Il 12 dicembre 1969, a Milano, in piazza Fontana scoppia una bomba all’interno della Banca dell’Agricoltura. Muoiono diciassette persone, tutti uomini, tra i quarantacinque e i settantanove anni. I feriti sono ottantotto.

Piazza Fontana non è solo un tragico attentato scolpito nella memoria della città, ma rappresenta anche l’inizio di una stagione di terrore e bombe volta a destabilizzare gli equilibri politici italiani. La mano è sempre eversiva e di destra, le ingerenze vengono dall’alto, e sono volte, in piena guerra fredda, a indebolire “i comunisti” e favorire il centrismo governativo.

La vicenda processuale di Piazza Fontana è lunga e travagliata: racconta depistaggi, infiltrazioni, minacce, e molte vite rovinate. Le prime sono sicuramente quelle di due anarchici: Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. All’indomani dell’attentato le indagini della questura di Milano si rivolgono soltanto verso i gruppi anarchici. Accusato, ingiustamente, di strage è il ballerino Pietro Valpreda. A lasciarci la vita, invece, è Giuseppe Pinelli, ferroviere del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Dopo tre giorni di interrogatorio, Pinelli muore sul selciato del cortile della questura di via Fatebenefratelli, dopo un volo dal quarto piano. Lo studio in cui si trova è quello del commissario Luigi Calabresi (ucciso poi nel 1972), il questore in carica è Marcello Guida, già responsabile durante il fascismo del carcere politico di Ventotene.

La mano dell’attentato, come riveleranno le indagini di processi che si concluderanno senza condanne, è nera. La responsabilità della strage di Piazza Fontana è del gruppo neofascista Ordine Nuovo, guidato da Franco Freda, procuratore legale e editore di Padova, e Giovanni Ventura, editore di Treviso. A dare avvio alla pista veneta, una pista ignorata prima e soggetta a depistaggi poi, è Guido Lorenzon, professore di Maserada sul Piave che per primo accusa Ventura, di cui è conoscente e da cui ha ricevuto confidenze.

Nonostante l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione inizialmente si concentrino sull’errata pista anarchica, le indagini per Piazza Fontana vengono influenzate da un forte movimento civile e da una serie di controinchieste portate avanti da collettivi, giornalisti e, soprattutto, dalla famiglia di Pinelli.

Enrico Deaglio, giornalista, direttore dal ’77 all’82 del giornale «Lotta Continua», ha scritto un saggio lungimirante sulla strage di Piazza Fontana. La bomba, edito da Feltrinelli e uscito in occasione del cinquantenario della strage, racconta la vicenda, i suoi protagonisti e i fatti che ne seguirono con tono divulgativo e coinvolgente, in un lungo e appassionato racconto in cui spesso fa incursione la voce del narratore. Alle vicende politiche dell’Italia della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, si uniscono digressioni storiche, che spostano l’attenzione del lettore su altre epoche e altri luoghi rivelando una trama di similitudini e rimandi. Ho incontrato l’autore in un bar della Stazione Centrale di Milano a pochi giorni dall’anniversario di Piazza Fontana.


Nell’ultimo anno sono usciti diversi libri su Piazza Fontana. Il suo si distingue per una narrazione poco analitica e più “emozionale”, legata agli eventi, ai personaggi che li hanno vissuti e al milieu storico in cui si sono svolti.

Ho voluto fare un racconto, e ho voluto che fosse un racconto personale. Quell’epoca e quella vicenda le ho vissute anche come giornalista, quindi occupandomene direttamente. Ho voluto raccontare Piazza Fontana come una sorta di giallo: con personaggi, atmosfere che oggi non ci sono più, e, poi, con un mistero: perché, come si sa, la verità non è mai stata raggiunta. E mi sono preso la libertà di mettere dentro anche me stesso e la mia visione dei fatti.

