[Questa è la seconda recensione della nostra #settimanajoker. Il primo approfondimento – Joker: un film di frustrante vacuità – è qui.]


Poco più di un mese fa Todd Phillips – sì, il regista di Una notte da leoni – sollevava il leone d’oro alla settantaseiesima mostra del cinema di Venezia per il suo Joker, uscito nelle sale alcune settimane fa. Il film ha fatto subito discutere, da un lato, per la sua violenza esplicita, la stereotipata rappresentazione dei problemi mentali del protagonista, i riferimenti storici edulcorati e, dall’altro, per l’incapacità di dare a Joker quel che è di Joker, vale a dire il suo posto nella genealogia dell’avversario di Batman. La tradizione di un personaggio tra i più popolari nella cultura fumettistica globale sembra quindi interferire distruttivamente con l’eventuale simbolismo sociale e politico della storia del suo protagonista, alienata figura maschile che sbarca il lunario lavorando come clown e che, quasi involontariamente, diventa icona di un movimento sociale di protesta contro le politiche neoliberiste di Gotham City. Eppure, l’intuizione forse più apprezzabile del film sta nel pensare questi due filoni come necessariamente connessi in modo ambiguo e problematico. La natura ibrida del Joker di Phillips sta nel pensarne la materialità corporea, l’identità esistenziale e il suo rapporto col mondo come il prodotto della società dello spettacolo e delle relazioni di potere neoliberiste che la governano.

Prima scena: una voce radiofonica riporta le notizie in modo piano, ordinario. Lo schermo è ancora nero e, una volta finiti i titoli di apertura, ancora pervaso da tonalità scure. La cinepresa punta alle spalle di un clown, ma ne può scorgere il volto riflesso in uno specchio incorniciato da lampadine accese. La cinepresa è lontana e gli si avvicina lentamente. Il clown si sta truccando, si prepara per la sua performance lavorativa. Ad un certo punto piange. La lacrima secreta dall’occhio inonda il trucco e lentamente, con la cinepresa fissa su di esso, deforma il trucco, quasi lo cancella.
Seconda scena: una strada affollata di una città americana dei primi anni Ottanta, un’immagine dai toni cromatici uniformi e riconoscibili, quasi confortanti nella loro ordinarietà, e poi lo stesso clown in mezzo a questa strada, la sua figura cromaticamente isolata dal resto attraverso i vestiti sgargianti che indossa e un cartello giallo che promuove la svendita di un negozio in fallimento. Pochi secondi, dei ragazzini rubano il cartello al clown e lo prendono a calci facendogli un’imboscata in una traversa riboccante di immondizia. Taglio irriverente alla scena successiva, il volto ora struccato di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), il protagonista, che scoppia in una risata contrita, incapace di controllare il suo stesso corpo.
Le due condensano l’ambigua natura del personaggio, al tempo stesso ingranaggio funzionante dell’incipiente società neoliberale e figura alienata da essa, arida bava ai margini della bocca di questa società consumistica. Come ha scritto Dan Brooks, cercando di capire le ragioni del dibattito tra i critici suscitato dal film, Joker gioca con la dicotomia tra il bene e il male ed è un film ambiguo, che mette in crisi pigre classificazioni.

