Concludiamo la presentazione dei libri finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2020. Gli incontri con gli autori, in ragione delle recenti ordinanze ministeriali, sono stati spostati alla fine di settembre (come potete leggere qui).


 

L’ultimo libro di Nadia Fusini, María, pubblicato nel marzo dello scorso anno per i tipi di Einaudi, è accentato. Lo è con evidenza tale da esporre una simile affermazione alla minaccia dell’ovvietà. Ad indicarlo compare il titolo, in copertina; e poche pagine dopo interviene la protagonista, che si premura di specificare al poliziotto a cui sta rendendo la propria testimonianza:

«María, mi chiamo María, con l’accento. […] Sì, c’è un accento sulla i. Si sbagliano sempre nei documenti. È il nome spagnolo della mia nonna andalusa, María. Mi chiamo María Liberati, – continuò quieta, compitando con precisione e con lentezza la sua identità»

In una stanza della questura prende avvio la deposizione che acquista ben presto l’estensione di gran parte del romanzo, la profondità di una confessione di vita e la risonanza emotiva del poliziotto Santini e della psicologa, accorsa ad ascoltare pazientemente. L’addetto ai verbali non si arresterà alla trascrizione, ma grazie al diario che Maria gli farà recapitare e a qualche mese di precedenti indagini, tenterà di ricostruire l’esemplarità di un caso che, avverte fin dalla soglia dell’opera, paradossalmente non ambisce a comporre in romanzo.

L’accento del nome della protagonista sembra ricevere subito una spiegazione esaustiva del significato, della funzione che assume: non è un orpello, un blasone o una civettuola concessione all’esotismo. Piuttosto concorre alla definizione dell’identità, perché liaison ineludibile con le origini familiari. Eppure resta l’impressione che il breve tratto rechi con sé qualcosa di irrisolto, di ambiguo. La sicurezza con cui caratterizza la donna contrasta con la figura «esile, anonima, scialba» che si profila davanti a Santini, il poliziotto che narra per intero la storia di María e della sua colpa.

Ancor prima, un tono fermo aveva fatto irruzione nella monotonia di un generico pomeriggio d’autunno, risuonando nel commissariato con l’ammissione netta della colpevolezza: «Sono venuta a confessare un delitto». In questo modo María si annuncia all’«orecchio» (e soltanto dopo alla vista) dell’uomo incaricato di redigere il verbale e di introdurre la vicenda, nei capitoli che costituiscono il prologo. Di nuovo l’ictus cade su un equivoco: la forza verbale stride con il contegno di un’innocenza manifesta. Anziché suggellare una certezza, rimarcandola con enfasi, l’accento indica allora le dissonanze, le incongruenze necessarie a penetrare, con discrezione, la complessità di una donna e della sua storia («storia di un’esistenza anonima») che si fanno ordinarie (anonime, appunto) solo se raffrontate ai tanti casi simili della cronaca.

Nella sua opera, Fusini sceglie insomma di declinare l’accento, per così dire, “al femminile”, dotandolo del riserbo proprio del genere, ma soprattutto eleggendolo a principio compositivo di una partitura che alterni sapientemente timbri più alti, marcati, assertivi, a note basse, sommesse, allusive.

L’invito al lettore a prestare cura ai segni grafici è nascosto nella preoccupazione della voce narrante per il carattere approssimativo della sua relazione. Sottintesa, per determinare il significato, l’importanza di tutti quegli accorgimenti che convertono l’oralità nella forma scritta. E infatti il poliziotto, nell’intento programmatico di ascoltare, interpretare, salvaguardare la veridicità, è controfigura del lettore ideale:

«Sì, io scavo, scavo buche, apro tombe, dove María fa la morta, io a volte mi intrometto e suggerisco spiegazioni rispetto a episodi che a lei non pare di voler giustificare. Se si entra nell’esistenza di un altro, del resto, è difficile non portarvi un po’ del nostro proprio modo di vedere le cose. Anche senza volere, anche semplicemente nella punteggiatura, come nel fraseggio di un pezzo musicale, basta una pausa in più, basta una virgola, e il significato cambia».

Se i «vuoti» acquistano molteplici sfumature, anche il segreto di cui l’indagine si fa carico non può che articolarsi su più livelli: la ricostruzione dell’omicidio a cui assiste María, vittima inconsapevole della ferocia vendicativa del marito, funge da pretesto per esplorare, scandagliare gli abissi di una femminilità oltraggiata. Il giallo assume rilievo secondario rispetto alla volontà di far luce sull’«oscuro mistero della vita», sull’amore, sull’odio, sulla violenza, sulla giustizia. L’inchiesta volge in senso esistenziale, aprendosi a interrogativi di portata massima («Perché si sta al mondo? Non è questa la domanda?»).

