Si è conclusa ieri la 72a edizione del Festival di Cannes. Osservando le diverse categorie proposte dagli organizzatori della croisette, ci si rende conto che la celebre rassegna abbia tentato, grazie alla direzione dell’innovativo Thierry Frémaux, già direttore dell’Istituto Lumière di Lione, di proporre delle opere che siano al passo con i tempi. L’apertura al cinema d’autore d’oltreoceano quest’anno, è stata evidente : dal  presidente della giuria messicano Alejadro González Iñárritu ai molti titoli in gara diretti da registi americani. Inoltre, l’interesse portato alle serie televisive è sempre più importante, anche se il festival rifiuta l’accesso ai lungometraggi Netflix, effettuando una vera e propria scelta politica. Il presentatore della serata di apertura si è espresso chiaramente sul tema, affermando che la sala cinematografica deve rimanere al centro di un’industria che promuove delle opere che non devono solamente divertirci, ma parlarci dei problemi delle società in cui viviamo. Ci si domanda fino a quando Cannes resisterà di fronte ai mastodonti dell’e-cinema, sapendo che Venezia ha già capitolato – a giusto titolo ? – davanti al successo di Roma di Alfonso Cuarón.

Ma come dicevamo, la formula cambia anche per Cannes, che quest’anno ha proposto, durante la sua serata di apertura, di proiettare il nuovo film di Jim Jarmusch intitolato I morti non muoiono (The Dead Don’t Die), film che sfrutta i codici horror inventati da cineasti come Georges Romero e John Carpenter: quest’ultimo sarà fregiato dalla Carrosse d’or, premio che corona una carriera formidabile.

Se ci concentriamo su quella di Jim Jarmusch, la scelta degli organizzatori della rassegna cannoise ci sembra legittima: l’autore statunitense appartiene a una generazione che ha reinventato il linguaggio audiovisivo di un’industria che sa proporci sia delle opere di grande interesse che dei blockbuster di cui spesso si può fare a meno. Jarmusch, durante la sua carriera, spazia tra i generi appropriandosi, in modo personale, dei codici del cinema western (Dead Man, 1995), del cinema d’azione (Ghost Dog, 1999), del documentario (Coffee and Cigarettes, 2003), della commedia (Broken Flowers, 2005) e dell’horror vampiresco (Only Lovers Left Alive, 2013). Riesumando il genere horror, il cineasta prende spunto dalle produzioni di quest’ultimo decennio e crea un film di zombie estremamente dissacrante.

Il film si svolge nella ridente cittadina di Centerville, un paesino statunitense di meno di 800 abitanti dove il tempo sembra essersi fermato. Lontani dalla vita frenetica delle megalopoli, i personaggi creati dall’autore vivono un quotidiano ripetitivo, senza sorprese e senza slanci vitali. I paesaggi bucolici che circondano le rare abitazioni del luogo si trasformano rapidamente a cause di un fenomeno naturale: l’asse di rotazione della Terra si è spostato, producendo delle onde intergalattiche capaci di risvegliare i morti dal loro sonno eterno. Di fronte a un numero crescente di morti viventi, le forze dell’ordine della città, decidono, pacatamente, di non far nulla, o ben poco.

In effetti, al di là di una sceneggiatura che ha volutamente ben poco di innovativo, Jarmusch ci propone un’opera che si prende allegramente gioco di questo tipo di produzioni. Non esita a proporci una serie di stereotipi palesi: delle forze dell’ordine incapaci di agire, la presenza di tre giovani alla moda che si fanno trucidare durante il loro viaggio di fine studi, la presenza di una stazione di rifornimento dove oltre al pieno si può acquistare un numero interminabile di oggetti inutili, gestita da un giovane proprietario che sembra tirato fuori da un film di Wes Craven.

Jarmusch sfrutta le chiavi di questo genere e rende onore ai suoi creatori proponendoci dei morti viventi poco realistici ma dai tratti e dai comportamenti contemporanei. I suoi zombi parlanti sono carnivori fino all’eccesso, alla ricerca di caffè, schiavi dell’alcol, alla ricerca di ansiolitici, alla moda e tengono costantemente il loro smartphone in mano alla ricerca di una connessione internet. Le sue marionette di carne putrida simboleggiano e denunciano un’America trumpiana alle soglie del collasso. L’autore, non esita inoltre, a costruire dei personaggi dalle dubbie qualità: ai razzisti del luogo – uno di loro indossa un cappellino rosso dove si può leggere la scritta “Make America White Again” – si aggiungono dei personaggi campanilisti la cui ignoranza è abissale.

Oltre alla società dei consumi, diventata oramai la normalità di una buona parte dei cittadini occidentali, l’autore denuncia l’immobilismo delle istituzioni di fronte a una catastrofe planetaria oramai presente. Ronald Peterson (Adam Driver) ammette che “siamo fregati”, frase ripetuta come una litania durante tutto il film, mentre Cliff Robertson (Bill Murray) tenta in tutti i modi di mentire a se stesso dicendo e dicendosi che “andrà tutto bene”.

In ogni caso, nessuno tenta di salvare la situazione, abbandonandosi a un determinismo che sembra ineluttabile. Il pessimismo che attraversa ogni sequenza di quest’opera non è mai smentito e il tempo per gli happy end sembra ormai passato. Jarmusch non fornisce nessuna soluzione, ma ci mette di fronte davanti alla stupidità delle nostre scelte e firma uno dei film più pessimisti, satirici e ironici della sua carriera.