Suite Etnapolis, pubblicato nel 2019 da Interlinea, e settimo volume della collana «Lyra giovani» diretta da Franco Buffoni è l’esordio di Antonio Lanza. Il libro parla del nostro tempo e lo fa presentandosi come l’«esteso epos di racconti» (p. 119) di chi lavora e vive Etnapolis, il grande centro commerciale polifunzionale situato a circa trenta chilometri dall’Etna, precisamente a Belpasso, lungo la SS 121 Catania-Paternò, progettato dall’archistar Massimiliano Fuksas e inaugurato il 23 novembre del 2005.

Liquidata l’invocazione alla domenica di Etnapolis «Vergine e pubica» (p. 9), Lanza ci scaraventa all’interno del centro commerciale, appena prima della sua apertura: qui tra i carrelli «Iperfamila che sferragliano vuoti» identifichiamo immediatamente alcuni dei personaggi connotati, implacabilmente, dal loro lavoro: passiamo da «Laura, di Lovable» (p. 9), ad Alfredo, il barista, a Daria, la cassiera, da Samuele di Mondadori, a Vanessa di Father & Son e ad altri ancora, narrati durante lo svolgimento delle loro mansioni e soprattutto attraverso i loro desideri, le preoccupazioni, i pensieri, i discorsi, passando dunque, testualmente, da resa diegetica a mimetica, da cambi di voce e di tono, da tono epico a lirico, da discorso corale a dialoghi e monologhi interiori.

Su queste voci, una sovrasta le altre ed è quella dell’altoparlante che invita il personale ad «ULTIMARE LE OPERAZIONI | DI APERTURA» (p. 10), a segnalare che «OGNI DOMENICA | ALLE ORE DODICI | VERRÀ CELEBRATA | LA SANTA MESSA» (p. 13), che è in funzione «UN SISTEMA DI TELECAMERE | CHE GARANTISCE | LA VOSTRA SICUREZZA» (p. 23), segnalandoci che siamo all’interno di quel dispositivo principe che caratterizza la vita quotidiana all’interno di una società, come la nostra, ipercapitalista e in una fase transitoria tra disciplina e controllo, quindi guardiana normativa matrigna, anzi, come ci suggerisce Lanza «lupa Etnapolis» (p. 11).

Non è questa l’unica voce che ci mette in guardia dal fascino del centro commerciale: c’è quella, elegiaca, formulare e metapoetica, di un narratore-cantore esterno che appare esplicitamente alla fine di ogni giornata-sezione, sul terrazzo di Etnapolis e che la canta nei suoi aspetti sentimentali, nel paesaggio «quasi bucolico» (p. 16); o, all’opposto, la denuncia come luogo in cui, abbassate le saracinesche, «comincia la conta del profitto» (p. 17); la descrive come «Balena spiaggiata, Etnapolis, | colonia penale, Etnapolis, | pista di decollo, navicella spaziale, Ecclesia»; e il cui intento creatore è ben definito dalla chiusa finale: «piàcciati entrare intera nel mio canto, | le luci come l’immondo» (p. 34).

Per dare conto di Suite Etnapolis, è necessario addentrarsi nella sua struttura. Il libro è diviso in sette sezioni che corrispondono ai giorni della settimana, partendo da domenica, giornata tradizionalmente piena per un centro commerciale, fino a sabato, altro giorno vorticoso nella dimensione del commercio. Un’ulteriore divisione scansiona il testo in tre parti: la prima è composta dalle prime tre sezioni, Domenica, Lunedì e Martedì, stilisticamente omogenee; la seconda da Mercoledì, che contiene cinque poesie distinte, come una silloge interna, Le silenziose, Manichini I, Allarmi, Manichini II e Voci degli altoparlanti; e infine da Giovedì, Venerdì e Sabato.
Nella prima parte prevale nettamente il verso, principalmente lungo e (anche se già in Martedì si ha un primo sconfinamento nella prosa) adottato in molteplici forme, così come in Mercoledì, dove abbiamo un andamento poetico classico, mentre nella terza parte il verso deflagra, assecondando la narrazione in un intreccio inestricabile di prosa e poesia, fino a contenere, addirittura, e in sequenza, un Whatsapp; un ritaglio di giornale; alcuni monologhi prosastici in successione (con l’indicazione del ricevente come da convenzione teatrale) come «LAURA (AD ALFREDO, TARDA MATTINA):» oppure «DARIA (A CINZIA; ORA DI PRANZO, IN CASSA):»; delle interviste, in totale cinque, alcune di queste espunte in parte, tranne la quinta, completamente eliminata, con l’espediente della cancellatura delle righe a metà; un racconto dal titolo Buste, composto da brani di conversazioni su una busta della spesa; la riproposizione, anche grafica, di un violento status di denuncia su Facebook di Laura Conti e di alcuni dei commenti dei suoi followers, con link annesso «www.youtube.come/il-cervo-di-etnapolis%234&295%» (video che non esiste, ovviamente, «non ci sono cervi in Sicilia»); una telefonata interna, presumibilmente del direttore alla sicurezza «Che stanno aspettano, lì fuori, per procedere con quel cazzo di cervo??? Facciamo entrare tutti quei coglioni di clienti, d’accordo, e subito, con la forza se necessario, non c’è un cazzo da vedere fuori: i negozi sono dentro, giusto, non sono fuori, e allora!» (p. 110); e infine, verso il finale, un racconto interno, La pozzanghera.

