Il Premio POP (Premio Opera Prima), indetto da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, arriva con settembre alle sue battute finali. La direzione del premio, affidata nelle edizioni precedenti a Benedetta Centovalli, è quest’anno stata assunta dallo scrittore Andrea Tarabbia, che ha coordinato gli studenti del Master in Editoria.

Viene confermata la qualità della selezione iniziale, che quest’anno comprendeva  molti degli esordi italiani più interessanti dell’anno: La dragunera di Linda Barbarino (Il Saggiatore), Città sommersa di Marta Barone (Bompiani), Noi felici pochi di Patrizio Bati (Mondadori), Febbre di Jonathan Bazzi (Fandango), Scavare di Giovani Bitetto (ItaloSvevo), Il giorno mangia la notte di Silvia Bottani (SEM), Io sono la bestia di Andrea Donaera (NN), Ai sopravvissuti spareremo ancora di Claudio Lagomarsini (Fazi), La mischia di Valentina Maìni (Bollati Boringhieri), Sotto il radioso dominio di Dio di Giorgio Zanchini (Marsilio).

A partire dalla decina di partenza, gli studenti del master hanno selezionato cinque titoli finalisti. Tra questi il 28 settembre verrà scelto il vincitore. L’anno scorso a vincere era stato Lux di Eleonora Marangoni, e la Balena Bianca aveva seguito da vicino le fasi finali del premio. Scopriamo i titoli finalisti dell’edizione corrente, che testimoniano con la loro varietà la vivacità del panorama degli esordi italiani. Avremo poi modo di parlarne ancora, perché nella settimana precedente la premiazione saranno ospitate sul sito le recensioni degli alunni del master, revisionate insieme alla nostra redazione nel corso delle lezioni.

Avrei voluto che questa storia me la raccontasse lui. Avrei voluto avere il tempo di sentirla. Ma in un certo senso sono consapevole che il libro esiste perché non c’è più l’uomo.

Già nota e apprezzata come autrice di libri per ragazzi e traduttrice, Marta Barone approda alla narrativa con un memoir che intreccia cronaca, politica e storia famigliare. Città sommersa è il racconto di una ricerca condotta dall’autrice sulle tracce del padre, Leonardo Barone, persona sfuggente e riservata, fissata nei ricordi della figlia in un’immagine granitica, eppure parziale, che a due anni dalla morte sembra sul punto di creparsi per via di una scoperta: tra le carte di un vecchio scatolone in casa della madre, Marta trova il verbale del processo con cui L.B. (così viene chiamato l’uomo nelle sequenze che ne ricostruiranno la vita, a sancirne la dimensione di personaggio) era stato condannato come fiancheggiatore di Prima Linea, poiché in quanto medico aveva prestato soccorso a un suo membro. Il testo del processo apre uno squarcio nella consapevolezza della narratrice circa la vita e le esperienze attraversate dal padre e in questo squarcio si affollano le domande che guidano la sua indagine.

Si dipana così la storia di un uomo, dei suoi dissidi famigliari, delle sue scelte sbagliate, delle sue cause perse, intrecciata a quella di un intero paese e dei suoi anni più sanguinosi e bui – i Sessanta della contestazione, ma soprattutto i Settanta del terrorismo e della lotta armata –, osservati dalla specola di Torino, città-emblema della questione operaia. Nel guado di queste due storie “maiuscole” rimane la narratrice-protagonista: ogni sua scoperta sul conto del padre porta con sé, insieme a una più precisa comprensione storica, una serie di domande che investono invece il piano della consapevolezza emotiva, ammantandola di ombre. Non esistono certezze a cui pervenire, perché il padre non può più confermare o smentire le ipotesi avanzate dalla figlia. Resta però la convinzione che la sua scomparsa abbia in qualche modo propiziato la scintilla di un fuoco destinato a rimanere vivo: anche se la “città” resterà sommersa dalle acque del tempo, la scrittura permetterà di immaginarla e in qualche modo riviverla.

Jonathan Bazzi, Febbre (Fandango 2019)

Non so più chi voglio essere, dicevo ogni volta. Ciclicamente, saranno vent’anni. Non so chi sono, non l’ho mai saputo. Per tutta la vita, finora, ho cercato senza sosta di diventare qualcosa, assumere una forma, incarnarmi […]. Ora sono stato accontentato. Anch’io ho una qualità stabile da esibire al mondo. Di cui non posso sbarazzarmi.

