Non esiste genere più pallido e anemico del cyberpunk, non esiste nulla di più stanco. Leggere oggi Neuromante di William Gibson, opera quintessenzialmente cyberpunk, o guardare Johnny Mnemonic, provoca un senso di straniamento temporale spiazzante. Per quanto alcuni elementi possano ancora risultare a loro modo folkloristici – le strade sporche e naufragate nei neon, la tensione verso un futuro prossimo ma scevro di ogni pomposità fantascientifica o l’immagine di un cyberspazio che doveva ancora concretizzarsi, ad esempio – l’impressione generale è di essere di fronte a lavori resi obsoleti tanto dalla realtà quanto dai temi che sembrano affascinare la letteratura più o meno pulp contemporanea. In un panorama saturo di una rinnovata fascinazione verso il fantastico, il planetario e il cosmico, il realismo e il pessimismo dei migliori lavori cyberpunk sembra una macchietta del presente, totalmente inadeguata nel descrivere l’immensità del mondo che ci circonda e dell’angoscia che sentiamo dentro di noi.

“Le nostre Hiroshima cognitive”, come le definiva Bruce Sterling nel suo Cronache del basso futuro, quelle trasformazioni radicali, legate al mondo tecnologico e digitale, che costituivano il cuore pulsante della narrazione cyberpunk, sembrano essersi rivelate delle deflagrazioni di poco conto, dei traumi presto tramutatisi in situazioni famigliari e noiose – veri e propri luoghi comuni. Le figure e i topoi archetipici di questo genere – l’hacker e la realtà virtuale, la mutazione antropologica, il cyberspazio e i cyber-ribelli – sono divenuti detriti culturali kitsch, nel senso più greenbergiano del termine: un precipitato inerte e di cattivo gusto dell’intrattenimento popolare che pochi hanno voglia di riesumare, se non per motivi puramente nostalgici.

Esiste, però, un’eccezione a questa regola aurea. Se il cyberpunk sembra essere morto di cause naturali, la figura di J. G. Ballard, padre nobile del genere, per sua stessa ammissione, sembra tornare ciclicamente di moda nel mondo letterario e nell’universo pop, rinnovando intorno a sé un vero e proprio culto della personalità, una rete informale di adepti. Mentre scrivo queste parole, ad esempio, il Newstatement dedica un lungo articolo alla veggenza di J. G. Ballard, in cui l’autore del testo dichiara che: «il nostro presente cade sotto la giurisdizione dell’immaginario di Ballard». O, ancora, gettando un rapido sguardo all’editoria italiana, Nero Edizioni si è premurata di tradurre in italiano, pochi mesi dopo la sua apparizione originale, Ballardismo applicato di Simon Sellars, vetta massima del feticismo ballardiano, in cui l’autore tenta di rileggere la propria vita e la propria morte come un esercizio esegetico, scritto nella sua carne e sangue, dell’opera dello stesso Ballard. E la lista potrebbe essere decisamente più lunga, e noiosa. In altre parole, il lavoro di J. G. Ballard e i temi ballardiani non solo sopravvivono alla rapida estinzione dello stile e del plateau culturale che hanno inaugurato, ma rimangono per molti una descrizione puntuale del mondo che sentiamo intorno a noi e una stella polare, giustificando un numero consistente di revival e riappropriazioni.

Il motivo di questa rilevanza culturale, però, è tutto fuorché lineare o auto-evidente. Ballard, non si contraddistingue per la sua prosa intrigante o raffinata o per la sua profondità letteraria. I suoi romanzi sono ripetitivi, pornografici, monomaniacali – scritti da una penna evidentemente pulp e perfettamente ombelicale nella sua ricerca autocompiaciuta dell’osceno. Sono una sismografia, vagamente onanistica, del basso ventre del mondo contemporaneo.

Non ci sarebbe nulla di redimibile o futuribile nei romanzi ballardiani, se non fossero attraversati da una sorta di sostanza eterea – da una tangibile, ma implicita sensibilità e efferatezza modernista, condivisa con autori come Pierre Guyotat o i fratelli Chapman, per citare due nomi fra molti, che, oggi, sembra essere sempre più attuale. Qualcosa nella visione ballardiana continua ad attrarre molti, sedotti da un’aura che aleggia intorno alla brutalità gratuita e al ributtante.

Il più grande pregio di All that mattered was sensation, curato da Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti e recentemente pubblicato da Krisis Publishing è certamente quello di rendere questa cosa – questa sensibilità sottesa all’opera di J. G. Ballard – esplicita. Il libro, composto da un’intervista del 1992 a Ballard, condotta da Sandro Moiso, incastonata fra due saggi, dello stesso Moiso e del critico culturale Simon Reynolds, è un’esegesi precisa della nostra attrazione fatale per lo scrittore di Shepperton.

