Marco Lupo è nato nel 1982 a Heidelberg e vive a Torino. È un libraio, un lettore instancabile e scrive da molti anni. Fa parte del collettivo di scrittura TerraNullius. Il suo esordio, Hamburg, ha vinto il Premio Campiello Opera Prima.

Hamburg racconta le vicende di un piccolo gruppo di lettori impegnati a collezionare gli stralci dell’opera di un misterioso autore, M. D., di cui ritrovano soltanto libri mutili, che leggono e rileggono febbrilmente, stregati dalla penna d’un uomo scomparso nel nulla; e attraverso le stesse pagine di M. D. racconta la terribile guerra, in particolare il bombardamento della città di Amburgo, inseguendo tra le pieghe del secolo agonizzante le tracce lasciate da un evento catastrofico. Hamburg è d’altronde il titolo della prima fatica dello scrittore scomparso, cui seguono i lacerti di Uomini cavi, Treno di notte e Bahadir. Ultima componente è il Memoriale della demenza, raccolta di pagine trovate in una busta di carta, insieme a «fotografie, ritagli di giornale, fotocopie di sonetti e stralci di racconti in lingua tedesca».

Hamburg è un collettore di storie e un romanzo che opera su più piani narrativi; ho avuto il piacere di parlare con Lupo delle molte facce del suo libro, ma non solo: di letteratura italiana e tedesca, di guerra e di scrittura, della contemporaneità, del romanzo oggi, di Roberto Bolaño.

Partiamo dalla storia che racconti. Come è nato Hamburg? In certo modo è un romanzo che percorre i sentieri della tua vita: sei un libraio, sei nato a Heidelberg, in Germania, hai letto e fatto tuoi i libri degli scrittori che, citati o persino raccontati, si affacciano tra le pagine. Mi viene da pensare che questo sia il risultato di un raffinato processo di distillazione, o di qualcosa del genere.

Hamburg è nato facendo macerare la scrittura di altri autori che ho scoperto negli anni, come Wolfgang Borchert, Hans Eric Nossack, le immagini straordinarie del ventre della balena raccontate da Orwell in questa piccola libreria dell’usato a Londra… E l’elemento autobiografico è in parte evidente e in parte manipolato: il gioco del libraio è soltanto un altro modo per raccontare un’esperienza visiva e tattile che i lettori affannati, volenterosi, appassionati fanno quando entrano in una libreria. Era un modo per ricostruire un’idea di realtà contemporanea vicina a noi, in cui un gruppo di resistenti, di giovani amanti della letteratura si incontra senza nessuna necessità, senza nessun fine se non quello di leggere alcuni stralci, alcuni pezzi di pagine e opere per il puro gusto di ritrovarcisi, di riconoscersi in quelle parole senza riconoscersi come volti, senza riconoscere appieno il loro ruolo in questa storia. Come noi vivono nella bruttezza, mentre tutto ciò che racconta Hamburg è il contrario, e questo piccolo coro di voci che ritrovano nelle pagine perdute è un coro che rappresenta, nelle mie intenzioni – anche se le intenzioni degli autori sono una letteratura a parte – un momento in cui si sublima un’idea della lettura non come salvezza, ma come scoperta, come abisso, come lotta interiore. Questa lotta interiore che decidono di impugnare è fondamentale per capire ciò che succede nelle società contemporanee, in cui il conflitto è ovunque, alla luce di chiunque sia in grado di comprendere le cose. Il conflitto si dipana da un evento catastrofico, in cui un’unica città viene rasa al suolo. Quell’elemento è per me autobiografico in parte, perché sì, sono nato in Germania, sì, sono un amante della letteratura tedesca, ma Hamburg diventa un simbolo, una metafora nella mia immaginazione mentre decido di raccontarne le storie, le vicissitudini, perché rappresenta la caducità delle nostre vite, delle città, del valore di una vita in un contesto di guerra.

Il modo in cui ricostruisci la storia, ma anche parallelamente il modo in cui costruisci un mondo finzionale è molto particolare. Lo fai rincorrendo le “antichità private” di persone dimenticate, personaggi storici, scrittori, cercando dei frammenti di verità negli angoli della storia. È così che viene a galla la Amburgo dal 1943 in poi, che pure si crea a partire dalla cronaca del bombardamento, che potrebbe essere definito l’evento principale. Nel romanzo dici, per esempio: «La ricostruzione storica non serve a molto se non si riesce a immaginare quel movimento meccanico delle giunture che chiamiamo salire le scale»; ma anche: «Siamo come puntini sulle i, spazzati via dalle maiuscole».

