Nel saggio Women’s Autobiography, del 1980, la critica Estelle Jellinek ha coniato il termine autogynography per sottolineare come la scrittura autobiografica, più di ogni altra, potesse definirsi nei termini di “gender”. La sua tesi, che si basava fondamentalmente sulla contrapposizione tra autobiografie femminili – commiste, contraddittorie e frammentarie – e autobiografie maschili – tradizionali e unidirezionali, attraverso cui si raffigura un io unitario – è stata in seguito più volte messa in discussione. Benché la casistica sia ampia, e le generalizzazioni rischiose, è certamente vero che le autobiografie femminili rispondono alla necessità delle donne di creare una propria identità letteraria, di imporsi come soggetto (e non più mero oggetto) della narrazione, di sciogliere il groviglio della propria psiche per riconoscersi e ricostruirsi. In altre parole, l’autobiografia è stata – ed è tutt’ora – per le donne un abile strumento di coscienza, ma anche un gesto politico atto a mostrare in pubblico il magma scomposto della propria interiorità, storicamente celato, in opposizione alla continua stereotipizzazione del femminile messa in scena dalla letteratura tradizionale.

La prima produzione autobiografica di Goliarda Sapienza parte esattamente dalla dolorosa volontà di ricomporre un io fatto a brandelli – e non solo sulla carta. Nella primavera del 1962, l’attrice e scrittrice viene ricoverata d’urgenza nel reparto psichiatrico del Policlinico di Roma, in seguito al primo dei suoi tre tentativi di suicidio. Come era spesso di prassi (soprattutto per le donne), viene sottoposta a diverse sedute di elettroshock. Per salvarla serviranno gli sforzi congiunti del regista Citto Maselli, allora compagno della Sapienza, e di Ignazio Majore, terapeuta molto noto nella Roma bene degli anni Sessanta, contrario alla pratica dell’elettroshock e convinto di poter seguire personalmente Goliarda Sapienza nel percorso di analisi.

Durante i seguenti tre anni di terapia, l’autrice proverà a rimettere in sesto una memoria dissestata dall’elettroshock, tuffandosi nei confusi ricordi che si affollano nella sua testa. Da qui ripesca volti e sensazioni di un passato percepito come profondamente irrisolto, si confronta con i fantasmi della sua storia personale e prova a dar loro il giusto spazio, la giusta collocazione. Sono tre anni devastanti, in cui Sapienza si appoggia completamente a Majore, aprendogli le porte arrugginite della sua mente, confidandogli i ricordi più dolorosi, permettendogli di attingere dal buco nero del suo passato e di manipolarla.

Irrimediabilmente, tra la paziente e il suo terapeuta si instaura un rapporto complesso, un sentimento non ascrivibile al mero transfert amoroso – come invece sostiene lo stesso Majore – il quale però, nell’estate del 1964, decide improvvisamente di abbandonare Sapienza e ritirarsi dalla professione. Quell’analisi selvaggia e brutale si conclude così, e Goliarda Sapienza non potrà che raccogliere i cocci di quello che vive come l’ennesimo amore ingiustamente soffocato. Abbandonata anche da Maselli, si rinchiude in casa e tenta di rimettere insieme quel garbuglio di emozioni indistricabili, che la brusca interruzione della terapia non le ha permesso di riconoscere e comprendere. La sua terapia – questa volta funzionale e salvifica – è la scrittura.

È proprio da questo doloroso processo che nasce Il filo di mezzogiorno, secondo romanzo di quella che Goliarda Sapienza definisce la sua «autobiografia delle contraddizioni», edito per la prima volta per Garzanti nel 1969 e recentemente ripubblicato per La nave di Teseo, con l’introduzione di Angelo Pellegrino, marito dell’autrice. Si tratta di un romanzo passionale e onirico, in cui prende voce un io allucinato eppure estremamente e crudelmente lucido. Goliarda Sapienza ripercorre la propria terapia con Majore, e lo fa mettendo in scena uno sguardo che va via via rischiarandosi.

