Giovedì 17 gennaio 2019, in occasione del ciclo di incontri dedicato a voci emergenti presso il Teatro Fontana di Milano, abbiamo approfondito il tema del paesaggio in relazione all’ultimo libro di Corrado Benigni: “Tempo riflesso” (Interlinea, 2018). Il testo che segue presenta un breve estratto delle riflessioni condivise con Benigni. L’incontro è stato moderato con la collaborazione di Luca Minola.


Per entrare nello sguardo e nel lavoro poetico dell’ultimo libro di Corrado Benigni è possibile partire dal verso iniziale del testo d’apertura, «Sospendete per un attimo il giudizio, leggete», dove il verbo «Sospendete» rimanda a quella messa tra parentesi della realtà che origina il movimento conoscitivo di Tempo riflesso e ne definisce la posizione nei confronti del reale. Una posizione, una messa tra parentesi, che si configura come imprescindibile, urgente, poiché «Troppa vita / è sepolta sotto falso nome» ed è necessario scavare «sotto lo spessore delle voci, lì / dove l’effetto è senza causa e il caso / disegna le traiettorie del destino»; una prospettiva in cui alla parola viene demandato l’inesauribile compito di «afferrare / la profondità della fuga», una profondità dove un «miraggio sigilla la visione», dove la gravità «non trattiene» ma, al tempo stesso, «ci tiene».

Sospendete per un attimo il giudizio, leggete
tra le righe di questo sonno. Troppa vita
è sepolta sotto falso nome.
L’avanzare muto di un albero,
l’acqua che si gela e torna acqua.
Scavate sotto lo spessore delle voci, lì
dove l’effetto è senza causa e il caso
disegna le traiettorie del destino.
Il tempo è un rarefarsi in forma di persone
e uno sconosciuto chiederà l’ora all’angolo della strada.
La parola intanto cerca di afferrare
la profondità della fuga,
come in una prospettiva.
Ma un miraggio sigilla la visione,
questa gravità che non trattiene. E ci tiene.
(Prospettiva)

È dentro questa prospettiva che si articola il movimento del libro di Benigni, una tensione verso «il vero» («Non possiamo parlare in nome della verità, / ma possiamo dire il vero, custodire una voce»), verso il mondo inorganico, vegetale («La pazienza della ruggine che sgretola il ferro / le radici contorte emerse dalla terra / la porosità del cristallo») e quello umano («Ma le voci dei bambini che risuonano / dalla piazza al di qua di un vetro questa sera / dicono di noi quello che ancora non sappiamo»), una tensione verso quel mondo invisibile, infinitesimale, inafferrabile che costituisce, come materia prima e ineludibile, la realtà dentro cui l’esperienza e la vita umana sono inconsapevolmente immerse.
Benigni intende risvegliare questa coscienza, ponendosi anzitutto il problema della nominazione, poiché «le parole nascondono / luoghi e cellule, respiri e ore contate / che dicono chi siamo», in una dimensione cosmica e panteista (un «panteismo metropolitano»[1]) in cui «tutto è legato a tutto», in cui i nessi legano le cose. «Ma a quale appello rispondono / le cose che non riesco a nominare?»; «Come fare di un istante un verso, domando / se cecità e visione qui fanno tutt’uno», «mentre il tempo agisce» come «un fabbro infaticabile» e ciò che è stato ci precede?

Sono interrogativi simili a condurre l’autore alla seconda parte del libro, Dall’invisibile, dove, passando dalla scansione in versi alla prosa poetica e mantenendo aperta la questione della nominazione («I nomi che scegliamo non sono mai giusti fino in fondo»), Benigni si confronta con la realtà invisibile del mondo vegetale, animale, inorganico, ponendo alcuni interrogativi sulla dimensione “invisibile” della stessa esperienza umana: i suoi confini («Dove finisce la mia vita? Dove continua la loro?») e le sue tracce («Quante voci restano imprigionate nelle case abitate prima di noi»). Indizi che rimandano ad altri indizi e che rendono, in modo sempre più evidente, un sistema di “corrispondenze” tra la vita umana e «il linguaggio dei fiori e delle cose mute»[2], un «misterioso accordo»[3] in cui «suoni, colori e odor l’un l’altro si rispondono»[4]: così appare in Cammino, in cui la fisionomia del paesaggio si accorda a momenti cruciali della vita dell’autore.

Amo camminare lungo i sentieri di montagna, superare gli ostacoli quando tronchi rovesciati bloccano il passaggio, ascoltare il rumore del vento spezzato dalle rocce, fermarmi dove la salita è più impervia, riprendere fiato, e dal punto più alto guardare il cammino compiuto. Allo stesso modo ora provo a guardare alla mia vita: il bosco di abeti; la pietraia in cui mi sono storto il piede; la lingua di ghiaccio che credevo di non riuscire mai ad attraversare e il prato sul quale si allunga già l’ombra, il suono della mia voce svanita tra pendii e dirupi, che torna come un’eco lì, dove non sono già più.
(Cammino)