In una Gotham fin troppo simile a New York, Arthur si mantiene lavorando per un’agenzia d’intrattenimento. Combatte con un disturbo mentale che lo porta a scoppiare in risate incontrollabili e irrefrenabili. Arthur desidera profondamente diventare un comico cabarettista – ha un quaderno dove trascrive le sue battute – e ogni sera segue con la madre Penny (Frances Conroy), con la quale vive, uno show diretto dal mesmerizzante presentatore Murray Franklin (Robert de Niro).
Il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix è l’alienato – i modernisti lo chiamerebbero inetto – che attraversa tutto ciò senza quasi prendervi parte, componente di un meccanismo narrativo che non coinvolge lui come agente, ma sembra emergere dall’interferenza costruttiva di una serie di fattori sociali ed economici. Nella seconda parte del film, Arthur si trova a sgattaiolare in una sala cinematografica dove la Gotham bene – con tanto di smoking, papillon e risata controllata – sta guardando Modern Times di Charlie Chaplin. Arthur è inquadrato da dietro mentre scende la scalinata centrale della sala. La sua sagoma è al centro dell’immagine, generando una sovrapposizione quasi perfetta tra lui – il clown dell’epoca neoliberista (e diciamolo pure, post-fordista) – e Chaplin sullo schermo – il trump schiavizzato dal meccanismo di produzione fordista. Così come Chaplin in quel film, Arthur è in questo un ingranaggio all’interno delle relazioni di produzione in cui si trova a vivere. Nella scena, tanto per sottolineare la sua posizione, Arthur si traveste da dipendente della sala cinematografica, ma soprattutto come clown, Leoncavallo docet, recitar è d’uopo. Arthur è un ingranaggio il cui comportamento è determinato dalla società dello spettacolo (Debord).

Da questo determinismo – ritornerò su questo tema in un attimo – emergono tutte le ambiguità che i critici non riescono ad organizzare nelle loro vetuste categorie aristoteliche. Secondo alcuni di questi – tutti improvvisamente jokerologi – il personaggio di Arthur non ha niente a che fare con la storia di Joker, perciò il film non ha senso. Il punto è, però, che l’elezione di Arthur a Joker è essa stessa un risultato della società dello spettacolo, e non il piano autocosciente di una mente criminale. Sarà il presentatore Franklin a proiettare un video di una pessima performance cabarettistica di Arthur in una puntata del suo show, a prenderlo in giro chiamandolo Joker e sarà sempre Franklin, dal suo scranno televisivo, a presentare Arthur agli spettatori ancora come Joker e a sancirne la nascita di fronte al pubblico. Questo è il punto di sovrapposizione fondamentale tra il Joker tradizionale – personaggio dei fumetti e quindi figlio dell’intrattenimento – e il Joker di Phillips, il loro comune patrimonio genetico. Secondo altri critici invece i riferimenti realistici del film – uno tra tutti un episodio di cronaca nera nella NY del 1984 – sono ridotti a far parte di un raccontino radicato nella cultura popolare fumettistica, e perciò di massa, e perciò acritica. Capisco le critiche di chi lamenta una scarsa di volontà di intervenire nel dibattito sociale contemporaneo – le vittime dell’episodio furono quattro ragazzini afroamericani – ma il punto è concepire queste falsificazioni come il prodotto necessario di un film che vuole ribadire fino all’esasperazione il suo essere generato dalla società dello spettacolo.

Il passo che queste opposte letture ahimè non fanno sta nel concepire la soggettività di Arthur come prodotto dell’industria dell’intrattenimento. Questa industria – sulle targhe delle automobili di Gotham riluce la scritta “industry first” – sussume la vita di Arthur a livello, direbbero Deleuze e Guattari, molare quanto molecolare. Essa gli assegna un ruolo in quanto soggetto sociale identificabile – matto, povero, lavoratore precario – e ne coopta i sentimenti, gli affetti, gli stimoli del corpo attraverso gli psicofarmaci. In alcune scene, è la tecnica cinematografica che fa danzare il corpo di Phoenix al ritmo di canzoni esterne alla cornice narrativa a dirci che la soggettività del personaggio è tutt’una con le operazioni del mezzo cinematografico. Da un altro punto di vista, si potrebbe giustamente sostenere che Arthur sta immaginando di sentire quella musica e che quindi la sua immaginazione trovi espressione attraverso la tecnica filmica. In ogni caso, cambiando l’ordine dei fattori – partendo dalla cornice extra-diegetica per arrivare alla danza di Arthur o viceversa interpretando questi elementi come frutto della sua immaginazione intra-diegetica – il risultato non cambia. La soggettività di Arthur è un ingranaggio consustanziale alla società dello spettacolo.

