Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza è l’ultimo libro di Yari Bernasconi (dopo Nuovi giorni di polvere, Casagrande, 2015) uscito nell’ottobre del 2019 per la casa editrice L’Arcolaio nella collana Phi, diretta da Gianluca D’Andrea e Diego Conticello. La plaquette, divisa in tre brevi sezioni (venti componimenti in tutto), sin dal titolo dichiara esplicitamente il nucleo lirico dei testi: il fronte, inteso come confine geografico e relazionale offuscato da cupi conflitti politici e interiori, e la scrittura, il mezzo per rianimare la realtà e intrattenere un dialogo, seppur perdente o conflittuale, con l’alterità.

Le poesie della prima sezione, composte tutte da nove versi piani e misurati, straordinariamente classici e musicali, riportano la vita grigia e confusa degli uomini e delle cose della frontiera. Sono cartoline in minore, brevi istantanee che ritraggono i luoghi dell’infanzia di Bernasconi: Ponte Tresa, un minuscolo paese lacustre sul confine tra Svizzera e Italia, e i suoi dintorni, come le strade per Luino e le acque del lago di Lugano. Nell’oppressione di un paesaggio dall’aria tetra e buia dove anche i boschi sono «fitti e poco spettacolari» (p. 17) e dove le strade anche se «non crollano» sono animate solo dagli smottamenti che «danno scosse leggere alle curve e ai profili delle rocce» (p. 18), Bernasconi ci mostra un’umanità ridotta ai minimi termini. Nel persistente traffico dei pendolari, si intravedono solo superstiti che non credono più a nulla, mentre «il solco dell’odio, delle finte incomprensioni» è sempre più profondo» (p. 17). La pervasiva presenza degli avverbi di negazione vanifica le azioni delle anonime figure che popolano gli spazi e definiscono il senso dell’impossibilità che accompagna il movimento lento e senza scopo dell’umanità, una «folla disordinata, di sguardi» dove non è possibile riconoscere nemmeno un «tratto distintivo» (p. 16).

«Dicono guerra e io guardo il lago
appena mosso. Lo specchio di cielo
fra Italia e Svizzera, nel tepore del sole
che arriva. Gli eroi sono altrove:
niente sanno di queste vite assembrate
negli abitacoli e nel traffico, in mezzo a polveri
sospese. Le giornate che si stringono
fra due diverse e sempre uguali indifferenze.
Non direbbero guerra, se potessero» (p. 15).

Nella seconda sezione, Altra corrispondenza, appena illuminata dal riverbero della luce sull’asfalto, emerge un dialogo con un tu (cinque interlocutori reali, come precisa la nota a fine libro e lo stesso Bernasconi nell’intervista a Guido Grilli con cui l’autore costruisce, invece, la concretezza di uno scambio. Non ci troviamo più a Ponte Tresa e la corrispondenza sostituisce la toponimia come fondamento dei testi: «Ecco, vorrei scriverti questo: tu conosci | il materiale. Sai quanto è porosa la vita» (p. 23); «Ma no, non eravamo più giovani: siamo | noi. Né tu né io. Soltanto noi. Il nostro noi | senza tempo» (p. 27).

L’importanza tematica e metapoetica della scrittura si rivela nella terza sezione, composta da frammenti prosastici di lettere non ancora scritte o in procinto di bruciare, come suggerisce in esergo la citazione post-apocalittica di Ray Bradbury. Qui due voci diverse, entrambe alla prima persona, e distinte graficamente dall’uso del tondo per la voce maschile e del corsivo per la voce femminile, genitori di uno stesso figlio e ora separati, sono arroccate su diverse inconciliabili posizioni, preferendo la solitudine alla pacificazione degli opposti. Si scambiano le accuse, sempre più serrate: «Smetti di aggrovigliare le parole, guardati intorno» (p. 36); «Non c’è tempo, è vero, ma non ce n’è per nessuno. Un giorno sarai ancora sola» (p. 37); «L’unico amore che conosci è quello per i fantasmi. Ma non nominare il figlio che hai respinto» (p. 38); «Non vi ho mai davvero respinti: le circostanze me l’hanno imposto» (p. 39).

Bernasconi in Cinque cartoline dal fronte e altra corrispondenza registra le parole di un dialogo interrotto e non riafferrabile, al punto che un padre alla parola preferisce il silenzio: «Non posso più comunicare con lui, a meno di imparare la vostra lingua. Non accadrà. Non sarò figlio di mio figlio» (p. 39). Nell’indifferenza e nelle improvvise apparizioni che apparentano l’uomo all’animale («sei tu la volpe | con il pelo più rosso» p. 25), nel fiume abbandonato alle anguille e nell’animazione delle cose che sottilmente comunicano, dagli «smottamenti» della terra ai fiori di plastica sulla strada che evocano i morti, si avvertono echi di Montale, Sereni, e Pusterla. Lo sguardo poetico che ordina le parti si rivela attento e calibrato e sancisce pacatamente l’abbandono e la rovina se, come nella seconda sezione, «le cose non vanno e non sono andate | come speravi» (p. 26). Nemmeno l’epifania rumorosa di un ragazzo che si getta nella «striscia d’acqua dolce» fra Caslano e Lavena (p. 19) scalfisce la certezza della «paura di un’altra nuova fine» (p. 19), quando, nel domani, vedremo solo la pioggia a nascondere il cielo, gli alberghi cupi e inabitati e le case svuotate, oppresse dai monti a strapiombo.

Il libro, significativamente, si chiude con la fine della scrittura e delle relazioni. La voce femminile esorta il suo interlocutore a posare la penna, dopo aver passato il limite e aver dilatato il suo buio. È l’ultima lettera della donna. Non ce ne saranno altre e come s’interrompe la corrispondenza tra i due personaggi così accade con quella dell’autore e del lettore. Non resta che riporre le lettere e il libro e meditare, in attesa di rileggere ancora.


Yari Bernasconi, Nuove cartoline dal fronte e altra corrispondenza, Forlimpopoli, L’arcolaio, 2019, pp. 47, € 6.