Romanzo storico ambientato nella brughiera lombarda del Seicento, Il gioco di Santa Oca (La nave di Teseo, 2019) di Laura Pariani – finalista del Premio Campiello di quest’anno – racconta le storie di tre personaggi: quella di Bonaventura Mangiaterra, capopopolo che nell’anno 1652 promuove e guida una rivolta contadina contro i potenti; quella di Pùlvara, viandante e cantastorie che, vent’anni dopo, attraversa la campagna lombarda raccontandole avventure di Bonaventura; quella, infine, della brulicante umanità che popola la brughiera – personaggio collettivo composto da donne e uomini poveri allo spasimo, crudi e ignoranti, ma tenaci e fieri. Romanzo che può soddisfare sia chi ama la pagina ben scritta sia chi vuole farsi stupire e avvincere da un buon intreccio, Il gioco di Santa Oca – capace di condensare in sé spinte e controspinte della scrittura, matura e salda, dell’autrice – è un’opera tanto leggibile quanto densa e complessa, impreziosita da un ordito linguistico molto originale.

Il romanzo è costruito sull’alternanza di due macro-sequenze narrative che si intrecciano l’una con l’altra, completandosi a vicenda.

In una sequenza, ambientata nel 1652, viene raccontata la rivolta della banda di contadini guidata da Bonaventura contro i potenti. Nella campagna lombarda appena posteriore a quella de I promessi sposi (opera, questa, che insieme alle riflessioni di Manzoni sul romanzo storico sembra spesso risuonare nelle pagine della Pariani), contadine e contadini, stremati dall’ondata di peste da poco conclusasi e dalla carestia, subiscono quotidianamente violenze e soprusi da parte del clero, della nobiltà e delle truppe straniere che occupano la Lombardia. A farsi carico del dolore e del bisogno di giustizia del popolo è Bonaventura Mangiaterra, un contadino che sa leggere, parlare in pubblico, e che preferisce le parole alle armi. L’utopia predicata da Bonaventura – utopia imperniata sul superamento delle diseguaglianze tra ricchi e poveri e, soprattutto, tra uomini e donne – riesce a vincere lo scetticismo e l’incredulità dei pitòcchi (così vengono chiamati dai potenti, in senso dispregiativo, i contadini della brughiera). Radunato intorno a sé un manipolo di coraggiosi contadini, Bonaventura guida la rivolta popolare contro i potenti. La rivolta, eroica e sfortunata, verrà compromessa dal tradimento di Manfré, uno dei membri della banda.

Nell’altra sequenza, ambientata nel 1672, a venire raccontato è il cammino di Pùlvara, viandante e cantastorie tornata nella brughiera dopo anni di peregrinazioni. Pùlvara – che vent’anni prima aveva preso parte, travestita da uomo, alla banda di rivoltosi guidata da Bonaventura – attraversa la brughiera guadagnandosi un pezzo di pane o un piatto di minestra raccontando ai terrieri, di casa in casa, le avventure di Bonaventura e della sua banda. Alla fine del suo cammino – scandito dalle tappe del gioco di Santa Oca, che Pùlvara utilizza per interpretare incontri e situazioni che le capitano durante il viaggio – la cantastorie svelerà il segreto di Bonaventura. Un segreto che, fino alle ultimissime pagine del romanzo, viene celato anche al lettore.

Il gioco di Santa Oca è un romanzo che si colloca al di fuori delle tendenze dominanti che caratterizzano la maggior parte della narrativa italiana degli ultimi anni: non è scritto in prima persona, non seduce il lettore tramite una storia iperbolica o personaggi eccezionali e opta per una lingua che si smarca da quella più frequentemente utilizzata da narratrici e narratori italiani dei giorni nostri – spesso appiattita, quest’ultima, su un italiano tanto chiaro quanto incolore.

