Non sembra un caso che si torni a parlare del Pasticciaccio brutto de via Merulana dopo sessantadue anni, da quel 1957 cioè in cui Livio Garzanti pubblicò in volume il romanzo, prima apparso a solo puntate (e senza suscitare troppo clamore) sulla «Letteratura» di Alessandro Bonsanti. Perché quello delle pagine gaddiane sembra essere un destino tormentato, e la travagliata storia personale del Pasticciaccio – giallo non meno vivo di quello delle oscure faccende dell’iconico commissario Ingravallo – ne è forse la prova più manifesta. A sbrogliare in parte «il gomitolo di concause» che riguardano non solo il complesso rapporto di Gadda con gli editori e il mondo editoriale tout court, ma anche quello dello scrittore nei confronti del suo modus operandi, c’è il ritrovamento di alcune carte autografe, riemerse dall’archivio personale dello scrittore presso l’erede di Villafranca di Verona, Arnaldo Liberati. L’onere di razionalizzare l’ingarbugliata matassa è di Giorgio Pinotti, il cui magistero per ciò che riguarda la cura delle opere gaddiane è oramai un punto di riferimento polare in Italia. Pinotti ha però la premura di essere onesto coi lettori sulla natura di questo ritrovamento: del leggendario e graalico manoscritto autografo del Pasticciaccio ancora non c’è traccia e, forse, non ce ne sarà mai. Quello che emerge a Villafranca sono invece centinaia di frammenti – note, appunti, progetti di costruzione, schemi… – che se non confermano ulteriormente quella «nevrosi» che Contini diceva dal ‘34 essere cifra inevitabile per intendere, anche ex ante, il pasticcio gaddiano, almeno testimoniano la volontà ultrarazionale e ultrametodica che dirige il modo di procedere dell’«archiviomane» Gadda – così si autodefinisce lo scrittore – nella ricostruzione architettonica del suo capolavoro dopo la più scialba e parziale edizione di Bonsanti.

Ricordiamo che sulla rivista di Bonsanti parte del Pasticciaccio appare già del 46. Solo l’anno precedente, in ottobre, avveniva a piazza Vittorio, a Roma, l’omicidio di Angela Barruca, misfatto di cui Gadda viene a conoscenza tramite Giorgio Zampa e che rappresenta l’antecedente del delitto della Liliana Balducci del romanzo. Gadda rimane colpito dal fattaccio e l’archiviomane registra di essere già a lavoro al romanzo il mese successivo. Il Pasticciaccio inizia come un (lungo) racconto ma, come spesso accade per le manifatture gaddiane, si dilata, si espande fino a diventare romanzo. Il fatto genera qualche attrito per quanto riguarda i rapporti e gli impegni presi con Bonsanti, il quale costringe Gadda a un lavoro oneroso chiedendo sempre più puntate.

Ma perché abbiamo due Pasticciacci? L’apparizione precoce del romanzo è da ascrivere all’angosciosa temerarietà che conduce in quel periodo l’«ingegner Gadda» (così lo conosciamo da Fabrizio Gifuni, grande lettore e voce italiana di Gadda), in difficoltà economiche e psicologiche, a promettere ad alcuni editori anticipazioni di alcuni suoi scritti, manifestando così l’intenzione di far mestiere della sua arte, “alla Landolfi”. Ma gli schemi relativi al Pasticciaccio redatti in seguito da Gadda, così come le vicende successive, svelano che il romanzo così come era apparso a Bonsanti era acerbo. Un esempio manifesto è dato dal fatto che questi schemi fanno luce, tra le altre cose, su un punto assolutamente cruciale, ovvero il finale del romanzo (ora riemerso), un finale a dir poco incantevole che Gadda forse assegnava al progetto di redazione del secondo volume – mai realizzato – dell’opera.

L’acerbezza del romanzo non è però tutto. Certo è che sul nascere della travagliata vicenda editoriale del Pasticciaccio, costellata di incomprensioni, equivoci, discussioni, polemiche e controversie, vi è anche una certa incompatibilità del maniacale, precisissimo Gadda non solo con il «ginepraio» degli editori, ma con una politica editoriale tutta. Se ne ricorda una tra le moltissime, piuttosto divertente, riguardante la difficoltà di Gadda nel convincere Garzanti, nuovo editore di Gadda, ad accettare la celebre e magistrale ekfrasis degli alluci” dell’ottavo capitolo, quando il Pestalozzi arriva ai Due Santi e si trova davanti al «bell’affrescone» che raffigura Pietro e Paolo (e ai celebri alluci, appunto), ekfrasis storico-letteraria che Garzanti avrebbe espunto del tutto perché eccessiva e ridondante nel contesto di un romanzo che si vuole giallo. Se si sorride al ricordo di questo battibecco, bisogna ricordare invece come i rapporti con Garzanti molto spesso furono anche faticosi, se non addirittura angosciosi e drammatici: l’assidua volontà dell’editore di premere Gadda perché concludesse il romanzo fu spesso motivo di affanno per lo scrittore, già vessato negli anni 50, tra le altre cose, da un impegno in RAI a Roma che lo tenne occupato e lo distrasse dalla sua attività letteraria per cinque anni.

