1. Nel 2017 l’evento editoriale della poesia italiana è stata senz’altro La pura superficie di Guido Mazzoni: un libro che ha messo d’accordo tutti, se non sul valore (pure innegabile) o sulla fecondità (a molti è sembrato la culminazione e la distillazione perfetta d’una maniera e d’uno Zeitgeist, più che un faro rischiarante nuove strade: da quel punto di vista Progetto per S. di Simone Burratti, non dissimile per temperie spirituale, appare più promettente), certo sul fatto stesso che si trattasse di un’uscita importante. Quel ruolo sembra esser toccato nel 2018 a Historiae di Antonella Anedda: anche in questo caso la conferma ad altissimo livello di un’autrice già insigne; anche in questo caso, un libro perfettamente congegnato, spietato e asciutto, senza un filo di grasso, che intercetta con sensibilità magistrale le ansie diffuse nell’aria. Anche questo libro non ha convinto tutti, ma molti, e sulla sua significatività non pare esserci discussione.

Per Anedda, il Tacito citato nel titolo e in alcuni punti chiave del testo non è fonte per rielaborazioni erudite, ma termine di confronto morale e stilistico per parlare dell’innominabile attuale, fra emergenze pubbliche e lutti privati. Il che di per sé vuol dire tutto e nulla, dato che si farebbe fatica a trovare una raccolta di poesia degli ultimi anni in cui non facciano capolino almeno un migrante morto in mare e/o la degenza ospedaliera di un congiunto: il discrimine è sempre lo stile, del ragionamento e della scrittura. Nei versi di Anedda l’analisi severa e disillusa dello storiografo romano rivive nello spirito non nella lettera; e l’altro paragone che l’autrice si sceglie è quello, orografico, della sua ancestrale Sardegna, terra asismica cui resta ignoto il dramma spettacolare, così ‘italiano’, di vulcani e terremoti; scavata solo dalle intemperie che nei millenni ne hanno modellato i tratti petrosi e scabri. Così la lingua di Anedda, a cui sembra che il vento e la salsedine abbiano strappato via ogni consolazione ornamentale, ogni residuo d’orfismo e di poetic diction. Il suo verso è piuttosto paragonabile a un bisturi, come osserva Gilda Policastro.

 

2. Se il libro di Anedda ha riscosso vasto consenso fra i lettori forti di poesia, l’evento che ha fatto parlare di sé anche fuori dalla nicchia è stato certamente Dolore minimo di Giovanna Cristina Vivinetto. Il libro, costruito su un nucleo autobiografico caldissimo, ha il merito di trattare per la prima volta in poesia italiana l’esperienza della transizione di genere. Comprensibilmente, una raccolta che ripone tanta fiducia nel proprio valore testimoniale non presenta invece particolare innovazione o elaborazione sul piano formale, che si attesta su un tono medio di facile leggibilità e non senza ricorsi al patetismo. Il risultato è una silloge rispettabile e sicuramente meno leggera di tanti inutilissimi esordi di ventenni innamorati non ricambiati della poesia, ma complessivamente mediocre. Che è stata esaltata, sì, ma per ragioni in buona parte extra-letterarie. È quanto ha scritto, in una recensione equanime e approfondita, il già citato Burratti. Mal glien’è incolto, ché su di lui – come su chiunque altro abbia osato muovere critiche, non importa se pretestuose (o addirittura transfobiche) o, invece, circostanziate e legittime – s’è abbattuta non solo l’ostilità dell’autrice ma, in modo più inquietante, la shitstorm dei suoi sostenitori.

Non si tratta d’altronde d’un problema specifico di questa raccolta o di questa autrice: il contenutismo oggi dilaga e affligge anzi la narrativa (o le nuove forme ibride di fiction e reportage) anche più della poesia. Il ruolo sociale della letteratura è in crisi, le capacità di concentrazione e d’orientamento dei lettori vacillano, i libri per vendere hanno bisogno d’esibire uno slogan a misura di tweet, di essere facilmente etichettabili. Meglio allora se prendono di petto quei temi che polarizzano sempre più ferocemente la società: le mafie, l’immigrazione, il precariato, le questioni di genere. Il problema è quando dal tema si passa al brand, oppure dall’impegno al ricatto morale: il libro tratta un tema della massima urgenza, allora non se ne può parlar male su altri piani – come quello della forma, che in letteratura purtroppo è sostanza. L’accusa d’ipocrisia non si applica evidentemente a Vivinetto, che ha letteralmente vissuto nella propria carne il dolore da cui scaturiscono i versi: ma ciò non rende intoccabile il suo libro, né meno preoccupante la tendenza generale di cui partecipa.

 

3. La menzione della shitstorm e degli altri fenomeni tossici tipici dei social (su cui, come osserva lo stesso Mazzoni, si è trasferito quel dibattito anarchico che qualche anno fa animava i litblog) ci porta a riflettere sul trolling e soprattutto sull’uso creativo dei fake. Marco Giovenale si è recentemente compiaciuto del «clima flarf» della poesia italiana su Facebook, rivendicandolo come un frutto dei semi gettati da portali come “gammm”, e dunque riconoscendo implicitamente il valore sperimentale, avanguardistico di quest’uso dei social. Fra i nomi ivi citati vi sono la scuderia di Nuova Poesia Troll, che resta il miglior verseggiatore scoptico-satirico d’oggi (e su cui ho già speso due parole altrove, in attesa del corposo bonifico che mi convinca a metter mano a un saggio più esteso), «il lavoro su facebook di Giulia Felderer» (che ho conosciuto quando era ancora una persona normale e vi assicuro dal vivo è molto umile + equilibrata per essere una star), e il progetto Ophelia Borghesan di Luca Rizzatello e Angela Grasso. Se per Felderer neppure si può parlare di poesia, ma di profilo-installazione, dove ogni status e ogni foto contribuisce al Gesamtkunstwerk, Ophelia Borghesan è stata definita dal suo creatore un «tamagotchi poetico», progetto multimediale al cui centro sta un corpus di brevi componimenti in versi, iperrealisti e ineffabilmente seri. Spesso anche metricamente cesellati: come nel ciclo Canile, in terzine di perfetti endecasillabi (Dal kebabbaro il labrador contempla | lo spiedo; puoi portarlo fuori? dice | la moglie, il pelo sta prendendo odore).