Il periodo in cui si svolse l’intervista fu certamente propizio per questa operazione di distillazione concettuale. Il Ballard che emerge da questo libro, infatti, è certamente il tragico «profeta del presente» di cui parla diffusamente Simon Reynolds nella sua conclusione al volume, ma è anche un uomo che si è lasciato alle spalle la voracità, la violenza e la furia delle sue prime sperimentazioni letterarie. La voce che si ascolta in queste pagine è la voce di un uomo che ha appena dato alle stampe La gentilezza delle donne, il suo romanzo più intimista (e, francamente, il meno riuscito), di uno scrittore che non ha ancora prodotto la sua ultima, crepuscolare tetralogia (Cocaine nights; Super-Cannes; Millenium people; Regno a venire), in cui traccerà i contorni e i miasmi di una società stagnante e marcescente, e che osserva da lontano e con un certo timore l’autore de L’esibizione dell’atrocità e Crash.

Le parole di Ballard in questo breve scritto trasudano la pace quasi-mitologica dell’Heathrow Hilton, una delle sue più grandi ossessioni psico-geografiche, che definiva «Splendidamente proporzionato, sembra l’unione fra un reparto di neurochirurgia e una stazione spaziale» e in cui «non si prova alcuna emozione e in cui nessuno potrebbe mai innamorarsi, o sentirne il bisogno». L’intervista e i saggi che l’accompagnano sono la fredda autopsia di una deflagrazione avvenuta molti anni fa, priva di qualsiasi slancio emotivo, che fa emergere quanto di essenziale sia rimasto a terra dopo il botto. Lo stesso Ballard afferma: «Posso vedere quei processi che allora mi hanno spinto a scrivere Crash. Posso vedere quei processi all’interno del contesto della mia vita intera, e riesco a vedere quanto quel periodo della mia vita fosse pericoloso» (p. 31).

Il precipitato di questo processo, argomento principe di questo scritto, è un inaspettato intimismo, un’introversione che, superficialmente, non si attribuirebbe ad uno scrittore reso celebre dalle descrizioni di torture efferate e incidenti stradali.  L’alone misterioso che, grazie a questo libro, appare per contrasto nell’opera ballardiana è, secondo l’autore stesso, il risultato di una lotta contro lo sciovinismo fantascientifico, tipico di quella fantascienza golden age, dichiarata ripetutamente «morta» (p. 41) dallo stesso Ballard, tutto preso dall’estasi delle promesse dell’esplorazione spaziale, delle radicali innovazioni tecnologiche e dei futuri utopici o distopici, e di un’attenzione maniacale verso quello che definisce, citando Robert Bloch, inner space, lo spazio inconscio. Ballard appare chiaramente mosso dalla convinzione che «il soggetto della fantascienza avrebbe dovuto essere proprio lo spazio interiore, e non lo spazio cosmico» (p. 27) e da qui scaturisce la sua ricchezza e la sua attualità.

La potenza di All that mattered was sensation è la limpidezza e la profondità con cui mette a nudo la pulsione regressiva che anima l’opera di Ballard, un’opera che si riscopre qui come un’analisi non solo dei segretucci privati su cui si è concentrata tanta psicologia del profondo contemporanea e tanta narrativa intimistica e neo-sincera, ma delle compulsioni e dei traumi profondi (reali o presunti tali) della nostra specie, riconnettendosi al cordone ombelicale troncato del naturalismo romantico e del modernismo più avventuroso e speculativo (Sandro Moiso ricollega il Ballard che appare in questo volume a un certo Percy Shelley). Secondo Ballard «Ci ricordiamo della Grande Giungla. Ci ricordiamo del Grande Deserto. […] Questi paesaggi sono dentro i nostri cervelli, dentro i nostri ricordi più profondi» e i risultati della esumazione delle nostre pulsioni ancestrali e animali sono la vera anima dei suoi romanzi, che, per questo, continuano a parlare alla e della nostra vita emotiva – e al rettile che, con tutta probabilità, si annida nel nostro sistema limbico.

Chiaramente, questo piccolo volume ha i suoi limiti. Il più evidente, e quello che più probabilmente potrebbe scoraggiare alcuni lettori, è certamente la parrocchialità di questa operazione editoriale – operazione che sembra pensata quasi esclusivamente per coloro che conoscono l’opera ballardiana. Per quanto il saggio di Reynolds tenti di essere una sorta di introduzione a Ballard e al contesto dell’intervista, la sensazione che resta alla fine della lettura è che sia too little too late, uno sforzo posticcio, almeno sul fronte più propriamente descrittivo, e che dà per scontato molti aspetti non solo dei romanzi di J. G. Ballard, ma anche dell’universo artistico in cui orbitava. Il libro, in breve, resta un cimelio per iniziati, esteticamente molto accattivante oltre che contenutisticamente interessante.

A chi, all’inizio dell’attuale pandemia, non ha pensato immediatamente alla follia di The enormous space e non ha mai provato una certa attrazione per le arterie autostradali questo libro potrebbe dire poco, o potrebbe risultare un’introduzione incompleta. Per tutti coloro che, invece, sono già stati scarnificati dal lavorio ballardiano, questo volume sarà un’ottima guida per comprendere, nuovamente, questa nostra ossessione.


71b194-Sr1LJames Ballard, All that mattered was sensation, a c. di F. D’Abbraccio e A. Facchetti, prefazione e intervista di S. Moiso, con un testo di S. Reynolds, Brescia, Krisis Publishing, 2019, pp. 224, €20,00.