Lo spettacolo tenta perfino di produrre profitto dalla sua condizione mentale, assegnando il ruolo di clown a chi incorpora la risata come pulsione non volitiva. Ed è qui che la sussunzione della soggettività di Arthur trova il suo primo ostacolo. Nel mondo iper-umanista in cui la mente umana ha il controllo totale del proprio corpo, la sinergia tra materialità e affettività che questo corpo incarna quando ride si ribella e carica in Arthur la scintilla anarchica che lo porta a reagire, a premere il grilletto. La violenza che irrompe nello studio di Franklin durante la puntata a cui Joker partecipa, la materialità sporca del sangue che popola quel momento come molti altri nel film, è l’irruenza della materia e della sua carica anarchica – impossibile da categorizzare in dicotomie – propria del film. Il determinismo di cui parlavo poc’anzi non è perciò totale e un’alternativa al potere neoliberista – checché ne dicesse la Thatcher – c’è, esiste e risiede nella ricerca di un rapporto diverso con questa materialità e la sua dimensione affettiva, pulsionale. È quindi il caso di dire che il film intraprende questa ricerca? La risposta è no. Il film non lascia speranza per una soluzione costruttiva alle forme di dominio del biopotere neoliberista, ma riduce la possibilità di tale soluzione a, appunto, Joker, vale a dire l’emblema spettacolare dell’irrazionalità e dell’anarchia nel significato più negativo – e a volte abusato – del termine.

L’anarchia del Joker di Phillips – forse una versione drammatica dell’assurdità dei personaggi di Una notte da leoni, ma non insisterei nel paragone – non si trasforma in un’istanza di autogestione creatrice, produttrice di tale alternativa. Joker scappa, uccide, elimina, distrugge, così come fanno i razziatori mascherati da clown che devastano le strade di Gotham. La problematica distruttività di questo atteggiamento si trova sintetizzata in una scena del film, dove Joker, al centro di una strada ricolma di partecipanti alla protesta, è osannato e celebrato come leader o almeno ispiratore del movimento. Il suo corpo è al centro della scena, mentre le fiamme di una macchina che brucia alle sue spalle lo trasformano in quasi una figura divina – o forse dovremmo dire supereroica. Tuttavia, proprio nei fotogrammi che inquadrano questa incoronazione, una sedia sfondata spunta sullo sfondo – unico oggetto sollevato rispetto alla folla. Lo scranno del Joker riconosciuto come leader è fracassato, minato, inutile fin dall’inizio. Che cosa sfonda quella sedia? O, in altri termini, che cosa mina l’approccio di Joker e del movimento?

Sostenere che sia la loro carica di violenza non è una risposta valida, o quantomeno completa. Non è la violenza in sé il problema, bensì l’uso di essa per costituire un movimento che si riconosce in un unico leader ed è composto – a quanto sembra dalle immagini meno convulse – solo da uomini con tratti occidentali. Il movimento è minato in se stesso perché si fonda su individualismo, patriarcato ed eurocentrismo, principi in cui la stessa società neoliberista – e il mondo holliwoodiano – si riconosce. Un punto a favore del Joker di Phillips – ma qui il film è in debito con Il cavaliere oscuro di Nolan – sta nel riconoscere questo parallelismo e nel sostenere che il movimento ed il suo “leader” sono generati dalla stessa figura paterna che figlia gli übermensch ubriachi che lo importunano in metropolitana e i Bruce Wayne. E’ Wayne padre a identificare i teppisti come pagliacci, a dar loro un volto ed una fisionomia. Inoltre, la costruzione della scena in cui Arthur – non ancora Joker – incontra Bruce al cancello della magione degli Wayne ribadisce il loro legame. Il cancello li divide e l’inquadratura stretta della cinepresa li rende simmetricamente prigionieri delle stesse sbarre, non lasciando alcuna via di fuga. Insomma, nella Gotham di Phillips non si salva nessuno, nemmeno il bambino che diventerà Batman e la cui soggettività – trauma, vendetta, remore morali – diventerà un prodotto dello stesso meccanismo che ha generato Joker.