Discutendo del rapporto tra Gadda e i suoi editori, nel 2013 Pinotti si domandava quali potessero essere le nuove prospettive editoriali per un autore come Gadda, cosa restasse da pubblicare e come. Punto di partenza è la serie di Opere che ha preso avvio presso Adelphi nel 2011 sotto la direzione dello stesso Pinotti, di Paola Italia e Claudio Vela, la quale si propose di far rileggere il classico Gadda ridistribuendolo in varie collane. Se si parlava allora di un autografo ritrovato presso l’archivio Liberati (di Eros e Priapo), la risposta a quel quesito per ciò che riguarda il Pasticciaccio arriva oggi. L’Archivio mostra come dopo l’edizione Bonsanti, l’«interminabile» romanzo non solo fosse ben lontano dall’essere pronto, ma fosse stato rilavorato in tutto il suo disegno complessivo. Questo perché il materiale inedito emerso e studiato da Pinotti ha permesso di osservare con chiarezza almeno la magistrale ricostruzione, anche cronologica, che Gadda fa dell’ossatura compositiva dell’intreccio (dal plot ai personaggi), la revisione delle parti in dialetto e il lavoro sul finale. In occasione della presentazione, a marzo, della nuova edizione Adelphi del Pasticciaccio presso la Scuola Normale Superiore, Pinotti si esprimeva così:

 

Gadda parte sempre come un bravo romanziere ottocentesco, parte da schemi, parte da intrecci minuziosamente definiti, solo che poi questi intrecci esplodono, esplodono perché a farli deflagrare sono altri interessi, altre istanze, che sono di carattere gnoseologico, conoscitivo, filosofico.

 

Un colpo di coda, quindi, all’idea che, dopo la prima pubblicazione, Gadda si sia “dimenticato” del Pasticciaccio. Tutt’altro: tra il ‘47 e il ‘49 Gadda ammucchia sulla sua scrivania schemi su schemi, note di costruzione, elenchi, con lo scopo di definire minuziosamente tutto il romanzo.

Se conosciamo il Pasticciaccio come il grande romanzo sinfonico e barocco che è, con tutti i suoi intrecciarsi di toni, di paradigmi di riferimento, con tutte le sue istanze, è perché questo «meraviglioso ordegno», così come si era presentato alla fine degli anni Quaranta, scoppia. Fatto sta che quando nei primi anni Cinquanta Garzanti chiederà allo scrittore di completare il Pasticciaccio, Gadda potrà fare affidamento con sicurezza al suo scrupoloso materiale, ai suoi schemi e alle sue note. Garzanti nel ‘53 propone un dignitoso contratto allo scrittore, ma non riceverà niente fino al ‘57. Questi sono gli anni del passaggio dal cosiddetto Pasticciaccio “cittadino” a quello “albano”: Gadda interviene ingegneristicamente e massicciamente sul romanzo. Dilata il tempo narrativo, mette alcuni dettagli a fuoco – tra di essi nientedimeno che la cruciale questione del nesso tra i due delitti e del finale –, sfila e complica la trama, proponendosi infine di risolvere i nodi rimasti in un seguito del romanzo che, con buona pace di Garzanti, non vedrà mai la luce. Non solo: Gadda agisce chirurgicamente anche dal punto di vista linguistico, concentrandosi ad esempio su una puntigliosa revisione del dialetto, cifra unica che contraddistingue il Pasticciaccio come lo conosciamo. Nel ‘57 Gadda afferma di essere vessato da un lavoro molto intenso, nel quale siamo sicuri essere presente anche questa revisione linguistica del suo «pallido romanesco»: possediamo ora le scrupolose note di riesame e modifica del dialetto, sfogliabili nella nuova edizione pinottiana. Dice Pinotti: «[Gadda] non solo rimodula l’assetto fonomorfologico e grafico del romanesco del Pasticciaccio […], non solo lo emenda da ‘errori’ e forme artificiali […], ma contribuisce in maniera decisiva a rifondarne il lessico» ora più inspessito, più elaborato, più vero. Garzanti non risparmia nulla allo scrittore e nello stesso anno, come sappiamo, il volume vedrà finalmente la luce, ma dopo quel fatale anno sul Pasticciaccio Gadda sarà chiaro: non vuole più sentirne parlare e mette da parte l’idea di scrivere l’atteso sequel. La «Didone che teme di essere abbandonata» – così Gadda nomina Garzanti in una lettera a Citati – deve di fatto arrendersi, con la (non troppo) magra consolazione dell’ottenimento di alcuni testi del suo autore (Eros e Priapo, ad esempio) che lo ripagano non solo del seguito mancato, ma anche del mancato accaparramento della Cognizione del dolore. Onestà vuole tuttavia, dice Pinotti, che «il Pasticciaccio oggi leggiamo si deve anche a lui, alla sua tenacia non meno che a un’intelligenza critica».