Il risultato è un’“immagine-pensiero” che manifesta una percezione del paesaggio vicina al paesaggio esistenziale di Sereni, a quello interlocutorio di Luzi, a quello invisibile del primo Zanzotto (Dietro il paesaggio), ma che rivela soprattutto un significativo e peculiare legame con alcuni maestri della fotografia italiana, da Luigi Ghirri a Mario Giacomelli, da Franco Fontana a Mario Cresci. Nelle opere di questi fotografi ritroviamo le medesime questioni sollevate dal libro di Benigni. Se in Luigi Ghirri siamo di fronte a «immagini di immagini» che svelano la «nostra miopia di fronte al reale» e riportano l’attenzione non alle cose ma «alle loro condizioni di visibilità»[5], i volti e le figure di «corpi umani nei tronchi di un albero» di Mario Giacomelli presentano una serie di «corrispondenze inesplorate»[6]. E se le immagini di Franco Fontana ingrandiscono frammenti e dettagli del reale, rendendoli “visibili”, Mario Cresci, con la serie I Rivolti, Charles Baudelaire[7], scardina l’idea di ritratto fotografico osservando come il volto del poeta francese acquisisca continuamente nuova vita e nuove dimensioni attraverso le diverse pieghe del supporto cartaceo che celano, di volta in volta, una porzione del viso.

Questi campi di ricerca e le “immagini-pensiero” che ne derivano si legano non solo alla percezione del paesaggio di Benigni, ma direttamente alla terza e ultima parte di Tempo riflesso, che si interroga sull’invisibile presente nell’immagine fotografica. Scrive Benigni, «Quante immagini si nascondono dentro altre immagini / quante parole rannicchiate – come animali – all’interno di altre», palesando una questione comune: “ciò che è visibile e non” riguarda tanto la fotografia quanto la poesia.
«C’è sempre un luogo più a fondo, confuso con l’immagine / un essere perduto nei dettagli, che chiede la parola – / il tuo nome», dal «gatto che fugge spaventato» nell’Annunciazione di Recanati di Lotto ai Nottambuli di Hopper, da «ciò che si muove ai margini della scena» in una fotografia di Ghirri al fermento, all’energia nei corpi fermi e immobili di Salgado per arrivare alle figure antropomorfe di Giacomelli, nelle cui Metamorfosi «i nodi di legno sono maternità, schiena, capelli» […], «un tronco è un nudo di donna con i seni / o un uomo» […], «l’immagine è un alfabeto muto / che condensa il vero / di ciò che non ha nome».
Come scrive Benigni «c’è un’immagine che continua oltre il visibile / perché nulla è davvero delimitabile» e, ancora, nel finale, «La fotografia è un testimone che non mente / porta impressa, sicura, la memoria, come la superficie l’orografia di un paesaggio».

“Memoria” da una parte, “tempo” dall’altra: un “tempo riflesso” «nel doppio senso di specchiato e meditato», «tempo in cui ci specchiamo e tempo su cui ci interroghiamo»[8], un tempo che la poesia, così come la fotografia, prova a catturare in un istante, in un momento, che diviene ora l’immagine fotografata ora la parola poetica. Momentum, come ricorda Milo De Angelis, deriva dal latino movimentum e ci suggerisce come l’attimo della fotografia, così come quello della poesia, non sia mai statico, è un movimento “interrotto” nell’attimo giusto, nell’unico istante consentito, quello irrevocabile.
Nell’“immagine-pensiero” di Benigni siamo così alle prese con un «tempo che ci riflette come uno specchio concavo», un «tempo rappreso», un tempo in cui visibile e non, presente e passato, sono continuamente legati, l’uno imprescindibilmente all’altro, mostrando una comune zona d’ombra che spinge poesia e fotografia verso una continua e inesauribile ricerca oltre le rappresentazioni “già date”, in un orizzonte dove microcosmo, umano, macrocosmo (e le altre categorie dell’esistente) sono destinati a intrecciarsi in un unico interrogativo, in un unico appello, che l’istante della parola e dello scatto fotografico hanno il compito di afferrare, catturare, lasciando inevitabilmente aperta un’ulteriore domanda, poiché:

La fotografia è un testimone che non mente
porta impressa, sicura, la memoria,
come la superficie l’orografia di un paesaggio.
Siamo se non nel segno di chi scrive
o guarda.
Così ci specchiamo nei corpi non trasfigurati
di un’immagine, nella loro violacea penombra.
Ma cosa divide dal nostro il loro destino?


Note:
[1] Milo De Angelis, Tempo riflesso in Doppiozero (Agosto, 2018)
[2] Charles Baudelaire, Corrispondenze in I fiori del male (Mondadori, 2011, p. 17)
[3] Ivi, p. 19
[4] Ibidem
[5] Corrado Benigni, Luigi Ghirri. Pensiero paesaggio in Le parole e le cose (Giugno, 2016)
[6] Corrado Benigni, Le terre scritte di Mario Giacomelli in Le parole e le cose (Maggio, 2017)
[7] Corrado Benigni, Fotografia, maschera della realtà in Le parole e le cose (Novembre, 2017)
[8] Milo De Angelis, Tempo riflesso in Doppiozero (Agosto, 2018)

Tempo riflesso, Corrado Benigni
Interlinea edizioni
pp. 81, 12€