E la ricerca della verità, sia questa particolare o cosmica, intima o esteriore, passa attraverso la risemantizzazione della parola, così da liberarla dalle costrizioni a cui la consuetudine, il tempo, l’esercizio del potere l’hanno obbligata. È il segno verbale l’enigma primo e irresoluto che attende il senso dell’esperienza autentica per dischiudere «campi ignoti». Ciò vale per la protagonista, che vivrà una palingenesi quando saprà ridefinire il contenuto di alcuni termini, tra cui «amore», «no» e lo stesso nome proprio; per Santini che, con un’attenzione più fine, si serve della voce quale indice orientativo di «umanità» o di colpevolezza. Soprattutto per l’autrice, che ha modulato richiami fonici, assonanze, perché l’incontro di María con il mare (di un’isola a lei straniera) e con il male (di un amore sbagliato) suoni come la storia di una «passione», più o meno contemporanea. E oltre all’evocazione, per via onomastica, della Vergine, citazioni esplicite dal mito (Maria paragonata a Pasifae, a «Fedra, Arianna o Circe»), suggestioni filosofiche, probabili echi intertestuali (Simposio, La banalità del male), arricchiscono l’opera.

 

Arsi e tesi orientano la scelta del tema e della protagonista: l’intensità massima delle passioni, tra cui l’amore, investe una donna, una sillaba “atona”, debole non per temperamento, ma per la posizione subalterna, nel privato o nella società. L’autrice, particolarmente capace di cogliere la sensibilità femminile e di raccontarne “le pieghe” intime, con questa novella lunga prosegue idealmente la causa dell’emancipazione promossa da Virginia Woolf, scrittrice di cui Fusini si è occupata a lungo, curandone anche l’opera omnia per i Meridiani.

Pur concedendo a María il proscenio, riscattandola dall’anonimato e dal silenzio in cui sarebbe stata respinta, le toglie parte della visibilità, ponendola quindi «di profilo» e «di sguincio», almeno rispetto al narratore Santini.

Affidando alla prospettiva il valore fortemente simbolico di segnalare l’incomunicabilità tra i due sessi, Fusini si deve essere certo ricordata di quell’«angolo femminile» da cui aveva introdotto in Hannah e le altre (2013) la riflessione sulle differenze di genere, in una società devastata dal mito maschile della violenza come dalla guerra mondiale. Ora, su scala più ridotta, la sua María affronta entro le mura domestiche la cieca aggressività di un uomo che ha scelto anche perché attratta da una presunta forza virile, muta e insidiosa.

 

Quella della protagonista è una vita comune a tante donne che per amore lasciano il luogo d’origine, la famiglia, gli affetti, pensando di aver trovato nel compagno la passione e l’amore ideali. Presto la realtà interviene a smentire le illusioni con la brutalità di soprusi quotidiani. María, in più, si trova a dover accettare Rosalia, l’amante e compagna di un tempo del marito e ad essere testimone di un delitto efferato. Il predominio del male avrebbe occultato anche la morte di un ragazzo innocente, se un evento non avesse permesso a María di riacquistare le forze necessarie per recarsi in commissariato e denunciarlo.

 

Se l’itinerario di María comprende una catabasi nel «fondo del cuore e dell’anima», al «nodo oscuro» tra amore e odio, non è esclusa la risalita, grazie ad un’annunciazione, ma «senza angelo». La tecnica del contrappunto permette di combinare la storia di María alla Vergine e al mare, assimilando caratteri religiosi e mitici.

Il nome stringe un nesso quasi obbligato con la Madonna, per allentarlo con almeno due mosse significative: la prima è, appunto, l’indicazione del segno grafico, la seconda, determinante, consiste nell’attribuire «la passione» alla donna, non a Gesù, e infatti sarà lei, al culmine del supplizio, a salire sulla croce, per salvare il figlio, a cui pure attribuisce il nome di Salvatore. Il divario tra le due figure femminili misura l’azzardo innovativo che la Fusini gioca, a favore di una valorizzazione piena della donna. È ancora una questione di inclinazione, anziché del tratto, dell’asse di gravità, a modificare la concezione dell’amore:

«Era evidente che in María l’amore aveva provocato uno spostamento del suo centro di gravità; innamorandosi s’era spostata da sé per cercare nell’altro la sua ragione di vita. Però Giovanni non s’era fatto suo ospite. L’aveva tradita, abbandonata. Ma concepire dentro di sé la vita l’aveva rimessa sul proprio asse».