Parole a sé merita il “nuovo” meraviglioso «finale imperfetto», forse il vero fiore all’occhiello di questo Pasticciaccio. Come sappiamo, sulla questione del finale Roscioni si era espresso impiegando una suggestiva immagine: Gadda – il Gadda che si arresta sul celebre urlo di Assunta, «nun so’ stata io!» – è come un giocatore di scacchi che rinuncia all’ultima mossa. Ma grazie all’archivio Liberati possediamo oggi un altro finale. Il foglio contenente questo finale è emerso assieme a un articolo di Eugenio Barisoni (datato ‘48) e ad alcuni appunti ornitologici riguardanti degli uccelli di palude. Perché uccelli di palude? Perché questi uccelli – le folaghe, le alzavole, i germani, i beccaccini – appaiono proprio sull’esaurirsi di questo incantevole brano, che dal «grido incredibile» che bloccava «il furore dell’ossesso» ci conduce ora alle nuove «strane lontananze della campagna», ad una «sconosciuta natura» che Gadda dice «rapprendersi in una estensione mentale, non spaziale». Il finale consiste in una impressionante parabola descrittiva, ricca e distesa, dal tono ampio ed elegiaco. Balza immediatamente agli occhi come rispetto alla conclusione precedente, questa sia costruita in maniera del tutto differente: il grido lascia spazio a un silenzio quasi metafisico, «non più geologico», onirico, che riconduce alla coscienza – qui Gadda fa propria un’istanza filosofica a dir poco eccezionale – della «indeterminata immanenza delle cose eternamente perdute e, per ciò solo, eternamente esistenti».

Il finale che Pinotti si ritrova tra le mani, seducente oltre ogni dire, rievoca con una forza ordinatrice difficile da evitare, un altro “finale”, ovvero quello della Cognizione del dolore, che si annovera tra i migliori brani in prosa scritti nella nostra lingua. I parallelismi sono molti. E non mi riferisco solo a quella parola, «coscienza», che fa davvero da trait d’union tra i due mondi, perché un altro elemento attraversa trasversalmente i due scritti: il silenzio. La quiete, la parola che manca e che accompagna nella Cognizione la «sovrana coscienza» della morte, «dell’impossibilità di dire: Io» sembra fare ritorno in questo nuovo finale del Pasticciaccio nella forma di un «tacere d’ogni nome», smorzato dalla dolcezza del «giambo», «della laringe d’un lontano legno, d’un flauto». Ma anche la larga visione paesaggistica e pastorale in cui affondiamo tra le pagine riscoperte da Pinotti, rievoca in noi qualcosa: i «monti lontani» – ricordiamo? –, i «gelsi» elencati dalla luce dell’alba e la «solitudine della campagna apparita» (citati peraltro dallo stesso Pinotti), che ora si mescolano con «l’ombra del nuvolato fuggente», con il senso di smarrimento, di intervallo e di pausa, con un’altra «solitudine», quella «germìle della primavera» al suo sfiorire. Anche qui la campagna tace, ovunque è quiete, «lungo il silenzio dei latifondi scendendo al ristagnare delle gore, nei fossi incapaci», in un percorso che, come quello dalle vette ai gelsi della Cognizione, tutto modulato da quel canto ignaro del gallo, qui va, sacramente, dalla terra al cielo. Allora sopra le gore e i fossi compaiono i già citati uccelli e «una latitudine non più terrestre» va «eguagliandosi alla pianura del tempo, del mare ignorato». Se questo è davvero il finale del romanzo che da sessantadue anni ci riempie di vita, ci fa ridere e bestemmiare, ci insegna a scrivere, a parlare e a pensare, valeva la pena di attendere.


PasticciaccioCarlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, a cura di G. Pinotti, Adelphi, Milano 2018, 370pp. 18,00€