Dice che la verità non è mai stata raggiunta, ma noi oggi conosciamo nomi, ruoli, depistaggi…

Sì, conosciamo una parte della storia. È stato accertato che sono stati Freda e Ventura con Ordine Nuovo, però il contorno non è ancora del tutto chiaro. Si sussurra, ma non si dice. Per esempio, i legami tra gli Affari Riservati e Ordine Nuovo. Così come la collusione che c’è stata fin da subito nei depistaggi, nell’invenzione della pista anarchica. E poi c’è una questione: l’Italia di allora era così: se la televisione diceva “il colpevole è Valpreda” non è che si potesse dissentire, era così e basta; se il «Corriere della sera» lo scriveva, era così e basta. E anche tutto il cosiddetto “funzionariato”, nelle questure per esempio, era composto da persone con un’altra mentalità, con un senso dell’autorità molto forte.
Tutti quelli che erano coinvolti hanno mentito per decenni, fino a quando sono morti. Un pezzo di verità lo conosciamo, ma per quanto riguarda il resto… io alcune cose le scrivo, ma non è e non sarà mai la verità “ufficiale”. Un po’ perché, appunto, alcuni sono morti, un po’ perché si sono perse testimonianze, e un po’ – e questo è un altro conto – perché non conviene a nessuno, per tutte le conseguenze a cui ha portato la bomba.

E queste conseguenze le sembra siano arrivate fino a oggi?

Quelle della bomba di piazza Fontana credo stiano scemando. Dopo mezzo secolo c’è stato un cambio di passo, però l’Italia è rimasta un paese molto fragile dal punto di vista della giustizia e della capacità di arrivare alla verità. Una cosa enorme è successa con il caso Cucchi: quanto c’è voluto perché alla fine qualcuno confessasse? E in quanti si erano mossi per impedirlo? In Italia c’è questo tipo di cultura purtroppo, è molto difficile scardinarlo. Francamente, mi chiedo: se adesso succedesse una cosa del genere, quanto sarebbe grande di nuovo la capacità di manipolare? Voglio dire, se venisse fatto un attentato qui, alla Stazione Centrale di Milano, e venisse detto che hanno trovato subito l’assassino e che è un immigrato arrivato dalla Libia, le persone ci crederebbero?

All’epoca cos’è riuscito a incrinare questa manipolazione?

È stata una forza interna, una sorta di comune sentire della città di Milano, che è una città che la guerra l’ha vista, la conosce, una città con una tradizione democratica e di sinistra. E tutto questo si è manifestato immediatamente, il lunedì successivo, nel giorno dei funerali. Quella è la giornata che ha cambiato tutto. Ed è stato anche il lavoro della straordinaria famiglia Pinelli, gli amici intimi e professionali. I giovani assistenti dell’Università Cattolica hanno scritto una lettera in cui dicevano: “Abbiamo conosciuto Pino Pinelli, è una bravissima persona pacifica, non aveva nessuna intenzione di suicidarsi e aveva due bambine piccole a cui era legatissimo…”. Ma nessun giornale gliel’ha pubblicata, neppure «L’Unità».

Spesso si ricorda anche l’influenza della controinchiesta La strage di Stato.

Ha avuto influenza, e tra l’altro vendette tantissimo. Fu il frutto del lavoro collettivo di tantissimi giornalisti che non potevano scrivere determinate cose sui loro giornali, perché non sarebbero state pubblicate. Questo, in un certo senso, è stato un lascito “buono” della bomba, perché ha accelerato una formazione di democrazia, soprattutto nel campo del giornalismo. Ci sono stati molti giornalisti che si sono occupati della strage: Camilla Cederna è stata una bravissima giornalista investigativa, e poi Corrado Stajano, Piero Scaramucci.
La strage di Stato aveva azzeccato alcune cose, ma per esempio tutta la pista veneta non l’aveva proprio considerata: i giornalisti si erano focalizzati su Avanguardia Nazionale, sulle questioni romane. Questo fa capire com’erano protetti in Veneto, appena il professor Lorenzon ha parlato, si è mobilitata una cortina di silenzio.

Che cosa ci raccontano queste cose?

