La possibilità di ridefinire l’immaginario idilliaco che avvolge la condizione di essere madre è frenata, ancora e spesso, da una certa forma di riverenza e sacralità verso uno status considerato intrinsecamente privilegiato. L’esordio di Brenda Navarro – giovane autrice messicana, specializzata in studi e questioni di genere – si addentra invece in quella parte della maternità che, per pudore, viene spesso silenziata e lascia le madri libere di vivere la propria condizione, senza dover mascherare la propria umanità. Ed è questo forse lo scandalo del romanzo.

Case vuoteè ambientato in Messico e porta sulla scena la storia di due donne e del loro legame con la condizione dell’essere madre: da una parte una maternità vissuta, ma in fondo non voluta; dall’altra un desiderio di maternità assoluto e totalizzante. L’unico nesso fra le due donne è che una, per avere finalmente un figlio, ha rapito il bambino dell’altra.

L’inizio in medias res lascia al lettore gli elementi fondamentali per entrare nella narrazione. Daniel ha tre anni, è scomparso un pomeriggio al parco. L’ultima volta che la madre ha alzato lo sguardo verso il figlio, il bambino era fermo fra l’altalena e lo scivolo; ciò su cui la donna era chinata – prima di accorgersi che il figlio non ci fosse più – era il messaggio dell’amante che aveva deciso di lasciarla. La scomparsa di Daniel, col rimorso e il senso di colpa che si porta dietro, travolge tutto. Nel monologo della madre, il lettore assiste inerme al crollo di una vita familiare già precaria e instabile, dove gli equilibri erano stati messi a dura prova da altri fattori. Il rapporto fra la donna e il compagno, Fran, è ormai morto da tempo, reso sostenibile solo dalla liaison che la donna intrattiene con un altro uomo. La maternità è arrivata un po’ di soppiatto, non desiderata né cercata, e si è imposta come un carico eccessivo, un fardello che non avrebbe portato alcuna felicità, un regalo mai richiesto.

«Dopo la nascita di Daniel mi sentivo cieca e paralizzata, come chi cammina a tastoni per non cadere, si aggrappa ai muri per tenersi in piedi davanti al mondo, brancolavo senza una direzione».

E il fatto che Daniel sia nato con una forma di autismo non rende le cose più semplici. Oltre al problema di una maternità subita, si affaccia la preoccupazione per il futuro e il pensiero per la capacità del bambino di stare al mondo. La spiegazione che «l’autismo non è per forza una disabilità ma solo un modo diverso di stare al mondo» non basta a placare le ansie. Al senso di frustrazione per il fatto di non essere stata «in grado di mettere al mondo un bambino sano, normale» si alterna nella donna la convinzione che Daniel non sia «la nota stonata in un mondo già di per sé stonato». Il bambino, al contrario, sembra essere in alcuni momenti l’unica fonte di luce in un mondo fin troppo tetro. Il rapporto ambivalente verso Daniel oscilla fra il rigetto e un amore viscerale, che, nel suo essere umano e limitato, è quello che ciascuna madre prova verso il proprio figlio.

Il rapporto difficile di questa donna con la maternità viene però aggravato dalla presenza di Nagore, la figlia della sorella di Fran, rimasta orfana di madre. Nagore è l’altra figlia mai voluta, un’altra maternità subita.

«Altre volte, molte, avrei preferito essere Amara, la sorella di Fran, e lasciare a lei la responsabilità e la cura di due vite estranee. Essere io quella nata male, vissuta male, morta peggio. Non partorire. Non procreare, non essere l’agglomerato di cellule che dà la vita ad altre cellule. Non essere vita, non essere sorgente, non essere l’ostaggio del mito della maternità che chiede a me di tramandarsi».

La scomparsa di Daniel, nonostante la precarietà familiare in cui era immerso, apre un buco nero che trascina tutti i personaggi in un limbo, in uno stato senza pace né misericordia, e nemmeno speranza. Del bambino non si occupa nessuno, nessun funzionario né poliziotto pare aver preso a cuore la situazione, rimangono solo dei volantini affissi sui pali della strada. Difficile pensare di poter vincere la battaglia o sperare di poter capire cosa sia successo al piccolo bambino autistico di tre anni, sparito davanti agli occhi di una madre distratta. Ma di fronte ad una scomparsa, che non dà certezza di vita né di morte, rimane un dolore persistente, fisso e lancinante, che si lascia alimentare da rimorsi e illusioni, e abbandona le sue vittime in uno stato di assoluta indeterminatezza. 

«Non c’è una parola che definisca una madre il cui figlio che ha partorito è morto, e se ci fosse sarebbe comunque un concetto che non mi si addice visto che Daniel è ancora vivo. Io sono qualcosa di peggio, di impronunciabile, qualcosa di ancora indeterminato, qualcosa che solo nel silenzio può essere vagamente tollerabile».