Sono due citazioni che puoi anche unire. Nei resoconti, nei diari, nei memoriali che ho riscoperto, rispolverato e tradotto, c’è una cosa che soprattutto mi ha sconvolto. Forse è qualcosa partito da una pagina di un autore in particolare, che non è Sebald, che mi ha aiutato nel concepire il progetto, o meglio con la sua idea di etica, ma la pagina a cui mi riferisco è firmata da Nossack, che in La fine descrive un momento particolarmente quieto in realtà, l’unico momento quieto, in cui un gruppo di testimoni, di persone scampate alla distruzione, sono lontani dalla città, si ritrovano in un ambiente collinare, a qualche chilometro, e aspettano una corriera che li porterà nella città bombardata, nel luogo delle macerie, in ciò che non riconosceranno più. Quel momento storico, che è individuale, raccontato da un diario, una cronaca, mi ha rivelato la potenza del ricordo, anche il ricordo trascritto, il ricordo degli altri reinventato. Ho pensato che l’unico modo per riempire, ricostruire i vuoti di un’identità impossibile quale quella del protagonista di Hamburg, nato sei mesi prima della distruzione di Amburgo, fosse quello di riprendere la voce dei testimoni, ma riprendendole non in chiave saggistica, divulgativa, non utilizzando note chilometriche e ciclopiche, ma riprendendone le note emotive, la forza emotiva, creando uno sbarramento tra l’orrore della visione, un orrore chiaramente importato su ciò che non c’è più, il momento della morte perenne, in cui non c’è più speranza, e il momento in cui il testimone invece riesce, nonostante tutto, grazie al suo respiro, a vedere qualcos’altro. Quel momento, che è rappresentato da una luce fioca e difficilmente descrivibile, rappresenta in fondo la grande forza di sopravvivenza che molti hanno, che mi ha aiutato, grazie ad altre pagine, ad entrare in quel meccanismo, che è il meccanismo del sopravvissuto.

hamburgVorrei parlare del modo in cui hai concepito la forma di Hamburg. Di base si tratta di un racconto in cornice: alcuni personaggi ritrovano i libri di uno scrittore apparentemente scomparso, M. D., che ha raccontato attraverso le parole la sua vita e un’importantissima porzione di storia. Perché? C’è un programma dietro alla architettura metaletteraria di Hamburg?

Sono nati prima i libri. È una storia molto particolare: la prima cosa che ho scritto è stata Hamburg (il primo dei quattro romanzi intradiegetici, ndr), la seconda è stata Uomini cavi, dopodiché ho messo questi due libri parziali in un cassetto e ho pensato a quei libri quasi ogni giorno, per mesi, sapendo che quel meccanismo che avevo creato si era sviluppato come qualcosa di nuovo per la mia scrittura. Volevo seguirli pur non essendo sicuro della direzione. Ero pieno di dubbi, eppure Hamburg in qualche modo mi dava l’idea che la strada fosse quella giusta. Ho continuato a scrivere Hamburg e in parallelo ho costruito un’architettura che non è quella finale, un’architettura del passato, che non esiste più, che è fatta di testimoni, come nella prima parte, che si sviluppano però parallelamente: i vari capitoli erano intersecati, attraversati dalla storia di Hamburg. Ho capito che quell’architettura non poteva reggere, che era troppo complessa e difficile da leggere. Allora ho deciso di tranciare per sempre quelle pagine, buttandone via un centinaio, e mi sono di nuovo lanciato sulla costruzione vera e propria dei libri. Quindi, dopo Hamburg e Uomini cavi, ho deciso di continuare con Treno di notte, e poi mi sono fermato di nuovo. Mi sono fermato per cercare di dare un respiro al racconto, cosicché potesse avere una valenza nel contemporaneo, senza essere un romanzo storico puro. I miei grandi dubbi erano relativi all’attacco. Ho capito che la costruzione concentrica poteva essere molto funzionale all’idea che avevo, quella di una rappresentazione dell’impossibile, della memoria individuale impossibile da raccordare con il presente, e che l’unico modo di farlo era quella classica, tipica dei manoscritti ritrovati. Sono ripartito molto tardi, poco prima della pubblicazione, con una costruzione di pagine già editate, scritte, e in ultima battuta ho deciso di costruire il Memoriale della demenza (l’ultima sezione del libro, ndr), che secondo me in quel momento era la rappresentazione perfetta di un uomo sconfitto dalla sua memoria, da una malattia che gli impediva di ricordare e che nel tentativo di fermare questa terribile epidemia di vuoti di parole ho cercato di descrivere al meglio della mia penna.