Dai piani temporali confusi dei primi capitoli, gradualmente si riesce a discernere il tempo di Sapienza-paziente, in lotta con i tanti fantasmi del proprio passato. I ricordi e le sensazioni riaffiorano in maniera incessante, riempiono la stanza e risucchiano la narratrice. In questo racconto vivido e straniante, il tempo dell’infanzia e della prima adolescenza è l’unico di cui la narratrice abbia davvero coscienza, l’unico che l’elettroshock non ha ancora spazzato via. E così riemergono in superficie, confusi eppure dolorosi, i tanti volti della Civita, quartiere di Catania dove Goliarda Sapienza è cresciuta: da quello della sorellastra e amica Nica a quello di Maria Giudice e Peppino Sapienza – i suoi genitori, figure granitiche eppure piene di crepe – a quelli dei tanti fratelli (di sangue e non).

Rievocando l’umanità strana e maledetta della Civita, terapia e passato si fondono in un unico nodo apparentemente inscindibile: un tempo problematizza l’altro, uno analizza l’altro. È una narrazione interiorizzata e simbolica, che alterna i dialoghi con Majore a momenti di elaborazione analogica dei ricordi – a posteriori verrà definita “scrittura di transfert”. Risultati anche più interessanti saranno raggiunti dalla Sapienza nel racconto di alcuni dei momenti più duri della terapia, quando l’io narrante sembra lasciarsi sopraffare dalle proprie sensazioni e si rinchiude in uno spazio dell’anima, in compagnia di un delirio di immagini distorte e inquietanti.

In questa ricostruzione, Goliarda recupera progressivamente la memoria, e con essa si rende conto di come il suo terapeuta voglia forzatamente imporle la sua personale verità, conducendola lungo una strada che lui (e lui solo) aveva considerato la migliore per lei. Una strada sulla quale Sapienza si troverà da sola, sperduta e con l’unico desiderio di tornare indietro sui suoi passi, di fuggire. Abbandonata, ferita eppure furiosamente viva, nell’ultima parte del romanzo l’autrice riesce a muovere dall’interno una feroce critica a quella analisi selvaggia che l’ha lasciata come scorticata:

Capii che quel medico, nello smontarmi pezzo per pezzo, aveva portato alla luce vecchie piaghe cicatrizzate da compensi, come lui avrebbe detto, e le aveva riaperte frugandoci dentro con bisturi e pinze e che non aveva saputo guarire… mi ricordai quella fretta, quanta fretta di richiudere, ricucire quelle piaghe alla meno peggio… e in quella fretta spastica aveva dimenticato dentro qualche pinza.

 L’autrice si sente spogliata delle proprie barriere, inerme vittima di una violenza legalizzata. La terapia l’ha sconvolta, spingendola a perseguire un “bene assoluto”, una giustizia senza appello che lei, però, non ha mai scelto: è l’etica dettata dalla società perbene di Roma, quell’élite di sinistra sempre pronta a scandalizzarsi, che ha già da tempo escluso la Sapienza per via delle sue bizzarrie. Il filo di mezzogiorno diventa così un romanzo sulla libertà: attraverso il racconto della terapia, l’autrice rivendica il proprio diritto a non categorizzare se stessa e i propri sentimenti, a non dover fornire spiegazioni per quello che prova (o non prova). Ed è così che, passo dopo passo, Goliarda Sapienza si riappropria della propria carne, delle proprie idee e di ciò di cui l’analisi l’aveva privata: il diritto alla morte. E così – rivolgendosi a un “voi” che, nel romanzo, prende quasi le sembianze di una platea di ascoltatori – scrive:

Non cercate di spiegarvi la mia morte, non la sezionate non la catalogate per vostra tranquillità, per paura della vostra morte, ma al massimo pensate – non lo dite forte, la parola tradisce – non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.

