Stabilire una versione italiana di Controcielo (1936), prima raccolta poetica di René Daumal, è un atto di rinascenza e rifioritura. I tipi di TLON si sono assunti il compito, affidando la traduzione a Damiano Abeni (il lettore che lo aveva conosciuto con la resa dell’inglese di Mark Strand sarà piacevolmente stupito da questo controcanto con il francese) e l’introduzione ad Andrea Cafarella. Il risultato non è solo efficace, ma importante, perché questo libro riempie il tassello mancante della bibliografia italiana di Daumal, aggiungendosi alla buona messe di scritti in prosa già disponibili, riscoperti da Adelphi decenni fa grazie a Claudio Rugafiori.

Ma soprattutto perché permette di conoscere la poesia di René Daumal, come premessa necessaria delle sue opere più celebri (una su tutte: Il Monte Analogo, romanzo pubblicato postumo nel 1952 che nel 1973 ispirò Alejandro Jodorowsky per La montagna sacra).
Consente inoltre, su un piano eminentemente testuale, di ricostruire le complesse trasformazioni del segno poetico nell’ambito francese tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, e per di più da uno scorcio laterale. Daumal è infatti figlio di una temperie culturale plasmata da influenze nette ma eterodosse (che assorbe gli stimoli della patafisica, della prima stagione delle Avanguardie storiche, del dadaismo e del surrealismo). La sua scrittura, però, sfugge a ciascuna di queste classificazioni, e dimostra oggi quanto all’epoca i confini fossero permeabili e i conflitti frequenti.
La raccolta, dunque, è uno strumento perfetto per interrogare forme e funzioni del mezzo poetico nello sperimentalismo francese primonovencentesco. Daumal fu certamente uno sperimentatore ma intraprese, sotto la pressione fortemente polarizzante di Dada e del surrealismo, una strada a tutti gli effetti personale e – si può dire – trascendente.

All’altezza del 1945, Maurice Blanchot si stupiva da una parte dell’influenza del surrealismo, ancora pervasiva nonostante tutti i movimenti si fossero sciolti, e dall’altra della miriade di scrittori che l’avevano in qualche modo attraversato; denunciava l’esistenza di «un fantasma, di una schietta ossessione» surrealista, figlio di una trasformazione del surrealismo e dei surrealismi in senso stretto in un trascendentale poetico.
Il surrealismo, dopo una «metamorfosi meritata», ha finito per incarnare un approccio generale alla lingua e al discorso poetico più che un fenomeno preciso: è, in sostanza, «divenuto surreale»1. In che modo ha cercato di rovesciare da capo a piedi la lingua? E perché proprio mediante la scrittura poetica?

Leggere a distanza René Daumal poeta, che con il surrealismo stricto sensu ebbe rapporti tormentosi (ben mappati da Cafarella nella sua lunga introduzione), rimette in gioco gli interrogativi blanchotiani e offre risposte nuove.
Controcielo ha una struttura tripartita: è composto di tre sezioni che alternano poesie e prose poetiche. La seconda è l’unica che contiene componimenti di soli versi, quasi a essere il cuore pulsante della poesia viva; le altre due, invece, lo racchiudono e lo proteggono con una scorza di commenti che ne costituisce l’armatura.
La prima, particolarmente interessante per la commistione di forma e contenuto, è intitolata Clavicole di un grande gioco poetico, ed è apertamente riferita all’esperienza di Le Grand Jeu, che riunì un gruppo di scrittori tra cui lo stesso Daumal in una simil-società segreta di ispirazione patafisica, e alla pubblicazione omonima (ne apparvero quattro numeri tra il 1928 e il 1932).

Il “gioco poetico” è un vero e proprio prosimetro volutamente allontanato dalla tradizione. Ogni pagina presenta, isolati, frammenti di un flusso di versi continuo, e li spezza in microscopìe per analizzarli tramite prose poetiche che fungono da glosse; i pezzi poetici sono ostensione di imagismo e di una logica del simbolo, mentre i brani in prosa ne sono una paradossale spiegazione, speculativa e metalinguistica.
In tal modo, Daumal costruisce a tutti gli effetti un discorso: presenta lingua e parola mentre le usa. Il processo e i risultati così ottenuti informano il libro nella sua interezza e concretizzano, problematizzandola, la nozione stessa di “poetica”: una sintesi di prassi e teoria del segno poetico agìto.