All’interno di questa struttura fittissima, complessa e prismatica, l’indice di narratività è altissimo. In Il silenzio creativo, un intervento teorico del 1962 di Vittorio Sereni, il poeta di Luino concentra l’attenzione sulla necessità, in un lavoro, di «avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture» suggerendo che «se ai vertici poesia e narrativa si toccano […] non ha quasi più senso il tenerle distinte». In Suite Etnapolis, l’impressione è che questa suggestione si inveri: ogni personaggio si modifica e subisce un’evoluzione, come Laura, che passa dalla fine di un fidanzamento a essere vittima di stalking, mentre il tempo scorre inesorabile, fino all’evento finale cioè l’entrata di un elemento estraneo, un cervo, che sconvolge il microcosmo di Etnapolis, accendendone gli impulsi vitali con «brevi articoli online | non firmati, continue | condivisioni del video sui social, | e in tarda mattinata a Etnapolis | lo stupore | di una troupe televisiva cittadina» e scatenandone il furore delle passioni» o ancora risvegliando sentori di inganno o echi mitici «chi non sopraffatto | dal fumo sospetta una trovata | pubblicitaria di bassa lega e chi il mito | del cervo e di Ciparisso rispolvera» (p. 88).

Il cervo è la strepitosa polisemica metafora con cui Lanza scompagina il libro. Questo, che sconvolge i clienti e i dipendenti di Etnapolis, perché non ci sono cervi in Sicilia, non è un mero orpello retorico bensì il motore che evoca, una volta per tutte, i bisogni e le necessità di coloro che popolano questo luogo, sia come adito all’evasione mitica e simbolica, sia come impossibilità che genera affermazione per contrasto. L’intervento del cervo, che potrebbe essere configurato erroneamente come un deus ex machina, è chiamato da ciò che i personaggi desiderano oppure contrastano, dal loro bisogno di realtà, e la sua singolare apparizione non ha nulla di posticcio ma è lo schermo epifanico che permette alle persone di guardare oltre «come se non era di questo mondo, dico, e allo stesso tempo come se di questo mondo voleva che vedessimo qualcosa, qualcosa d’altro, attraverso di lui» (p. 93) e si configura come procedimento metaforico essenziale alla comprensione del testo.

«Un cervo! Ma dove? Ma che! Un… cosa?
Ma, signori, scherziamo? Ma dove,
che dici? Sicuro, l’ho visto: di là
dal laghetto, dietro il cipresso:
brucava. Aveva una leggera
maculatura bianca sulle cosce…
… ma ti pare che uno può avere
allucinazioni così nitide?
… ma, io dico, se a quella distanza non…
Aveste visto come ha corso poi,
ma furbo, dietro la linea degli alberi,
in direzione del cinema, mobile,
caldo, muscoli, occhi. Altri hanno
visto, qualcuno col cellulare… L’ultima luce,
ve lo dico io, genera vapori,
incontrollabili visioni
collettive: a uno pare
di vedere, un altro supinamente
conferma, ed è fatta. Io non so
cosa c’entra un cervo a Etnapolis,
ma un cervo, giuro, è quello che ho visto». (p. 80-81)

In Etnapolis si dà conto della multiformità del reale e delle persone, ed è qui che sta la forza del libro. Gli uomini vivono nella loro totalità, oppressa, e la mostrano, la difendono, la gridano, come fa una commessa, accusando il videomaker di non interessarsi ai lavoratori, ai loro contratti, e la cui intervista viene cancellata:

«Anziché andarvene in giro a fare domande del cazzo sul cervo di qua e il cervo di là, perché non fate onore alla vostra professione e chiedete quali sono le condizioni lavorative di quelli che lavorano qui a Etnapolis […] Io ad esempio ne ho uno part-time, di contratto, quattro ore per cinque giorni: da venti ore che dovrei fare, sapete quante sono costretta a farne, sono costretta a farne quasi cinquanta a settimana, e sa per quanto, per seicento euro al mese […] di questo dovreste parlare, di questa specie di colonia penale che chiamano centro commerciale, per questo dovreste essere qui, non per quel cazzo di cervo… tanto lo so che neanche morti quest’intervista la trasmettete, mi avete sentito, tanto lo so…» (p. 100).

Cui fa da contraltare, tra i tanti, la ricerca di vita racchiusa in questo verso, bellissimo «Ma ce l’abbiamo il tempo, ce l’abbiamo?» (p. 21) pronunciato lunedì mattina, nel letto, sotto il lenzuolo da Cinzia, che vuole dormire ancora «e poi fare l’amore» (p. 21).

Suite Etnapolis è un libro potente perché politico, che cioè riguarda i cittadini mostrati nella loro complessità, ed è in grado di generare nei lettori confronto e discussione, senza lasciare alcun adito all’apatia o all’indifferenza. Lanza, nella scrittura, tiene lontani i pregiudizi finché, pagina dopo pagina, mano a mano che ci si addentra nel centro commerciale, scopriamo un punto di osservazione che è esso stesso una chiara presa di posizione, capace di illuminare l’intreccio della realtà, i suoi rivoli e le sue diramazioni: il cosmo di Etnapolis, al tempo stesso «carcere» , «balena» e luogo traboccante di storie in cui giocano i bimbi sull’altalena «con le manine | sulle sponde di protezione | che vengono giù dagli scivoli» e che, proprio in quei minuti, si stanno predisponendo «ai ricordi che di qui | forse a struggerli | per sempre torneranno» (p. 16).


Antonio Lanza, Suite Etnapolis,

Interlinea 2019, pp. 128, 12 €