A fari spenti e in un generale silenzio, è uscito, ormai sei mesi fa, un nuovo libro di Vincenzo Latronico: Un architetto. Pochi ne hanno parlato, e per lo più mossi da un interesse non preminentemente letterario. Il libro in questione, infatti, è un breve saggio dedicato all’architetto del nazismo Albert Speer, ed è stato pubblicato in una graziosa confezione dalla milanese Juxta Press, neonata casa editrice “con una spiccata predilezione per l’arte”. E in effetti l’arte c’entra anche in questo libriccino, che è sì dedicato al personaggio ambiguo e sfuggente di Speer, ma prende le mosse da un quadro dell’artista belga Luc Tuymans, Der Architekt (1998), da cui peraltro mutua il titolo.

Vorrei scrivere di un architetto. È quello ritratto da Luc Tuymans in Der Architekt, un dipinto del 1998. È anche Howard Roark, protagonista di The Fountainhead di Ayn Rand. È anche Alberto Speer, il nazista.

La tela di Tuymans è infatti realizzata a partire da un fotogramma di un filmino che ritrae Speer nelle vesti di sciatore: l’architetto è a terra, gli sci ancora addosso, e volge il volto indietro, a monte. Ma il volto è cancellato, è una macchia bianca. Tutti sanno chi è, lo dice il titolo; nessuno però lo riconosce, se non legge il titolo e non può contestualizzare l’opera di Tuymans. Il discorso di Latronico prende le mosse da questo paradosso, in un esercizio di ekphrasis che è però anche un’interpretazione personale e personalizzata dell’opera e del suo soggetto. L’obiettivo, infatti, non è solo arrivare a capire cosa abbia rappresentato Tuymans, ma chi sia stato effettivamente Speer, l’uomo che ha offerto una veste architettonica e una scenografia simbolica al nazismo.

La parabola di Albert Speer deve essere divisa in due, anzi tre fasi: la prima è quella del delfino del Führer, prima ideatore della rivisitazione del neoclassicismo fatta propria dal Terzo Reich, poi ministro degli armamenti a guerra mondiale già iniziata; la seconda è quella del condannato a 20 anni di reclusione nel carcere di Spandau, dove scrive le proprie memorie e si dedica ossessivamente a una «camminata intorno al mondo», conclusa solo il giorno della sua scarcerazione; e la terza è quella del personaggio mediatico, che gira l’Europa tra conferenze e interviste a proposito degli scritti del carcere, dove l’esperienza nazista finisce per diventare, all’interno della sua biografia, una «curiosità» (l’espressione è del filosofo Miguel Abensour, che a Speer ha dedicato un breve ma profondo saggio, Della compattezza). A rendere perturbante e anche affascinante la figura di Speer è stata d’altra parte proprio la capacità di minimizzare in maniera persuasiva il suo coinvolgimento nella barbarie nazista, tanto sfrontata da far pensare che sia sincera, la dichiarazione di insipienza di un uomo talmente proiettato alla realizzazione della sua vocazione artistica da non accorgersi nemmeno delle implicazioni che il proprio lavoro poteva avere nell’affermazione del nazismo (e in particolare nella mobilitazione delle masse attraverso cattedrali di luce e più in generale un’arte monumentale che “estetizza il politico” – qui è ancora Abensour sulla scorta di Canetti). Da qui il mito del “genio” che vive estraniato dal mondo e che realizza il suo progetto a prescindere dai compromessi che questo comporta. Compromessi che ci riportano dritti nel buco nero della Storia novecentesca.

Fino a qui, allora, questo breve testo di Latronico sembrerebbe l’ennesimo frutto fuori stagione di quell’indagine sul trauma che ha condotto scrittori e scrittrici delle ultime generazioni a cercare nel passato pubblico e privato, ma soprattutto nelle grandi tragedie del secolo scorso, i barlumi di un senso capace di illuminare anche il nostro presente. Ridestare dopo decenni di silenzio (almeno dalla morte, nel 1981) il fantasma di Albert Speer ha il sapore di un esercizio retorico volto a investigare un altro interstizio di quella Grande Storia a cui continuamente chiediamo di ricordarci che abitiamo un mondo che da quei traumi ancora è sconvolto e che di quel contesto ancora si nutre per elaborare figure e modelli di comprensione del reale. Ma l’interesse per «l’architetto di Hitler» nasce in verità da un’altra ragione, ben più interessante e più intimamente legata al tempo che stiamo vivendo.