Aspetto più evidente – e tra i più convincenti – del romanzo della Pariani è proprio la lingua che l’autrice sceglie per dare voce alle storie di Bonaventura, di Pùlvara e dei molti personaggi che popolano il romanzo. Si tratta di una lingua sperimentale, plurivoca, che mescola codici espressivi diversi e che colloca l’autrice all’interno del nutrito gruppo di autori del filone dell’espressionismo di stampo plurilinguista. La lingua de Il gioco di Santa Oca porta a compimento la ricerca espressiva in cui l’autrice si è cimentata – ricerca già in atto all’altezza de La signora dei porci, suo romanzo pubblicato nel 1999 – durante la sua ormai trentennale esperienza di narratrice, offrendo al lettore un impasto linguistico complesso, mai pedissequamente mimetico, senza tuttavia rinunciare alla piena leggibilità del testo. È sufficiente prelevare una porzione del testo – in questo caso le righe in cui Pùlvara spiega come funziona il gioco di Santa Oca a Pipòt, giovane viandante che la accompagna per parte del suo cammino – per farsi un’idea di questo amalgama linguistico verace, giocoso e originale, ottenuto contaminando italiano, dialetto lombardo, memorie sudamericane e molto altro:

No, non ci fermiamo qui sbarbato, non ci conviene. Si può mica indugiare a ogni cul cagâ. […] Cosa sono sti calcoli? Gioco. L’ho sempre fatto durante i miei viaggi: mi tien compagnia numerare quel che incontro e trarne previsioni. Mai sentito parlare della Santa Oca? Sei proprio un ciullandàrio né carne né pesce… È un gioco che si fa buttando i dadi su una tavola di numeri che vanno fino al 63, che è il Giardino di Santa Oca, il quale attende noi camminanti come premio finale dopo aver percorso sta lagrimarumvàlle; si procede in tondo verso mancina e ogni casella ha il sò significato […] Epperò, non avendo con me né dadi né tavola, mi appunto nella mente i numeri di chi incontro e poi faccio le somme. Capito? Comprì? Entendido? 

Tratto che più degli altri caratterizza la lingua de Il gioco di Santa Oca è il dialetto lombardo. Marcata risulta anche la volontà di conferire alla lingua un andamento che corteggia – e che, nel farlo, recupera – l’oralità, ottenuto per esempio tramite quelle espressioni gergali e quei proverbi che affollano il testo e gli conferiscono una sentenziosità popolare. È bene sottolineare che si tratta di una lingua inventata, che non imita la parlata reale del Seicento lombardo ma che la finge, cioè inventa, in maniera evocativa e col fine di ridurre – esaltandola – la distanza tra noi e i personaggi del romanzo. Sempre leggibile ma a tratti aspra e difficile da comprendere – specie per chi lombardo non è – la lingua del romanzo obbliga il lettore a fermarsi e a perdersi tra le parole, dentro la girandola di voci che abitano la voce narrante.

Carattere stilistico saliente del romanzo, la lingua de Il gioco di Santa Oca sembra inoltre esemplificare, più in generale, la poetica dell’autrice e il suo approccio al genere romanzo. La Pariani – vengono subito in mente le riflessioni di Bachtin – sembra intenderlo come luogo, o spazio, in cui si condensano e intrecciano più voci e più narrazioni. La scrittura, in questo senso, si configura come un movimento esogeno, che procede dall’esterno verso l’interno: l’autrice ascolta il mondo e la sua inesauribile quantità di storie per poi dare loro voce nel romanzo – una voce plurale, che si carica del dolore degli abitanti della brughiera e che nel farlo racconta, reinventandole, le storie di tutti coloro che non hanno saputo e potuto raccontarsi. In questo senso, il vero e più importante personaggio del romanzo è quello, collettivo, composto da contadine e contadini che, soprattutto nella sequenza narrativa ambientata nel 1652, si alternano e si esprimono sulle vicende del capopopolo Bonaventura e dei suoi. La volontà di raccontare le storie di contadine e contadini – dei dimenticati dalla storia – è manifesta, più volte esplicitata nel testo. Essa si condensa, per fare uno dei tanti esempi possibili, in una perentoria frase pronunciata da Pùlvara: «Sono i potenti e i loro pennivendoli a scrivere la Storia, ma qui sta il succo dove intingono la loro penna».