Insistendo sui tuoi modi di scrittura, mi sembra molto interessante richiamare alcune parole del professor Heiccholz, un personaggio di Hamburg, che mentre racconta l’Iliade agli studenti «non può evitare le digressioni e intuisce il loro potere sui ragazzi, l’attenzione che dedicano a questi particolari, agli aneddoti che crescono come edera sui muri solidi della loro memoria». Penso che anche Marco Lupo non abbia potuto evitare le digressioni e intuire il loro potere sui lettori, perché forse sta qui il modo in cui agisci sulla forma romanzo alla tua maniera. Racconti molte storie brevi e intense, riempi i piani narrativi – i romanzi nel romanzo – di piccoli frammenti che assumono, a partire dalla loro parzialità e soggettività, il grande e spersonalizzato respiro della storia. Tutte le storie s’impastano, si uniscono.

Il meccanismo si crea pagina dopo pagina, mattina dopo mattina, ora dopo ora, mentre credi di aver capito in che direzione andare. Queste singole storie, questi piccoli capitoli, queste impercettibili visioni, questi destini che vengono raccontati sulla pagina e che poi scompaiono, perché non hanno futuro, almeno non sulla carta… per me non sono soltanto digressioni, ma rappresentano la possibilità del coro. Il coro ha un grande potere: in un momento in cui molto spesso si sente parlare di populismo e di popolo in salsa filonazista, come se fosse soltanto quella cosa lì, mi interessava riportare la grande intensità della visione delle cose viste attraverso i singoli frammenti. Sono sempre stato ossessionato per molte ragioni dalle possibilità, e Hamburg mi ha dato il potere di orchestrare le possibilità. È un potere che ho scoperto non da solo, ma grazie a molti scrittori. Uno degli ultimi è stato Énard, con Bussola, che secondo me ha fatto della digressione un campo aperto, un importante travisamento dell’idea di narrazione, che è l’input, che va a concimare e amalgamare ciò che in realtà diventa narrazione completa, romanzo puro. Diciamo che completa, secondo me, quello che io in modo negativo considero il romanzo oggi e lo migliora. Io sono convinto che la digressione, se non fine a se stessa, se racconta un piccolo pezzo di storia, se scritta con potenza stilistica e con gravità della situazione, possa riempire il vuoto di molti romanzi che spesso per molte pagine raccontano soltanto un evento, sempre e soltanto quello, con una forza unica e originale che altrimenti non sarebbe possibile esprimere.

Ti ho sentito parlare la prima volta alla premiazione del Premio POP, e ricordo delle parole sulla lingua di Hamburg che mi avevano colpito. Dicevi di aver dovuto rileggere gli autori di quel periodo per assorbirne la lingua di pietra, l’unica spietata lingua che possa raccontare quel periodo storico. Per citazioni più o meno esplicite tornano molti nomi: W. G. Sebald, Arno Schmidt, Ernst Jünger, Elias Canetti, Hans Erich Nossack, e non solo. Quanto è stato importante per te lavorare sulla lingua?