All’altro vertice del triangolo fonico (María, Maria, mare) e simbolico, il mare rappresenta la dimensione infinita, abissale del mistero in cui María si immerge. L’acqua purifica, accoglie materna, seduce, ospita la morte per cui rivendica giustizia, in riferimento al delitto del «giovane ignaro». È necessaria, insieme al sole, perché si compia la metamorfosi da donna in dea («sarà il romanzo di una donna, della sua metamorfosi in dea»), complementare alla maturazione da donna a madre («Una donna diventa donna quando diventa madre?»). In questo modo la Bildung prevede che María percorra le tappe della vita spirituale e naturale, attraversi modelli femminili classici (Fedra, Arianna, Circe) e religiosi, per rimodularli in una sintesi dialettica. Lo spazio e il tempo sono estremamente rarefatti, l’isola nella sua separatezza ed esclusione costituisce un microcosmo primordiale, emblema della cultura dell’Occidente, nutrita dalla tradizione classica e cristiana. Per questo i personaggi assumono una forma altamente stereotipata, perché la concezione ancestrale della virilità e della femminilità si proietti nei tratti paradigmatici di Giovanni e di Rosalia, distribuendosi nella forza, nell’aggressività ferina del primo e nella cieca obbedienza della seconda. La vicenda di María si configura dunque come una formazione della donna in termini emblematici, obbligandone il confronto con gli archetipi e i modelli inveterati. Anche l’amore sarà sottoposto all’esame critico, per verificare quanto sia errata l’interpretazione romantica della parola, codificata dalla cultura. Il romanzo impiega la gamma pressoché completa delle accezioni di amore, e María esperisce o conosce indirettamente le sue forme, ibride o ambigue, prima di vivere l’unica autentica (l’amore materno): l’amore come fascino per l’altro da sé, l’amore come compassione, come degradazione-masochismo, come voluttà, come malattia. L’isola permette anche un’immersione panica nella natura, disattivando la capacità logico-razionale, per proporre una nuova relazione con il mondo, attraverso il linguaggio. Le parole così non pretendono più, quando pronunciate, di possedere le cose e l’altro, ma si aprono ad una nuova modalità di significazione.

 

Sono soprattutto le scelte strutturali, però, ad operare una piena valorizzazione della parola. La novella, come l’indagine, s’incentra sulla testimonianza di María, a cui pure è affiancato il contraddittorio, per quanto moderato, di Santini. E anche la vicenda viene replicata, con registri diversi, nell’oggettività presunta, fattuale, del verbale/resoconto, e nel lirismo acceso del diario di María, a suggerire come le due tonalità si compensino.

 

La dimensione orale riceve rilievo dalla prevalenza del monologo di María, ma ancor più dall’affinità di genere, perché si scorge nell’opera il calco della tragedia. Si chiarirebbe così, ulteriormente, la funzionalità dell’interlocutore Santini: il ruolo del coro è assegnato a lui che, infatti, commenta la storia, orienta la reazione emotiva del pubblico, impersonifica il fruitore o, come si è visto, il lettore esemplare. Nella scelta dell’argomento, del tema (le passioni, lo scontro tra l’uomo e il destino, l’interrogazione sui valori universali) María allude al dramma classico, da cui differisce perché sposta l’accento dai personaggi di statura eroica ad una povera donna, sottolineando il valore della miseria nell’esergo. E dimostra, alla fine, come anche un’umile (di piccol affare) può guadagnarsi dignità tragica, facendo esperienza dell’odio e della sofferenza. La meraviglia, invece, giunge alla consapevolezza che l’amore materno oltrepassa il limite tra bene e male, al pari dell’esistenza in senso pieno, che non tollera distinzioni nette tra piacere e dolore. Vivere comporta sempre una dose di sofferenza, a cui non è possibile sottrarsi, a meno di condannarsi al vicariato di un’esistenza puramente speculativa, come quella di Santini e della poliziotta-psicologa Marisa, semplici destinatari passivi del racconto di altre vite, (Santini si può ridurre, per sineddoche, all’orecchio) o surrogando, in pochi eccezionali casi, la vita con la scrittura. Seppur da questa antitetica condizione, Santini convaliderà quanto María scopre, per esperienza: non è possibile utilizzare la parola, un profilo definito per catalogare il mondo, facendosi labili, instabili, precari i confini tra i concetti di amore -odio, vittima-carnefice, amante – aguzzino. L’accento, come demarcazione tra toni o concetti diversi, è allora destinato a cadere? Per stabilire un nuovo ritmo?

 

L’immedesimazione, il pathos, che il lettore avverte sono garantiti dalla figura di Santini che rappresenta il destinatario ideale/l’emblema dell’uomo, all’inizio persuaso assertore della logica, del calcolo, delle statistiche («tengo una statistica di quanti si salvano, di quanti soccombono»), dell’oggettività. Ma nel suo sforzo di porre ordine, di ricostruire secondo una concatenazione causale la storia che María si ostina a presentare in modo confuso (incorrendo quindi nel suo biasimo), cede progressivamente alla constatazione di quanto la sola ragione sia fallace e insufficiente all’interpretazione. Anche Santini, in misura meno percepibile, subisce una maturazione. E nella sua capacità di ascoltare e di comprendere, come gli riconoscono María e la psicologa, assimila le caratteristiche che, forse, l’autrice auspica possano avere gli uomini contemporanei («Lei però, Santini, ha capito questa donna. E sa perché? Perché ha avuto rispetto per lei, l’ha davvero ascoltata»).


Maria

Nadia Fusini, María, Einaudi, Torino 2019, 136 pp. 13,00€