È proprio Pùlvara ad assumere nel romanzo il compito di indagare il senso, il mistero della vicenda di Bonaventura: la cantastorie mescola e contamina storie e Storia, reiventandole ed esaltando la bellezza e la forza inesauribile del narrare. Durante il suo faticoso cammino, Pùlvara, raccontando le avventure occorse vent’anni prima alla banda di contadini di cui lei stessa aveva fatto parte, lascia una testimonianza di vicende che la Storia ufficiale vorrebbe venissero dimenticate. Sopravvissuta alla violenta repressione contro i rivoltosi capeggiati da Bonaventura, Pùlvara cammina e racconta, consapevole del fatto che il passato – soprattutto quello dei sommersi, dei calpestati dalla brutalità cieca del potere – diventa memoria solo e soltanto se viene raccontato. Personaggio ben riuscito, capace di essere allo stesso tempo affettuoso e crudo, verace e disilluso, Pùlvara rappresenta un appassionato e sofferente elogio dell’arte del raccontare storie e rimarca la necessità – resa da Pùlvara virtù – di avere la lingua sciolta. La cantastorie, in questo (forse) portavoce dell’autrice, ha imparato che a cavarsela è proprio chi sa parlare:

Meglio che lei prepari una storia: avere la lingua sciolta è sempre stata la mia salvezza, pensa Pùlvara. La gente di sta terra volpina ama infatti ascoltare racconti, poiché i nati in brughiera sono creature ignude e spogliate d’ogni cognizione […]. È sempre così: i terrieri fanno cerchio intorno ai camminanti che sanno ben narrare, pendono dalla bocca che conosce le parole giuste per rendere viva e vera la raccontazione. Proprio per questo Pùlvara le storie le sceglie con cura, si può mica narrare qualsiasi cosa a chicchessia. E quando finisce di raccontare, le genti offrono sempre da bere una scodella di quel vinello asprigno che produce sta terra magra e l’implorano: «Ancora una volta.» Ché anche se la storia ormai la conoscono, le parole solo quando sono pronunciate sono vive.

A saper parlare in pubblico è anche Bonaventura, il capopopolo del quale Pùlvara, tornata nella brughiera dopo vent’anni di peregrinazioni, cerca – e scopre, nelle ultime pagine del romanzo – il segreto. Personaggio ottenuto in levare, descritto sempre in maniera indiretta tramite le parole e le allusioni dei pitòcchi, Bonaventura attraversa il romanzo come una sorta di punto di fuga verso cui le direttrici del testo e della storia sembrano convergere. Le parole, le azioni e – soprattutto – il segreto di Bonaventura dimostrano, metonimicamente, come e quanto il romanzo della Pariani riesce, in maniera obliqua, a far emergere e a farci notare molte delle contraddizioni che caratterizzano non solo il Seicento lombardo ma anche e soprattutto il nostro presente. Il gioco di Santa Oca è in questo senso un romanzo militante: riecheggia le tragedie e le lotte di oggi e lo fa sfruttando, e coraggiosamente, gli strumenti – forse usurati ma ancora efficaci – propri della letteratura (o, per lo meno, di quella ben fatta). Avvincente e piacevole da leggere, quella che qui Pariani ci racconta è in realtà una storia che moltiplica le domande invece che offrire risposte o verità consolatorie; che lavora sull’ambiguità, obbligandoci a riflettere, a fermarci, a perdere tempo; che ci costringe a pensare contro noi stessi, a ricordarci che – al netto dei dovuti distinguo – oggi, come nel Seicento, «la vita è terribile e fosca, e le donne ne portano il peso maggiore». A impreziosire il testo, infine, è il fatto che Il gioco di Santa Oca, pur essendo un romanzo più crudo e disilluso di quanto potrebbe sembrare, raccontandoci l’utopia predicata da Bonaventura tenta a sua volta di proporne e di costruirne una. Tramite la storia di Bonaventura, in altre parole, l’autrice ripensa il mondo e ci sfida a ripensarlo, nella speranza che sul futuro si possa ancora agire per renderlo più giusto e più umano.


Il gioco di santa ocaLaura Pariani, Il gioco di Santa Oca, La Nave di Teseo, Milano 2019, 272 pp. 18,00€