Scorrendo la cinquina finalista delle ultime edizioni del Premio Campiello pare ormai consolidato il riconoscimento a scritture di stampo tragicomico: nel 2017 la saga Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini, nel 2018 La galassia dei dementi di Ermanno Cavazzoni (ai limiti del poema eroicomico), oggi La vita dispari di Paolo Colagrande. L’autore, per la verità, non è affatto nuovo all’ambiente del Campiello: nel 2007 si è aggiudicato il premio nella sezione Opera Prima con il romanzo Fìdeg e nel 2015 ha vinto il premio Selezione Giuria dei Letterati con Senti le rane. In entrambi i casi – e si potrebbe aggiungere a questi anche Dioblù, del 2010 – Colagrande fondava le basi per uno stile di scrittura riconoscibile anche ne La vita dispari, caratterizzato dall’elaborazione straniante di situazioni comuni, con individui eccentrici e un umorismo sempre attento al rapporto con la quotidianità e con il lettore.

Il romanzo in questione ripercorre le diverse tappe della vita di un certo Buttarelli. La sua esistenza, caratterizzata come è da difficoltà scolastiche, innamoramenti adolescenziali, matrimoni (più di uno) e dedizione al lavoro, può sembrare normalissima, ma è in realtà presentata come un «tragicomico susseguirsi di inciampi e di intuizioni, di vessazioni e di casualità» (risvolto di copertina) ai limiti del grottesco, a partire dal mistero che avvolge la morte del protagonista. Da un lato vi è la verosimiglianza della dimensione sociale, con accenni ad alcuni eventi storici, come gli anni di piombo, e a questioni attualissime come i metodi pedagogici o la fiducia nella scienza e nella medicina; dall’altro vi è l’umorismo del narratore, che alterna agli aneddoti di Buttarelli digressioni para-filosofiche dal profilo parimenti eccentrico e anticonvenzionale. Al di sotto della comicità si percepisce sempre l’ombra di una condizione umana profondamente tragica, se non altro perché sottratta ad ogni possibilità di senso.

Entrando più nello specifico, Buttarelli è affetto da una serie di alterazioni neuro-cognitive che lo rendono in apparenza un alieno in mezzo agli esseri umani. Tra queste, si impone il “meccanismo della specularità”, un «malessere oscuro e perverso di natura neurobiologica» alla base anche del titolo del romanzo: di fronte a una «qualunque linea, barriera o divisione verticale», reale o virtuale che sia, il cervello di Buttarelli elabora solo la parte destra, rendendo del tutto indecifrabile l’altra metà. La pagina dispari di un libro, l’unica che il protagonista è in grado di decifrare, viene quindi elevata a metafora della sua stessa esistenza, «punto cruciale» per giustificare azioni e comportamenti di fatto incomprensibili a chiunque lo circondi.

Storie fondate su meccanismi così netti rischiano di appiattire i personaggi e i rapporti causa-effetto della narrazione con esiti che possono risultare a lungo andare monotoni. Si tratta naturalmente di un giudizio personale, che esprimo pensando a opere come Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino o Zadig di Voltaire. La vita dispari sembra prendere questa piega soprattutto nella prima parte, quando il “morbo” della specularità sembra condizionare il protagonista a scapito delle sfumature psicologiche e caratteriali. Inoltre, il trattamento delle coordinate spazio temporali (la vicenda si svolge in un «angolo di sobborgo metropolitano» fra la strada Furio Muratori e il centro di “mediopoli”, nel corso di un imprecisato secondo Novecento) traspone la vicenda di Buttarelli su un piano quasi paradigmatico, come se si trattasse di un caso studio al rovescio, interessante per la sua eccentricità; prova ne è il fatto che tutto il racconto risponde al bisogno di ricostruire gli ultimi attimi di vita del protagonista, consegnati a testimonianze paesane del tutto lacunose o contraddittorie. Nel complesso, però, il romanzo si smarca dal rischio di appiattimento – sempre che di rischio si tratti – grazie all’impiego di alcune strategie che ne garantiscono anche l’originalità.