Raccontato su due linee temporali, una dedicata generalmente al racconto della vita di Jonathan Bazzi e l’altra dedicata a un preciso momento di crisi e cambiamento, ossia la scoperta di essere sieropositivo, avvenuta a 31 anni, Febbre è una sorta di riepilogo dell’esistenza dell’autore, nato a Rozzano e poi attratto, come moltissimi ragazzi di periferia, dalle possibilità di Milano. Ma, bisogna sottolinearlo subito, questo non è soltanto il resoconto di un ragazzo che si scopre sieropositivo: è piuttosto la ricostruzione meticolosa – operata sui due piani di cui prima, che alternandosi conferiscono un’impostazione quasi geometrica alla narrazione – di un percorso, l’analisi dell’affermazione di un io lontano dai percorsi sicuri dell’omologazione («Ho contratto il virus dell’immunodeficienza umana: […] non sembra un contagio recente»). Notevole è la capacità che ha Bazzi di attraversare gli eventi della sua vita (il rapporto tra la madre e il padre, l’adolescenza difficile, la ricerca di una nuova stabilità nella città verticale) scomponendoli fino ai minimi termini, cercando una ragione, a partire dal dato personale e individuale, che possa spiegare il comportamento dell’essere umano e il funzionamento della nostra società – mettendone in luce le storture, i vicoli ciechi. Non a caso Bazzi viene da studi di filosofia, e ha rivendicato in più interviste la matrice filosofica che caratterizza il romanzo. La sua è un’operazione complessa, che viene accompagnata da una voce fresca e svelta, che si serve di uno stile paratattico e sciolto e ingoia paradigmi e meccaniche della modernità (l’uso dei social, la vita frenetica della grande città, l’enorme iato che divide ricchi e poveri, abitanti del centro e della periferia) senza appesantire il racconto. Narrando, insomma, non soltanto la storia di Jonathan Bazzi, del suo avvento a Milano da Rozzangeles e della sua sieropositività, ma piuttosto utilizzando la sua unicità, le sue fragilità come lente che lo porta a un grado zero di osservazione.

Giovanni Bitetto, Scavare (Italosvevo-Gaffi 2020)

Già prima di andare all’università, mentre finivamo il liceo in provincia con la caparbietà di chi desidera scappare, ci rendemmo conto che, sebbene con tonalità diverse, il nostro dolore era simile. Le nostre famiglie erano degenerate allo stesso modo…

Una notte intera per regolare i conti di un rapporto che ha condizionato la vita di due persone, due uomini a metà, mai realmente completati, mai definitivamente emancipati, nonostante le apparentemente fulgide carriere. Uno scrittore à la page che vende e piace e un filosofo radicale giunto alla fama internazionale; un incantatore che con le parole arabesca suadenti menzogne e un devoto della ragione disposto a isolarsi pur di assecondarne i dettami; due maschere universali che si affrontano nel momento più buio e decisivo, quello del trapasso. Perché il filosofo è da poco scomparso e lo scrittore ne intravede l’ombra di fronte a sé, in una notte di veglia che si trasforma in racconto catartico.

Giovanni Bitetto, che arriva all’esordio narrativo dopo il famigerato apprendistato sulle riviste (come narratore e come critico), compone un romanzo autobiografico che riecheggia anche la sua stessa biografia – l’origine meridionale, l’approdo a Bologna, la “gavetta culturale”; nonostante l’intuitiva sovrapposizione con la figura dello scrittore-narratore, però, non ci si deve ingannare: gli alter ego in questo romanzo sono due e quello che si dipana tra le pagine di Scavare è in realtà un lungo monologo condotto tra due anime complementari, due volti di uno stesso individuo. Uniti da un segreto condiviso nell’adolescenza, entro i confini di una provincia meridionale asfittica e castrante, lo scrittore e il filosofo percorrono due sentieri che si biforcano a partire da quelle sliding doors esistenziali che sono gli anni della conquistata indipendenza, della legittimazione dei propri desideri e della costruzione della propria identità. Pur allontanandosi sempre più, i due continuano a “riconoscersi”, a sentirsi prossimi, perché il dolore che hanno vissuto e che ha origine nel rapporto con gli amati-odiati genitori (anche quando questi non ci sono più) continua a ossessionarli, impedendone peraltro la definitiva emancipazione. È un racconto di sconfitta, quello che Bitetto affida al suo narratore, che trova come unico riscatto un’insistenza espressiva (ed espressionistica) sul dolore che inquina ogni suo sguardo e che finisce per giustificare – come un alibi profondo – tutti gli errori commessi nel corso della vita.

Andrea Donaera, Io sono la bestia (NN Editore 2019)

Gli tornano in mente, a Mimì, un coro stonato, una chiesa che brucia, mentre con una spinta apre il portone socchiuso del palazzo dove abitano la moglie, i figli, la figlia. […] È ridotto a niente, Mimì, ormai. Niente, ormai, niente, Mimì. Ma va bene. Gli piace.

