad abdicare al proprio incolmabile desiderio di totalità, ritrovandosi a mettere insieme una storia piena di buchi dai quali accedere, forse, a quel baratro di possibilità che è la vita vera.

Inizia così la martingala della protagonista: un gioco d’azzardo con la Storia fatto di perdite, fallimenti e rilanci, nel tentativo di rendere umano il mito.

In una narrazione che mescola sapientemente diversi piani temporali, l’andamento destrutturante illumina una non-linearità in cui resta incastrato anche il lettore, costringendolo a porsi domande sui rapporti familiari e su una generazione schiacciata dai propri ideali. È in questo modo che la scrittura diviene presa di possesso della storia altrui, un’appropriazione sempre in difetto perché «Di tutto l’uomo non resta che una parte del discorso» (Iosif Brodskij). Attraverso una narrazione “sensoriale”, la rappresentazione di situazioni e concetti è posta in relazione a una fumosità dettata dalla volontà di ricordare in bianco e nero: non elementi “concreti” ma l’apparente insignificanza della realtà. Una realtà continuamente giocata su un piano d’irrealtà: paragrafi intermittenti i cui vuoti sono colmati da “bugie bianche” o da immedesimazioni improbabili. 

Infatti, è la non corrispondenza tra passato e memoria il nucleo del libro: l’impossibilità di conoscere le sensazioni del padre si dilata fino al punto in cui fatto e immaginazione si confondono, fino al punto in cui l’invenzione vince sul reale

Sicuramente, il passaggio del narratore inaffidabile di Vladimir Nabokov – la sentenza paterna su Humbert Humbert di Lolita, «Non ti devi fidare di niente di quello che dice» – non deve fungere da chiave di lettura per tutta l’opera, ma è anche vero che proprio grazie al compromesso con la bugia emerge la complessità del ritratto di un genitore sfuggente e non meno enigmatico di un eroe dostoevskiano «fuori luogo» ovunque. Forse, parafrasando Donna Tartt, è proprio l’elemento fuori posto quello che finiamo per amare di più.

Mimesi e antitesi della verità, il Fuoco pallido (Nabokov) della nostra storia ci guida nella ricostruzione di uno scenario complesso attraverso percorsi frammentari, la cui nota dominante resta un senso di solitudine da cui, tuttavia, si può guarire. Perché Kitež non rappresenta solo l’impresa da compiere, ma ha in sé – come una scatola cinese – la convinzione e la cura. La scoperta dentro la riscoperta.

C’è chi in questo romanzo ha trovato una linguistica dello struggimento, delle lacrime e dell’incertezza. Al contrario, forse, il pregio dell’opera sta nel renderci presenti a noi stessi, troppe volte memori della sfortuna di abitare una realtà sbagliata e contradditoria e, altrettante volte, immemori della fortuna di poterla cambiare.  

Inciampando, l’autrice ci rende partecipi della fallacia dei nostri luoghi comuni e dei modi che usiamo per raccontarci. E in quest’imperfezione della lingua e della natura umana, Marta Barone riesce a sospendere il giudizio nei confronti dell’eroe difettoso del libro e degli antagonisti disumani che lo popolano. Analizza la propria sofferenza riuscendo a correggere la storia di una caduta in storia di rinascita.

In definitiva, Città sommersa è un romanzo universale e umano, una storia in cui il lettore riesce a riconoscersi. È un complesso puzzle di aneddoti, ricordi, vicende individuali e collettive in cui le persone si fanno personaggi diventando mezzo di indagine e ricostruzione.

È il tentativo di una figlia di equilibrare assenza e presenza, passato e presente.  Di ricostruire se stessa partendo dall’altro, ricomponendo la vita di un padre complicato e contraddittorio. Di fermare il tempo, di farlo scorrere all’indietro e di proiettarlo verso il futuro per dare, infine, forma e consistenza a una figura sfumata e apparentemente irraggiungibile.


Marta Barone, Città sommersa, Bompiani, Milano 2020, 296 pp. 18 €.