Innanzitutto va osservato che ogni discorso logico, anche quello apparentemente più rigoroso, conduce sempre a conclusioni bizzarre o irrazionali. È così nelle varie digressioni che il narratore alterna al racconto, talvolta attribuendole al punto di vista d’altri o del protagonista stesso. Tali digressioni, se mai alludessero al romanzo filosofico, lo fanno negando immediatamente il modello ed esasperando l’insensatezza delle vicende a cui dovrebbero dare un senso. Per fare un esempio, le speculazioni attorno a temi biblico-religiosi (presenti anche nel precedente romanzo di Colagrande, Senti le rane) sono poste al servizio di una visione distorta o di una ambigua e conflittuale caratterizzazione dei personaggi: in una riflessione sulla torre di Babele che apre la seconda parte del romanzo, Dio sparpaglia gli uomini con leggerezza, quasi per gioco, come se si divertisse a «dare un calcio a un formicaio, o disperdere uno sciame col ddt», lasciando intravedere un elogio dell’incomunicabilità e una confusa critica della globalizzazione:

Va bene la globalizzazione, pensa Dio, ma ci vuole sempre un po’ di Nord e un po’ di Sud, qualche traccia di sottosviluppo, di ghetti e barriere. La città-mondo non soddisfa nessun senso estetico. E in fondo c’è piú colore, cromatismo, nell’incomunicabilità che nella comunicazione. E poi, pensa ancora Dio, anche a livello di urbanizzazione del pianeta, o di  coscienza ecologista, se vogliamo metterla su quest’altro piano, vien da chiedersi che idea è una torre. Un pugno di semi ha bisogno di un campo, per crescere, non di un vaso da fiori. Dentro la torre soffoca il mercato libero, si strozzano le reti tecnologiche. E dove va a finire il progresso?

La questione religiosa condiziona anche gli equilibri del racconto con l’introduzione del personaggio di Fulgenzio: cattolico di facciata ma peccatore di fatto, fiducioso nella benevolenza del Dio cristiano, questi scompiglia il microcosmo della famiglia Buttarelli, di fede ebraica, divenendo compagno della vedova e consigliere sentimentale del protagonista, con conseguenze esilaranti e imprevedibili. Tra queste va segnalato almeno il fidanzamento del giovane Buttarelli con ben otto compagne di classe, nessuna realmente interessata a lui e nessuna coincidente con l’Eustrella, la ragazza di cui è perdutamente innamorato.

Il tema affettivo è un altro dei fattori che, già nella prima parte, contribuiscono a svincolare il racconto dal meccanismo della specularità. Le relazioni di Buttarelli con l’altro sesso, infatti, dipendono da un trauma infantile subìto alle scuole elementari Dioscoride Polacco, quando scopre che il maschio di cefalopode Argonauta Argo non supera i dieci millimetri di lunghezza mentre la femmina può arrivare fino a venti centimetri. Si tratta di una diseguaglianza tradotta immediatamente in un senso di inferiorità di fronte all’imponente direttrice Maribèl, a sua volta traumatizzante per i suoi metodi violenti e punitivi. Nel complesso, l’azione di molteplici meccanismi neuro-cognitivi fa sì che nel corso del romanzo la personalità di Buttarelli assuma una consistenza autonoma, sfumata, imprevedibile. Una personalità, a ben vedere, non meno surreale di quelle che lo circondano, né forse distante dai tratti che ogni lettore potrebbe attribuire a sé stesso nell’universo tragicomico di Colagrande. Ed è qui, allora, che subentra un rovesciamento di prospettiva, per lo meno nella percezione di chi scrive: Buttarelli, da “alieno tra gli esseri umani” diviene semplicemente “alieno tra gli alieni”, come sembra suggerire anche una delle digressioni in assoluto più coerenti di tutto il romanzo, in cui si afferma che l’uomo, se osservato da ipotetici extraterrestri, apparirebbe come un errore di natura, un essere del tutto estraneo ai meccanismi che governano la vita, un animale posto sulla terra per far ridere chiunque lo osservi dall’esterno. La Vita dispari, in questo senso, diviene metafora di tutta la condizione umana, proposta al lettore da una prospettiva straniante e comica per svelarne il rovescio tragico della medaglia.