Il discorso di Daumal ruota intorno al poeta, alla parola poetica e alla sua efficacia; lo si può intendere come una risposta a quello che secondo Blanchot era il problema fondamentale dello sperimentalismo delle istanze prossime al surrealismo e a Dada. Può un linguaggio – qui, segnatamente, poetico – rinegoziare il proprio rapporto con la realtà? Ai minimi termini: la poesia può essere un linguaggio nuovo, capace di superare la dialettica tra soggetto razionale cartesiano e mondo?
La posta in gioco è alta, e la postura daumaliana spicca per originalità e radicalità, a maggior ragione se confrontata con quelle, altrettanto radicali, del surrealismo bretoniano e del dadaismo più violento.

Daumal denuncia anzitutto la necessità che la parola poetica si rinnovi. Se il compito è quello di dire il mondo («Nomina, se puoi, la tua ombra, la tua paura | e misurale la circonferenza della testa, | la circonferenza del tuo mondo e se puoi | pronunciala, la parola delle catastrofi», p. 155), un’azione poetica minima (un gesto per cui «basta un’unica parola», ma che non si risolve in essa, ibidem) può rovesciarlo e «lacerare la trama, | da solo, completamente solo» (ibidem).
Per lacerare la trama del mondo occorre, però, una parola sgravata da qualsivoglia dovere denotativo; la Trenodia linguistica, per esempio, è un invito a non parlare più come prima e un’istigazione a disobbedire ogni aderenza tra significante e significato:

Non parlate più del cuore!
La vostra lingua è putrefatta e il vostro respiro freddo
i vostri sguardi vuoti contemplano la notte,
coppie di mondi morti vi colmano gli occhi,
non parlate più nell’aria degli uomini (p. 167).

Per Daumal, affinché la poesia sia lingua nuova la parola poetica deve farsi segno. Il segno coincide – in una proposta teorica espressa anche in altri saggi di poetica – con una «parola parlante», opposta alla «parola parlata»2 e unica alternativa al silenzio, al «RESPIRO diffuso, PAROLA muta» (p. 101).
La differenza tra parola “parlante” e “parlata” sta proprio nella possibilità segnica della prima rispetto alla seconda, altrove rimarcata da Daumal in un sintomatico parallelo con l’immagine: «Immagine immaginante, che è forma, e non immagine immaginata, che è apparenza»3. Il segno poetico daumaliano è una forma: un trascendentale che permette di dire tutto.

Concepire la parola poetica come segno accomuna Daumal agli sforzi poetici surrealisti; il segno poetico daumaliano e quello surrealista di ascendenza bretoniana differiscono, tuttavia, per natura: sono essenzialmente diversi.
La rivoluzione surrealista, sintetizzata programmaticamente dai manifesti e dai romanzi di André Breton, si annuncia con la sostituzione, nel rapporto tra soggetto e mondo, della funzione onirica a quella mnestica; perché tale rapporto cambi, il sogno non deve abitare l’immaginario (una surrealtà latente al reale) come un addendum supplementare, ma deve essere la realtà (una surrealtà che è realtà patente).
Questo programma non si attua dunque con occasionali sfondamenti nel fantastico e nell’immaginifico, ma nello scontro perpetuo e mobile tra tutti gli elementi del reale che di norma si considerano fissi, le cose, di modo che sempre nuove cose emergano.
Il segno poetico surrealista è, perciò, un indice; una traccia diretta della presenza degli oggetti, pronta per un uso combinatorio e persino automatico che smuova l’inconscio del soggetto portandolo in primo piano.

Il segno poetico daumaliano, invece, è simbolo, che si allontana dalla referenzialità diretta e dunque dal mondo reale con elevazione mistica. Il verso non riconfigura una surrealtà, ma oltrepassa il reale. Il rapporto tra soggetto e oggetto non è rimodulato dall’inconscio, ma dall’ascesi; la poesia dètta il rapimento: «Presta enorme attenzione quando passi dall’ordine microcosmico all’ordine macrocosmico, e viceversa; in altre parole, dall’ordine ascetico all’ordine metafisico, o viceversa. L’uno ti apparirà sovente come il riflesso rovesciato dell’altro; perché nei confronti del macrocosmo, il microcosmo è soggetto. Io ti ripeto che questo punto è pericoloso» (p. 53).

Come ciò sia fattibile lo si evince da Il disincanto4, forse il componimento di Controcielo maggiormente contrassegnato da iconismo testuale. La coppia cromatica-concettuale di bianco e nero e il passaggio repentino tra questi due opposti divengono lo specchio della metempsicosi già menzionata tra microcosmo ascetico e macrocosmo metafisico: «Bianco e nero e bianco e nero e nero e bianco, | se le nostre anime si scambiassero i corpi, | non cambierebbe niente, | quindi non parlate più di corpi né di anime» (pp. 183, 185).
Il segno poetico usato come simbolo oltrepassa la realtà, ed è sur-reale nella misura in cui la sovrasta al di là di ogni dualismo. Tra corpo e anima ma, seguendo Blanchot, anche tra soggetto razionale e mondo; se per il critico il surrealismo bretoniano «in certo modo, ha bisogno di fare tabula rasa, ma cerca anzitutto il suo proprio Cogito»5, l’opzione di Daumal se ne libera per via obliquamente spirituale.