Ci raccontano com’era allora, ci permettono di studiare com’era fatto lo Stato. Per esempio, adesso si dice: “I servizi segreti deviati”, ma deviati da cosa? Non c’era nessuna deviazione, gli Affari Riservati erano una divisione del Ministero degli Interni, e avevano una genesi che risaliva al fascismo, alla polizia politica. Basti pensare che Marcello Guida, il Questore di Milano, città medaglia d’oro della Resistenza, era stato il carceriere di Pertini.

Prima ha nominato la famiglia Pinelli, nel suo libro viene data grande centralità alla figura di Giuseppe Pinelli.

Pinelli è centrale, è la cartina di tornasole di tutto quello di cui abbiamo parlato. Sarebbe dovuto uscire sulle proprie gambe da quella stanza per essere trasferito a Roma e arrestato per concorso in strage. A quel punto ci sarebbe stato Valpreda riconosciuto dal tassista e Pinelli, la “mente organizzativa”, che in qualche maniera sarebbe stato collegato agli attentati ai treni dell’agosto 1969. Solo che qualcosa in quella stanza è andata male. Io la penso come Licia Pinelli: la cosa più probabile è che lui sia svenuto, o comunque che abbiano pensato che fosse morto, per le botte… per un colpo, e l’abbiano spinto fuori. Le cose poi si sono complicate molto con la questione Calabresi. Calabresi era o non era nella stanza? E poi, dopo trent’anni, veniamo a sapere che tutte le versioni date dalla polizia sono false.

Lei dissemina il suo libro di digressioni su luoghi e momenti storici differenti, come il caso Dreyfus. Mi parla di questo aspetto del libro?

La storia di Dreyfus e dell’appello degli intellettuali avevo pensato che avesse una somiglianza con Piazza Fontana già all’epoca dei fatti. Gli altri aneddoti di cui ho parlato nel libro sono arrivati pensandoci e ragionandoci sopra: per esempio, ci si chiede che cosa si prefigge una persona che mette una bomba, e si vanno a cercare altri casi simili nella storia. Poi a me piacciono i luoghi, mi dicono di più i luoghi delle persone, quindi piazza Fontana, in cui sono andato diverse volte, la questura di via Fatebenefratelli, con l’idea di quel corridoio, di quella stanza, e la storia del motorino di Pinelli parcheggiato in cortile. E un’altra cosa che mi affascina è questa vicinanza della banca all’Arcivescovado: è come mettere una bomba in Vaticano, di questo nessuno ha mai parlato. E la vicenda del quadro di Enrico Baj.

Che ricordo ha dei giorni dell’attentato?

In quel periodo ero a Torino, ero allievo interno all’ospedale Mauriziano. Mi ricordo che quel giorno eravamo tutti attaccati alla televisione. Tutti: malati, medici, infermieri. E c’era gran confusione, disorientamento, in molti attaccarono noi, i cosiddetti “cinesi”, la sinistra, e c’era veramente l’idea che potessero essere stati gli anarchici. Io poi sono andato a Milano quasi subito, perché davo già una mano a «Lotta Continua», che era un quindicinale, quindi ho vissuto in prima persona il clima che si respirava.

In vista di questo cinquantenario si è molto parlato di memoria. C’è effettivamente memoria della portata di questo evento, al di fuori di ambienti ristretti?

No, secondo me si è persa. Si è mantenuta per un po’ di tempo, con i cortei del 12 dicembre e il lavoro dei famigliari delle vittime, ma dopo un po’ è scemata. E il processo Calabresi ha cambiato tutta la prospettiva, per cui Piazza Fontana è passata in secondo piano. Poi oggi c’è proprio una cesura, non c’è più nessuno che se ne occupa davvero. Anche la famosa commissione stragi per Piazza Fontana si è conclusa con un niente di fatto. E quella storia dei ragazzi che vengono intervistati e rispondono che la bomba è stata messa dalle Brigate Rosse è vera, ma è vera non solo per i ragazzi ma soprattutto per la nuova classe dirigente. Non lo sanno e non lo vogliono sapere. 


deaglio enrico la bomba

Enrico DeaglioLa bombaFeltrinelli 2019, 295 pp., € 18.