Tale condizione non risparmia nemmeno il narratore, che è in terza persona, anonimo, ma a tutti gli effetti interno all’ambiente del paese, quasi un personaggio più concreto dei personaggi stessi. La sua conoscenza della storia dipende esclusivamente da ricordi inaffidabili, a partire dalle testimonianze dello zio Vilmer Gualtieri, ora defunto, indicato come il responsabile di molte digressioni para-filosofiche o di resoconti contraddittori e inverosimili:

La storia di Buttarelli sbanda un po’ nel finale e questo non per colpa mia. Cerco solo di mettere i fatti in processione con qualche sentimento e un po’ di carne sulle ossa, ma il problema sono le fonti: quella principale è Gualtieri, mio zio Vilmer Gualtieri detto Gualtieri, e già non è una bella partenza.
Gualtieri, come può confermare chi lo ha conosciuto di persona, raccontava le cose per intermittenze e ricadute, per cosí dire, con un andamento centrifugo che disperdeva il discorso in tanti temi satellite, magari interessanti, ma di poca economia d’insieme.

La vita dispari si presenta quindi come un romanzo riferito “per sentito dire”, quasi a ricordare l’incipit «ho sentito raccontare la storia d’un radioamatore di Gallarate» con cui Celati, spesso indicato come modello di Colagrande, avvia il primo brano di Narratori delle pianure. L’enunciazione ricalca alcuni modi dell’oralità, come se il racconto si svolgesse di fronte a un’intima cerchia di ascoltatori, ma la lingua resta sempre esatta, limpida, solo apparentemente semplice. È una lingua che seleziona i propri mezzi per sembrare naturale e comunicativa, autodefinendosi anche attraverso la parodia degli eccessi specialistici e dell’esuberanza accademica. Al capitolo Ritratto di donna col cappello, ad esempio, il narratore commenta alcuni ‘versi’ (Linea di fuoco / come una vagabonda / ostilità atmosferica) ispirati a Buttarelli dall’immagine idealizzata dell’Eustrella:

la struttura simbolica del verso poetico abita tutta dentro la psicologia del parlante, e il parlante è per così dire una fusione tra il poeta e il mondo evocato nel suo parlare nel momento stesso in cui le parole si staccano dalla fonte come un pezzo di nuvola.

L’impennata ermeneutica, che nella sua ricercatezza non risolve affatto l’oscurità dei versi, si palesa nel finale come parodia del linguaggio della critica letteraria, atto di cui il narratore si assume in prima persona la responsabilità: «Questa cosa non la diceva Gualtieri, la dico io adesso facendo una sintesi della migliore saggistica contemporanea».

La stratificazione delle testimonianze e la costante incertezza della voce narrante confondono ulteriormente le coordinate del racconto, relativizzando su più livelli il rovesciamento ironico e ogni prospettiva ideologica. La vicenda del protagonista e la rappresentazione sociale che vi fa da sfondo provengono da fonti inattendibili e dalla rielaborazione di un narratore che in più occasioni manifesta la propria parzialità. Il rischio maggiore è quello di cogliere nel libro di Colagrande un «disimpegno facile», un giudizio sospeso o «consegnato al mistero» e all’umorismo, quasi a replicare un’altra peculiarità di Buttarelli, definita da Gualtieri “meccanismo del disinteresse” e consistente in un’inerte registrazione della realtà esterna senza selezione o elaborazione alcuna. Va però riconosciuto al narratore (e all’autore) il fatto che «non c’è qui mistero ma solo un discorso a metà», che presuppone una selezione e che anzi, a partire da questo processo, invita il lettore a intraprendere uno sforzo ermeneutico, ad assumersi la responsabilità di una ricerca di senso. Tutto ciò, però, con la terribile consapevolezza che ogni interpretazione esclude sempre una metà delle cose, trattandosi soltanto della pagina dispari di un libro – quello della condizione umana – che sembra sbandare un po’ da tutte le parti.


 

ColagrandePaolo Colagrande, La vita dispari, Einaudi, Torino 2019, 288 pp. 19,50€