Ed è per questo che Latronico chiude il triangolo aperto da Tuymans con il libro di Ayn Rand, La fonte meravigliosa (1943). Si tratta di un ponderoso romanzo che racconta le vite parallele di Howard Roark e Peter Keating, incarnazioni di due tipi contrapposti di architetto: uno geniale e puro, che persegue un ideale di rinnovamento estetico per il quale non è disposto a scendere a compromessi, anche qualora questo gli costasse la miseria e l’impossibilità di realizzare un progetto che intanto prolifera nella sua immaginazione; l’altro scarsamente dotato e opportunista, che pur di lavorare e arricchirsi accetta qualsiasi condizione e che, in definitiva, non dimostra alcuna considerazione per il proprio mestiere. Roark, invece, ne ha talmente tanta da interpretare la sua come una missione civilizzatrice. È lui il depositario della “fonte meravigliosa”, «la qualità intangibile che permette alla mente di vincere sulla materia», ovvero «l’individualità». Questo sarebbe, secondo Latronico, il punto di contatto tra Roark e Speer: entrambi «credono nella predestinazione del “trionfo della volontà”», entrambi hanno progettato più di quanto hanno realizzato, anche per il potenziale eversivo delle loro opere (in entrambi i casi prevalentemente distrutte). Ma l’intuizione più interessante non è questa, bensì quella che ravviserebbe nel “tipo” di Speer (e di Roark, che gli fa controfigura) quel tecnico-artista che in virtù della propria eccezionale competenza disciplinare rivendica il diritto a compiere la propria opera in una dimensione che prescinda da qualsiasi giudizio morale. Un “tipo”, suggerisce ancora l’autore, che siamo ben abituati a frequentare, una figura specifica del nostro tempo, quella del tecnocrate, lo specialista chiamato a risolvere un problema costi quel che costi.

L’artista che era in Speer coglieva nell’adesione al nazismo la possibilità di costruire i progetti che sognava, e per questo ne trascurava la sostanza criminale. Il tecnocrate che era in lui si concentrava sulla realizzazione pratica dei compiti che gli venivano affidati senza interrogarsi sul loro valore morale.

Questo, per sommi capi, è il percorso che Latronico ci propone in Un architetto. Ma cos’è alla fine questo libriccino? Nonostante la cornice editoriale e promozionale in cui il libro è stato collocato, nonostante lo stesso Latronico abbia da diversi anni ridefinito il proprio profilo autoriale all’interno del campo critico-artistico (dal libro Narciso nelle colonie con Armin Linke alle collaborazioni con Frieze, Flash Art e Domus), Un architetto è in realtà una sorta di breve saggio di critica letteraria. Per parlare del quadro di Tuymans come della vita di Speer, Latronico non ricorre né agli strumenti dello storico dell’arte né a quelli dello storico tout court. Le sue fonti, come testimonia la breve bibliografia in coda, sono le dichiarazioni dell’artista e le memorie dell’architetto (più una lunga conversazione con una giornalista del Times), oltre naturalmente al romanzo di Rand: fonti che legittimano l’esercizio della critica letteraria – e di una critica nuova e originale, che cerca di ricostruire un profilo a partire da un collage di immagini tutte evidentemente parziali e inaffidabili (l’interpretazione di un artista, l’autocommento di un nazista mai pentito e poi assurto a “personaggio” mediatico, una narrazione allegorica). Lo stesso discorso dell’autore, poi, non manca di sottolineare la parzialità del proprio punto di vista («L’unica prova che avevo a riguardi era una sensazione – la sensazione, da lettore delle sue memorie…»), circoscrivendo quindi il raggio d’azione delle proprie parole a un’originale quanto effimera suggestione.

E questa suggestione potrà risultare tanto più feconda, quanto più riuscirà a radicarsi in un discorso più ampio e articolato, che convochi magari, assieme al sapere letterario, anche la cultura filosofica e sociologica; un discorso – che forse non sarà Latronico a portare avanti – che riesca a dirci se davvero il “tipo” di Speer non è solo un eccezionale individuo del passato, ma una figura archetipica della modernità, da conoscere e sottoporre a critica e giudizio.

Vincenzo Latronico, Un architetto, Juxta Press, Milano 2020, 64 pp., 17,99€