Mimì è sconvolto, non ce la fa più. È il leader della Sacra corona unita, ha condotto una vita di mafioso e compiuto le più terribili malefatte, ma non ce la fa più: suo figlio Michele si è buttato dalla finestra e lui non può sopportarlo. Nella sua testa, mentre guarda la tomba del figlio e ha il naso turato dall’odore del caffè corretto con l’anice, c’è solo il pensiero di trovare un colpevole. Il colpevole è Nicole, la ragazzina che Michele amava, che quando il ragazzo le ha consegnato un quaderno di poesie a lei dedicato gli ha riso in faccia, traumatizzandolo. Nicole deve pagare. Così inizia Io sono la bestia, l’esordio di Andrea Donaera, una discesa all’inferno ambientata in un paesino del Sud corrotto dal male. Il suicidio di Michele innesca la furia del padre e sblocca una reazione a catena: Mimì cerca vendetta, è pronto a scatenarsi contro i suoi stessi scagnozzi, contro la sua stessa famiglia, contro una ragazzina. A raccontare la sua follia sono quattro personaggi: oltre a lui stesso e a Nicole ci sono Arianna, sua figlia, e Veli, un ragazzo segregato in una casa di campagna e costretto a custodire le persone rapite dalla Sacra. Donaera segue i pensieri dei suoi narratori usando i loro occhi e la loro lingua – una lingua impastata di dialetto, ritmata nel nome di insistenti ripetizioni che trasmettono l’ossessività, lo scatto isterico di menti sconvolte. Qui l’autore dimostra la padronanza del mezzo linguistico e qui trova uno strumento di coesione che tiene insieme il romanzo. Restituisce ai personaggi un’identità precisa, trasformandoli in animali di carne e di sangue, facendoli risaltare su uno sfondo nero, teatrale, costellato di sagome di cartone. E lo sviluppo, quasi più lirico che romanzesco, ruota sempre attorno al tema principale, la trasformazione dell’uomo in bestia, in animale assetato di sangue. Così assume significato il bel titolo: leggere il romanzo significa capire che in determinate situazioni io sono (noi siamo) la bestia.

Valentina Maini, La mischia (Bollati Boringhieri 2020)

Io non sopporto le mescolanze perché ci sono cresciuta, nella mischia, perché nessuno mi ha insegnato come separare il sogno dalla veglia, l’infanzia dall’adolescenza dall’età adulta e dalla vecchiaia. […] A me hanno insegnato solo qual era il bene e qual era il male, ma non mi hanno spiegato perché, mi hanno consegnato la loro verità come la fiamma olimpionica a una staffetta.

Gorane e Jokin sono gemelli: sono nati nei Paesi Baschi, a Bilbao, e i loro genitori sono due terroristi dell’ETA. Sono stati cresciuti in maniera diversa rispetto agli altri ragazzi, nel nome della cultura e della causa basca, all’insegna d’un ferreo e astratto sistema d’idee («Pensavamo le idee sono importanti quelle non cambiano le porti ovunque sono una casa»). Se Jokin ha deciso di seguire la strada dei genitori, diventando un militante, Gorane ha ripudiato questa possibilità, allontanandosi quanto più possibile dagli affari di famiglia. Da questo movimento opposto, di accettazione e rifiuto dell’esempio dei genitori, nasce una «storia di fughe e inseguimenti» (definizione azzeccatissima di Marco Mongelli) tra Bilbao e Parigi. Jokin è infatti sparito nel nulla, e Gorane, scontato un periodo di spaesamento e terrore, si mette sulle tracce del fratello seguendo la trama di un libro uscito in Francia. Dominic Luque, un romanziere di mezza età, ha difatti pubblicato in forma di romanzo una versione edulcorata della storia dei gemelli baschi dopo aver conosciuto Jokin attraverso la figlia, Germana. Così Gorane, che in apertura sembra essere un personaggio incapace di muoversi, inchiodata alla sua casa e ai suoi genitori, abbandona il suo guscio, e si lancia tra le vie della capitale francese. Il romanzo è diviso in tre parti, molto diverse tra loro per stile e sviluppo, che insieme costituiscono una narrazione caratterizzata dal continuo cambio di registro e punto di vista: si passa dal folle tono monologante di Gorane al racconto allucinato in prima persona plurale dei genitori, dal resoconto della ricerca incessante della protagonista alla trascrizione (straniata, a tratti ironica) dei verbali di polizia che testimoniano i movimenti di Jokin. È un’epopea allucinata, La mischia: Gorane e Jokin sono alla ricerca di strumenti che gli permettano di trovare una verità o un nucleo di significato. Cercano con percorsi ed esiti diversi di costruire un sistema di lettura del mondo a partire dalle macerie della loro infanzia.