Non pare un caso che Ophelia sia donna e metricheggiante, se confrontata con altri casi contemporanei di eteronimi e personae poetiche.  Antesignana la Mariella Prestante scopertamente creata da Giulio Mozzi, autrice di sonetti tanato-erotici che oggi continua occasionalmente a poetare dall’oltretomba. Altra novità 2018 è stata Olimpia Buonpastore, poetessa pure inesistente dietro alla quale si nasconde un giovane e abile poeta maschio (come PPP, sappiamo ma non abbiamo le prove; qualche indizio, a carattere filologico, però sì). La sua raccolta inedita Corpo di mamma è giocata su effetti grandguignoleschi, in cui il corpo genitoriale del titolo viene sottoposto a ogni oltraggio che una fantasia sadica possa concepire. Impossibile da prendere sul serio, questo oltraggio splatter porta con rigore alle estreme conseguenze le premesse di certa poesia viscerale e tragica ‘al femminile’, e contrasta con l’uso della rima e dei versi regolari.

Simili operazioni rientrano in fondo nella vecchia tradizione dell’eteronimia, aggiornata alle nuove possibilità tecniche aperte dai social. Resta da chiedersi perché spesso accada che un autore maschio crei un cyber-eteronimo femminile (non conosco tanti casi del contrario). In casi come quelli di Prestante e Buonpastore, crearsi un personaggio femminile consente anche di esplorare i temi del corpo e della sessualità, oggi più che mai delicati, in maniera scandalosa o scanzonata, comunque sotto specie di divertissement letterario. Lo stesso Mozzi osservò a suo tempo come l’immaginaria poetessa costituisse un utile spunto per riflettere sullo specifico maschile vs. femminile nella scrittura. D’altro canto, un caso come Borghesan sembra dimostrare che è sentito come (più) stereotipicamente femminile in poesia anche certo surreale dilettantismo, il kitsch vertiginoso delle copertine floreali e del poetese melenso. Notevole anche come questi esperimenti, per ragioni in parte non dissimili, si rivolgano alla metrica tradizionale: da un lato sentita, soprattutto da scrittori di formazione avanguardistica, come improponibile, non praticabile en sérieux e proprio per questo adatta invece agli esperimenti eteronomici magari di stampo satirico; da un altro lato, portando all’estremo la tendenza di molti neometrici contemporanei anche ortonimi a pose più o meno ironiche o postmoderne. Il vincolo della forma chiusa, infine, sembra più adatto a quel surplus d’artificialità necessario alla costruzione d’un personaggio a tavolino.

 

4. Donna e neometrica, ma non eteronima, è invece Giulia Martini, il cui Coppie minime è per me fra gli esordi più notevoli dell’anno: almeno nel senso letterale che si fa notare, lascia un’impressione forte e personale, non è generico e intercambiabile. Dei libri d’esordio ha l’accattivante freschezza e la sfrontatezza, ma non l’ingenuità e soprattutto, grazie a dio, non la genericità amorfa della lingua: che è anzi al centro d’una riflessione iperconsapevole. Per una valutazione critica, al solito acuta e sensibile, sarei tentato di rimandare senz’altro al botta e risposta fra Davide Castiglione e l’autrice. Ad attirare la mia attenzione fu il pun fonologico del titolo, rappresentativo già delle due dimensioni su cui si gioca la raccolta: da un lato virtuostistica costruzione metagrammaticale, dall’altro canzoniere privato d’amore (perduto). Il merito di Martini sta nel far sì che nessuna delle due dimensioni appaia pretestuosamente appiccicata all’altra, ma che entrambe si compenetrino e si illuminino a vicenda. Così, gli ostinati (e non sempre esibiti) bisticci, le allusioni più o meno enigmisticamente cifrate, i giochi metalinguistici schiudono sovrasensi che immettono nel cuore pulsante della raccolta, un cuore che è personale e politico (a volte anche troppo schematico ideologicamente, come nella boutade sui ‘capi bianchi’). A fluidificare l’operazione soccorrono un’ottima dimestichezza con le forme metriche e una familiarità profonda, confidenziale con la lingua che certo si giova degli studi dell’autrice ma anche, piace pensare, delle sue origini toscane (e che mi càpita di riscontrare in altri autori toscani giovani, penso ad esempio a Bernardo Pacini).

Martini indovina così una scrittura non ‘erudita’ né ‘ludica’ in senso superficiale, ma nutrita di studi linguistico-letterari per i quali traspare una smisurata (ma non ingenua) passione. Coppie minime deve il suo fascino – e senz’altro anche le riserve che può suscitare – alla sua natura duplice e doppiamente ossessiva: un libro sulla lingua e della lingua, che sembra costruire e abitare un mondo in cui non esiste altro che il linguaggio; e un libro sull’amore più disperante. È questo un altro esempio di poesia di chi «scriveva sul banco durante Filologia Italiana» o piuttosto di chi, con amore pari all’attenzione, prendeva appunti?