La seconda voce del romanzo è quella di un’altra donna, che vive in un quartiere più povero ed è bloccata in una relazione tossica e violenta, ma lotta ogni giorno per mettere in piedi il suo progetto di vita. L’unica cosa che la separa dalla realizzazione del suo disegno è l’avere un figlio. Un bambino sarebbe il pieno compimento della sua esistenza, la giusta ricompensa per tutte le fatiche sostenute, per tutti i torti vissuti. Alla maternità sofferta della madre di Daniel, si contrappone una maternità agognata, fonte di una frenesia ossessiva che non contempla ostacoli.

«Io stringevo le labbra tra il rifiuto e il piacere e il mio obiettivo era riuscire a farlo venire dentro e ci sono riuscita, e pensavo che mi sarei costruita il mio destino con le mie mani e che avrei trovato tutti i modi per essere madre e così tappavo la bocca a lui e al suo dio».

Non può essere d’impedimento il rifiuto del compagno di avere un figlio, né può essere un ostacolo il fatto che questa figlia immaginata a cui «mettere i fiocchetti tra i capelli» non arrivi. Quel bambino sconosciuto nel parco avrebbe colmato il vuoto lasciato da una maternità che tardava a palesarsi. Ma si trattava evidentemente di un abbaglio. La donna prende Daniel, lo tratta come fosse suo, gli dà un nome, Leonel, e decide il giorno del suo compleanno, ma tutto questo serve a poco: «credevo che con l’arrivo di Leonel potevamo migliorare le cose, però è come coprire il sole con un dito, ciò che è marcio rimane marcio, non c’è soluzione». Di marcio nella vita di questa donna c’è molto, il suo monologo delinea agli occhi del lettore uno scenario desolante e angusto, fatto di soprusi e violenze, in cui ogni personaggio è in grado di vedere solo se stesso e i rapporti sono malati alla radice. E Daniel, o Leonel, non può che essere l’ennesima vittima di un sistema di relazioni ormai compromesso.

Case vuote è un dialogo alternato di due voci che scorrono sole e implacabili, interrotte solamente dalle poesie di Wisława Szymborska, inserite all’inizio di ogni capitolo. Navarro sceglie uno stile paratattico, quasi aforistico, declinando la scelta delle parole in due registri diversi, che rispecchiano lo status sociale delle due protagoniste. Nei loro monologhi le due donne confessano al lettore le paure che di solito una madre è invitata a rendere inaccessibili, esprimono quei pensieri che tendono a essere rimossi, per pudore o per vergogna. L’autrice insiste molto su questo tasto, a rimarcare la necessità che alcuni tabù sull’essere madre debbano essere rotti. L’intento è quello di ridare alla donna uno spazio in cui vivere la propria maternità lontano da miti e stereotipi, dove allo status di madre si possano accostare anche l’egoismo, il rifiuto e la possibilità di sbagliare. Il ruolo marginale delle figure maschili, inaffidabili o inconsistenti, rende agli occhi del lettore tutta la solitudine con cui spesso molte donne sono costrette ad affrontare la gravidanza, la condizione di madre e la crescita dei figli, dimenticate come compagne e abbandonate come amanti. Ad una interiorità messa a nudo, fa eco un’osservazione attenta per i corpi, per quegli involucri, stanchi e provati, che riflettono tutto ciò che vivono. In questo romanzo il corpo è raccontato come luogo del desiderio sessuale, come fonte di vita, come sede di violenza e di morte, ma i protagonisti sono i corpi delle due donne, svuotati di qualsiasi senso, che hanno perso ogni ragione per andare avanti, «le case vuote pronte ad accogliere la vita o la morte ma che, alla fine dei conti, sempre vuote rimangono». Sullo sfondo c’è il ritratto di un Messico che va avanti a fatica, colpito dal problema dei desaparecidos, delle morti sul lavoro e del mito della vita negli USA. Un mondo infido e precario, retto da una sorta di legge del taglione, in cui «chi ruba viene a sua volta derubato». Un mondo asfissiante e omicida, che lascia poca speranza e un fastidioso senso di amaro in bocca.

Potrebbe esserci la tentazione di trovare una morale della storia, una spiegazione che lasci la coscienza in pace con se stessa, ma cercarla vorrebbe dire fare un torto al romanzo: Case vuote nasce con il chiaro intento di scomodare il lettore, scuoterlo dal torpore in cui è immerso e accompagnarlo attraverso strade che si è sempre rifiutato di percorrere.


Brenda Navarro, Case vuote, trad. C. Ausilio, Giulio Perrone, Roma 2019, 160 pp. 15,00€


Immagine di copertina: Radici (1943) di Frida Kahlo