Questa è la prima recensione della nostra #settimanajokerMercoledì 16 pubblicheremo un nuovo approfondimento: stay tuned!


I film polemici, controversi, quelli che costringono lo spettatore a prendere una posizione forte e difenderla strenuamente, sono sempre fonte di grande passione e motivo di aspro dibattito. Questo piovoso autunno di fine decade ce ne ha regalati ben due; prima il Tarantino di Once Upon a Time in Hollywood e ora Joker della coppia Todd Phillips e Joaquin Phoenix. Peccato che si faccia una enorme fatica, come scrive anche Anthony Scott sul «New York Times», a capire la misura in cui possano risultare divisivi due prodotti che regalano una esperienza cinematografica così vuota e ridondante. Ma se a difendere Tarantino sono rimasti ormai solamente i (tantissimi) fan duri e puri – che finiscono col perdonargli anche la totale mancanza d’idee, il citazionismo puerile, il maschilismo dilagante – Joker sembra aver conquistato pubblico e critica italiana, riuscendo persino a vincere il Leone d’oro a Venezia come Miglior film.

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Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è un comico fallito con velleità da stand-up comedian che sopravvive lavorando come clown nelle strade della Gotham City nebbiosa, sporchissima e violenta di inizio anni Ottanta. Vive con la madre, disabile e malata, di cui si prende cura, in uno squallido appartamento della zona povera della città. Mentalmente instabile, oltre che affetto da un disturbo che lo costringe talvolta a scoppiare in fragorose e convulse risa, Fleck è continuamente vittima di abusi, sia fisici (viene brutalmente picchiato un gruppo di ragazzini) sia verbali (i compagni di lavoro lo scherniscono, mentre una signora sull’autobus lo insulta per aver fatto qualche boccaccia alla figlia). Quando ad attaccarlo sono tre giovani ubriachi sulla metropolitana, Fleck perde la testa e li uccide, inseguendo persino uno dei tre sopravvissuti all’interno di una stazione deserta per completare il massacro. Le origini di uno dei più straordinari villains della storia del fumetto americano, iniziano da questa escalation di violenza.

Nelle intenzioni del regista, Joker dovrebbe essere un film forte, audace, capace di esplorare con estremo realismo tematiche come l’alienazione del soggetto nella città postmoderna, la malattia mentale, l’ossessione e la violenza, la povertà e i conflitti sociali. Il risultato è, in verità, profondamente problematico. Colpisce, innanzitutto, la rinuncia all’ambientazione contemporanea, soprattutto considerando che l’espediente narrativo a cui il film ricorre per virare verso la sua inevitabile conclusione – una penosa performance di Fleck in un comedy club diventa immediatamente virale e viene trasmessa nel late-show condotto dal suo idolo televisivo, che decide persino di invitarlo come ospite al fine di deriderlo – è tipico invece della nostra stretta contemporaneità, e non certo figlio degli anni Ottanta. Davanti a questa discrepanza di coordinate culturali, l’intero realismo del film va letteralmente in frantumi.

A sorprendere, inoltre, è la completa mancanza di approfondimento delle tematiche affrontate. L’omicidio dei tre ragazzi sulla metropolitana è un ovvio rimando alla strage che Bernhard Goetz commise a New York nel 1984, quando uccise quattro ragazzi che, secondo la sua visione dei fatti, volevano derubarlo. Ma se in quel caso l’episodio diede vita a discussioni accesissime sul tema dei crimini a sfondo razziale – i quattro ragazzi erano di colore e Goetz rilasciò dichiarazioni decisamente razziste – nel film la scena perde di valore, trasformando le vittime in tre giovani bianchi di buona e ricca famiglia. Non solo il discorso razziale è svuotato di ogni significato, ma diventa anche problematico quando si pensa che tra i pochi personaggi di colore dell’intero film ci sono quelli che, subdolamente perché in maniera meno ovvia, contribuiscono maggiormente al dilagare della pazzia omicida del protagonista: la banda di ragazzini che lo picchia in una delle primissime scene, la signora sull’autobus che lo insulta per essersi rivolto alla figlia, e una ragazza del suo condominio che non ricambia le sue attenzioni.

Dal punto di vista ideologico il film stride nella sua ambigua incoerenza. Il senso di legittimazione e potere che Fleck prova nel momento in cui imbraccia la pistola, compie la strage e si dirige verso casa eccitato, col petto in fuori e lo sguardo alla Rambo possiede evidenti implicazioni destrorse e lancia messaggi quantomeno ambivalenti sul tema della possessione delle armi nella società americana. Al tempo stesso, la sommossa proletaria che le azioni del folle omicida scatenano assume una dimensione smaccatamente populista, che resiste qualunque tentativo di analisi critica. Fleck non crede in nulla, è completamente ripiegato su se stesso, non c’è niente di politico nelle sue gesta, come sottolinea più volte.

Il modo in cui viene trattata la malattia mentale è ugualmente di una superficialità sorprendente. Sono gli abusi e le violenze familiari subite sin dall’infanzia, scopriamo attorno alla metà del film, che hanno giocato un ruolo cruciale nella discesa del protagonista verso la follia. Il problema è che lo spettatore non si confronta mai con il modo in cui Fleck percepisce e concettualizza il mondo che lo circonda; la sua visione sulla malattia, sulla società e il male ci sono del tutto preclusi. In questo senso, il diario colmo di macabri pensieri di morte non fornisce alcun aiuto, impermeabile e impenetrabile come la mente del suo possessore. Pertanto, ciò che è permesso allo spettatore è unicamente empatizzare a tutti i costi con il criminale, rigurgitando così tutto il proprio odio verso qualcun altro. Il male, alla fine, sembra sgorgare dappertutto tranne che dalla mente del criminale. I cattivi non siamo mai noi. Al contrario, sono sempre e invariabilmente gli altri, è sempre la società, nella sua atavica crudeltà, sono sempre i ricchi, quasi per natura, sono i politici e i potenti. Questa stridente rappresentazione della società contemporanea non è discussa né problematizzata, ma accettata come fosse un fenomeno naturale. Non sorprende che nella giuria di Venezia ci fosse un regista come Paolo Virzì, che attorno a questa visione del mondo ha cucito un film (potente ma ideologicamente sbilanciato) come Il capitale umano.

Joker è stato distrutto da gran parte della critica inglese e americanaPeter Bradshaw nel «Guardian» lo ha definito “il film più deludente dell’anno” – mentre in Italia è stato accolto trionfalmente. Sembra di essere tornati improvvisamente a gennaio, quando uscì Suspiria di Guadagnino, tra il calore italiano e il gelo del resto del mondo. Come in quel caso, si tratta anche qui dell’ennesimo prodotto che strizza furbescamente l’occhio ai grandi temi, alla politica, alla società e alla contemporaneità per poi sciogliersi come neve al sole, mostrando così la sua vera identità, quella di un film di mero intrattenimento che funziona pure piuttosto male. A mancare sono il senso del ritmo e una sceneggiatura solida, che si nutre di citazioni (soprattutto Scorsese, da Taxi Driver a The King of Comedy) ma finisce per reggersi unicamente sulle prove attoriali, con un Phoenix che più che recitare sembra voler mostrarci il suo talento mimico e la sua abilità nella danza. Joker resta, in ultima istanza, un film quasi fraudolento, che si crogiola e rattrappisce nel suo bieco nichilismo di fondo. Doveva essere un film disturbante, profondo e coraggioso, ma tutto ciò che lascia è un frustrante senso di vacuità.