Il filo di mezzogiorno è un romanzo sanguigno e violento, che trascina il lettore tra i demoni della narratrice, che sono, poi, di riflesso quelli dell’autrice stessa. Il progetto autobiografico di Goliarda Sapienza si articola in cinque romanzi a sé stanti eppure intimamente connessi: Lettera Aperta (1967), Il filo di mezzogiorno, Io Jean Gabin (probabilmente scritto tra il 1979 e il 1980), L’università di Rebibbia (1983) e Le certezze del dubbio (1987). Nei suoi taccuini – oggi pubblicati per Einaudi con il titolo Il vizio di parlare a me stessa – l’autrice spiega di aver voluto, nella sua opera, ritrarre la propria persona in progress: non un io visto a posteriori, ma un io che si guarda allo specchio nell’intero processo di crescita. Solo in questo modo, infatti, sarebbe riuscita a mostrare e a cogliere le incoerenze della sua vita. Così scrive:

Coerenza! Parola utopica a tutto tondo che già negli anni ’40 o ’50 rappresentava una delle tante bugie ideologiche o certezze dogmatiche in nome delle quali innumerevoli lutti, crimini, dolori, ecc. hanno potuto essere perpetrati impunemente. Anche nel mio ciclo ci saranno bugie, nessuno di noi ne può essere esente ma almeno saranno a ogni passo contraddette, o rovesciate o riconosciute come errori nocivi al personaggio Iuzza-Goliarda e per questo nocive agli altri. La bugia è un boomerang che non perdona e è per questo che il sottotitolo del ciclo dovrebbe essere: Autobiografia delle Contraddizioni.

Secondo Goliarda Sapienza, il Novecento altro non è che un «secolo di utopie andate male»: mai come allora l’uomo avrebbe avuto l’insulsa pretesa di poter giungere a verità universali, sentendosi legittimato ad attribuire ad esse – in base a criteri logici dati per certi – un valore positivo o negativo, proprio come accade nella terapia psicanalitica. Con i suoi romanzi autobiografici, l’autrice denuncia la società in cui vive, mettendone in luce le strutture contraddittorie, e punta il dito contro un paese (e un secolo) in cui bisogna aprioristicamente decidere da che parte stare, chi amare, chi o cosa pregare. Deride così una morale cavillosa e utopica, che, applicata alla realtà, si rivela incontrovertibilmente dannosa, e in una pagina dei suoi taccuini datata ottobre 1989 spiega:

Questa è la vita, non c’è il bene perfetto, né il bello perfetto, né il male perfetto. Tutto si deve alternare per essere in grado di essere vita e per non smarrirsi tra le ali menzognere della ragione, delle teorie e delle utopie a tutto tondo, perfette delle più crudeli delle perfezioni: quelle che la mente disegna astrattamente senza tenere conto del pane, delle viscere, del desiderio carnale, cioè della materia che seguita nei suoi insegnamenti è la sola maestra del sublime.

In altre parole, Goliarda Sapienza concepisce la scrittura come luogo in cui dar vita alle proprie incoerenze, spesso addirittura ostentate. E se la scrittura è già di per sé contraddittoria, in quanto unione di realtà e finzione, a maggior ragione lo sarà il genere autobiografico, sempre scisso tra un ideale di fedeltà biografica e l’impossibilità di rinunciare all’immaginazione. Ed è proprio esplicitando questo concetto, svelando il trucco, che l’autrice sente di donare nuova autenticità al genere.

Tra i romanzi di questa “autobiografia delle contraddizioni”, Il filo di mezzogiorno è forse quello meno lineare, più complesso, stratificato e viscerale. Tuttavia è anche quello che meglio permette di indagare la letteratura e i meccanismi narrativi di Goliarda Sapienza, tutt’altro che scontati. Come sottolinea Pellegrino nella prefazione, si tratta di un romanzo d’amore, amore per se stessa, amore per la scrittura e anche, in parte, amore per quella terapia che al tempo stesso l’ha salvata e annegata, costringendola a capire da sola come tornare in superficie. L’ennesima incoerenza di un’esistenza di contraddizioni. Autrice “contro”, guerriera di penna, anarchica più degli anarchici del suo tempo e femminista più delle femministe odierne, Goliarda Sapienza è una scrittrice che, ancora oggi, non ha ricevuto le debite attenzioni da parte del pubblico e della critica – come è capitato anche a molte altre autrici del Novecento. E nel racconto delle sue incoerenze, così come nel suo stesso vissuto, ha sempre saputo mostrarsi per quella che è stata: una donna libera.


Il filo di mezzogiornoGoliarda Sapienza, Il filo di mezzogiorno, La nave di Teseo, Milano 2019, pp. 200, € 15.