La lingua è l’architrave, sono le fondamenta del libro. La lingua è il fondamento di tutto ciò che tengo a scrivere. Nulla di quello che scrivo può esistere senza lingua. E per lingua intendiamo un’idea ragionata, appassionata, sedimentata di linguaggio che si unisce al ritmo del racconto. La lingua di questo libro deve moltissimo, ovviamente, alla lingua degli scrittori morti a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta, non soltanto tedeschi. Un’intera generazione di narratori capaci di fare del conflitto e delle sue conseguenze un nuovo inizio. Quel nuovo inizio è una lingua che fonda la nostra idea di narrativa, in qualche modo. La lingua di quegli anni è una lingua che si basa su nuove categorie, che ancora non abbiamo compreso, si basava tutta su una nuova struttura delle cose. Immaginare interi quartieri, in tutte le città italiane, non per forza in Germania, che venivano sradicate, distrutte all’improvviso da bombe che lanciavano tutto nell’aria, cambiava la percezione del tutto. Una civiltà, o meglio una società che si basava su un’economia in qualche modo rurale, non ancora completamente industriale, all’improvviso vedeva la grande potenza industriale dell’arte militare, e quella cosa lì andava a cambiare completamente la percezione della realtà. La andava a velocizzare, e la lingua non può fare a meno di questa nuova percezione, con cui chiunque scriva di passato dovrebbe fare i conti. Qualsiasi nonna di oggi potrebbe ricrearla. Grazie alla voce di alcuni grandissimi scrittori sono riuscito a cablare quella lingua, o almeno ho tentato di farlo, un’idea di scrittura molto più lenta rispetto alla contemporaneità, molto più classica nella percezione del lettore, nelle parti dedicate ai libri ritrovati. Quella lingua, che è il motore di Hamburg, il suo fuoco centrale, è il modo in cui volevo concepire quel libro, il modo in cui credo sia felicemente stata racchiusa l’idea che lo ha reso possibile, quella di una lingua capace di abbracciare la disperazione degli ultimi.

Per l’ultima domanda chiamo in causa un autore che amiamo entrambi e di cui abbiamo già parlato di sfuggita, Roberto Bolaño. Lo faccio perché l’altro ieri, mentre stavo rileggendo il tuo romanzo e spulciando qualche intervista, hai usato, accanto alla parola reliquia, la parola amuleto. Ho pensato subito al finale di Amuleto, al sogno terribile della protagonista, Auxilio Laocuture. Lì stiamo parlando della storia del Cile, certo, ma la scena mi riporta a te, e ad Hamburg: una schiera di bambini, o forse fantasmi, corre verso un burrone, una sorta di baratro oscuro, mentre intona un canto. Sono i bambini destinati alla guerra, che cadono tutti insieme nel baratro; pure, la canzone che hanno intonato rimane nell’aria, nelle orecchie della protagonista. «E quel canto è il nostro amuleto». Hamburg è una raccolta di amuleti?

È una raccolta di amuleti. Che cos’è in fondo un amuleto? È, diciamo, un marchio che segna speranza e qualcosa che scaccia via la paura. La letteratura è anche questo, allontana l’idea del terrore, della fine. L’amuleto di Roberto Bolaño è in effetti presente e sotto molte forme, ed era inevitabile. Qualsiasi lettore che lo abbia letto negli ultimi trent’anni non può fare a meno di vedere lui come scrittore capace di unire i mondi, in un modo o in un altro, e di unirli sotto un’idea di estetica letteraria non solo notevolissima, ma capace di trascendere grandi idee che hanno a che fare con l’etica, con la vita quotidiana, con i regimi, con la storia degli umili, dei più poveri, soprattutto che hanno a che fare col quotidiano di una società basata sul mondo dei ragazzini, come diceva la Morante, su un mondo in cui in fondo tutto è costruito sulla fine delle forze giovani, quando sono loro che vanno al macero, come nei Detective selvaggi. Sono loro, già disperati ancora prima di partire, che finiscono come carcasse nelle maquilladoras in 2666, corpi di giovani donne, e il mondo che viviamo, il mondo che purtroppo popola la nostra terra, il mondo umano, è fatto di questa violenza, e gli amuleti servono ad allontanare quella violenza. Hamburg è anche quello, sotto svariate forme. Uno dei romanzi ritrovati, Uomini cavi, se ci penso, ora che me lo chiedi, è anche quella cosa. Uomini che si ritrovano costretti a dormire in un capannone di un centro di detenzione, o meglio di un campo di concentramento abbandonato durante la ricostruzione, che arrivano dall’Italia e dalle regioni più povere d’Europa, che vengono definiti ricostruttori. Di notte, e sono la meglio gioventù d’Europa in quel momento, vivono la straziante realtà del loro presente. Sentono il sibilo tra le macerie di giorno e non riescono a dormire di notte, si masturbano in queste camerate cercando di nascondere i loro gemiti, e sperano in un futuro in cui ci sia qualcosa d’altro. Qualcuno di loro ha visto la guerra, qualcuno addirittura ha visto quegli stessi campi in cui lavora come operaio. Quel capitolo in particolare, ma anche altre pagine sono amuleti, e l’intenzione è quella che nessun altro veda più immagini come quelle. Tutto questo è impossibile, sono a­muleti che arrivano dal presente e non toccheranno mai il futuro, sono forme di speranza.