La questione della “tabula rasa” è la chiave di volta che permette il confronto della poetica di Daumal non solo con la distruzione necessaria alla ricerca del nuovo “cogito” surrealista, ma anche con le istanze distruttive del dadaismo.
Dada non si limitava a mettere un segno meno davanti alla lingua; prescriveva invece una decostruzione oltranzista del linguaggio (compreso quello poetico) nel nome del non senso. Fare “tabula rasa” dell’espressione non è un bisogno, bensì il fine ultimo e ineludibile di ogni ricaduta espressiva.
Daumal, per contro, affronta il momento della negazione nella poesia in modo personale e trasversale: diviene una parte del suo discorso nel punto in cui coinvolge direttamente il ruolo del poeta. Ancora una volta, il piano è simbolico, se non addirittura filosofico.
La parola “NO” percorre tutto il libro e viene in primo luogo associata al momento iniziale della creazione poetica in quanto nominazione, e all’io poetante: «NO è il mio nome | NO NO il nome | NO NO il NO» (p. 41).
La negazione per Daumal è, in ultimo, la prima tappa per la dissoluzione dell’io nell’altro. Una pagina della Clavicola merita di essere trascritta per intero, in quanto riassume puntualmente questa brillante versione dell’evoluzione creatrice, e anticipa sorprendentemente alcuni dei temi che costituiranno, molti decenni dopo, un anello fondamentale della cosiddetta “sferologia” filosofica di Peter Sloterdijk:

Io mi trincero ancora da me stesso dietro a me stesso e vedo
nel Mare spumeggiante dei sì che aspirano a divenire forme
viventi.
Sotto il mio sguardo che nega, un nodo di bolle s’afferma
e s’organizza in sistemi di movimenti circolari che cooperano.
Così un corpo vivente, di veli fisici e non-fisici, si isola individuo
nel Mare spumeggiante dove moltitudini d’altri s’organizzano
in modo simile (p. 59).

Con una curiosa coincidenza con la logica del simbolo di Daumal, Sloterdijk imposta una metaforologia della bolla come primo stadio dell’allargamento del sé (“microsferologia”), che prelude all’onnicomprensività dei globi (“macrosferologia”) e all’apertura totale delle schiume e delle atmosfere (“sferologia plurale”)6.
Daumal denuncia anzitempo il potere contemporaneamente straniante e liberatorio del segno poetico microsferologico:

Assurdo essere incluso in una tra le più minuscole delle innumerevoli
bolle – provocate, evocate, proiettate – un no si
pronuncia Io e Io osservo:
Io sono la causa di Tutto ciò, se io sono no,
Io sono l’intenditore di Tutto ciò, se io sono no,
Io sono l’amante di Tutto ciò, se io sono no.
Assurdo essere, ma di non essere no, assurda libertà, assurda
verità, assurdo amore,
essendolo – non essendolo – io lo divengo (p. 55).

L’importanza del discorso di Daumal è tutta sintetizzata in questa simbologia. Se il segno poetico è come una schiuma di bolle e la creazione è un’operazione di rovesciamento dei suoi misteri, il Controcielo è un controtesto: un testo che si costituisce nella reversibilità di ogni parola detta. Il Controcielo, sempre seguendo l’immaginario daumaliano, è il mare: uno specchio del divino in terra.


Note:

1 M. Blanchot, “Réflexions sur le surréalisme” (1945), in Id., La part du feu (1949), Gallimard, Paris 1984, pp. 90-102, qui p. 90 [traduzione mia].

2 R. Daumal, “L’esperienza poetica” (1938), in Id., Poesia nera e poesia bianca, tr. it. di M. Summa, Castelvecchi, Roma 2014, pp. 21-30, qui p. 28.

3 Ibidem.

4 Abeni sceglie di tradurre “désillusion” con “disincanto”, privilegiando uno slittamento emotivo della connotazione; il più letterale “disillusione” – suggeriamo – avrebbe conservato la cifra iconica (e modernista) della poesia, interamente costruita sull’opposizione cromatica tra bianco e nero.

5 M. Blanchot, “Réflexions sur le surréalisme”, cit., p. 91.

6 Cfr. P. Sloterdijk, Sfere (1998-2004), 3 voll., tr. it. di G. Bonaiuti, Cortina, Milano 2014-2015.


René Daumal, Controcielo, edizioni TLON, Roma 2020,
172 pp., 13,30 €