Il trasporto che sento verso Antonio Moresco è anticulturale; è puramente epico. È trascendenza e compagnia, del tutto mentale. È l’idea che, come dice lui, possiamo attraversare insieme «un pezzo di buio». È tutto questo: la simbologia mistica del sangue, del fuoco, della notte, dell’amicizia viscerale.

Ma non solo. C’è qualcosa nel modo affabulatorio di Moresco – nel modo in lui ha sempre declinato il racconto dei propri anni “sommersi” – che ha funzionato, per me e immagino per altre decine e decine di giovani intellettualmente stimolabili, magari anche qualche cacciatore di fortuna nel mondo degli scrittori, come un vettore d’attrazione verso questo scrittore mantovano. Ed è, nella fattispecie, il suo mito delle origini. Gli anni oscuri, sotterranei, anonimi di uno scrittore e il suo modo di esserne uscito (aver mollato una situazione d’indigenza, essersi affrancati da un mondo del lavoro o dell’anomia che è sempre stata una clandestinità, un apprendistato giusto ma soffocante) sono sempre un mito di fondazione, al pari della fondazione di una città. Nascita della Nazione Moresco. Ecco, questo mito mi ha sempre attirato verso i libri di Moresco. Immaginavo l’uomo austero, taciturno, irrequieto fino alle febbri, arso vivo nel fuoco della letteratura, del tutto isolato nel mondo letterario contemporaneo, ma circondato di amici nobili e lontani (Omero, Dante, Leopardi, Dostoevskij, Melville, Cervantes, insomma, tutti i più grandi e canonici scrittori bigger than life che la letteratura mondiale ha in catalogo); lo immaginavo, e lo immagino, a scrivere a mano, al tavolino ai piedi del letto, oppure ancor prima, chiuso nel bagno del monolocale, di notte, mentre la moglie e la figlia piccola dormono nell’unica stanza. Lui seduto sulla tazza che scrive Clandestinità perché è un uomo spezzato, ha passato gli ultimi dieci anni in un gruppo rivoluzionario filocinese e ora non ha niente: a Milano, in una città solitaria, in un appartamentuccio alla periferia, tra fumi e nebbie, occhieggi luminosi di antenne televisive e segnali aeroportuali, nella stereofonia del traffico tangenziale, falciato da emicranie e dagli acufeni di una rabbia immedicabile. Come ha fatto quest’uomo solo a mantenere vivo il suo fuoco? A scrivere Clandestinità, La cipolla, a tenere vivo l’esercizio epistolare con le Lettere a nessuno, a scrivere – dannazione – Gli esordi? Con la vocazione, risponderebbe forse lui, con quel fuoco che hai oppure non hai, ma che di sicuro non può esserti insegnato.

Ecco, è soprattutto per via di questo mito che ho seguito negli anni l’opera di Antonio Moresco. Ora, che lui lo abbia voluto o meno, questo diaframma è sempre interposto fra i lettori e il libro che ha scritto. Impossibile lacerare il sipario, benché tutta la sua opera sia il tentativo di lacerare qualcosa, una sottile membrana semi-trasparente, un velo di Maya, un sudario: fatto sta che l’immagine della fessura-ferita che s’apre e che lascia intravedere mondi alternativi è ricorrente nella sua narrativa: la “cruna” è uno dei suoi lemmi preferiti.

Perciò è maledettamente difficile parlare delle sue opere proprio perché con l’andar del tempo in ogni nuovo libro di Moresco questo “quanto” di personalia è sempre più cresciuto. Se nella Cipolla o negli Esordi era soltanto il romanzo a parlare, certamente nelle opere più recenti – Gli increati, L’addio e quest’ultimo Il grido (SEM) – a parlare è più un sistema, costituito dal libro+Moresco declamatore.

Attenzione, non vorrei che si confondesse la quantità di autobiografismo che è misurabile (o non-misurabile) in qualunque opera artistica con il “sistema”: quest’ultimo non è una filigrana, ma è esso stesso struttura. Forse è per questo che nel Grido i personaggi-fantasmi che si affollano sulla scena si rivelano, presto, dei cloni. Il clone è un te-stesso proiettato nel mondo, autonomamente, indipendentemente da te, senza che tu ne abbia il controllo, lasciato a vivere un doppio della tua vita.

Dunque, Il grido. Titolo ginsberghiano, urlo lanciato dal crinale di un’emergenza “di specie”: gli uomini, da sempre in “combattimento” per falsi ideali, ideologie cioè; occupati da fumisterie in perpetue vendemmie di sangue, convinti di essere felici ad andare verso il massacro, esercitati nella più atroce tecnica della tortura e delle mille altre abiezioni, sono richiamati a una fratellanza, sogno titanico leopardiano della Ginestra vulcanica. L’unione dovrebbe essere la cosa più semplice e logica da fare, al fine di creare una “invenzione di specie” per salvare questo pianeta da morte certa. Il problema, però, è tutt’altro che di semplice risoluzione, visto che sono gli stessi uomini a star disintegrando la Terra. Il monito non potrebbe essere dei più seri: tutto sta andando verso la catastrofe, ma anziché fermarci in tempo continuiamo ad autodistruggerci: in tutti i modi che gli uomini conoscono per farlo: guerre, violenze, ma anche inedia, indifferenza, egoismo, solitudine. Mala tempora.

Ma non solo: infatti, siamo vinti dal Male perché biologicamente e teleologicamente condotti a farlo. Il Male è extra-storico: l’uomo è un lupo in mezzo ad altri lupi; a niente valgono le teorie che sono state fatte nel corso della Storia per descrivere e spiegare le dinamiche dei rapporti fra esseri umani: siano esse biologiche (Darwin), economiche (Marx), psicologiche (Freud), cosmologiche (Hawking). Per quanto la nostra scienza possa essere affilata non arriverà mai a conoscere cosa è accaduto un “trilionesimo di secondo” prima del Big Bang. E con questa vertigine metafisica dobbiamo convivere. O meglio: Moresco ci esorta a compiere una “invenzione di specie”, non si sa bene in che modo, ma del resto non possiamo ancora saperlo, altrimenti ci saremmo già riusciti, perché, citando Einstein, «non è possibile risolvere un problema con le stesse modalità di pensiero che l’ha creato».

 

Il grido è la rêverie dello scrittore: dopo un attacco da puro pamphlet sulla tragedia dell’Antropocene e sull’estinzione prossima ventura, condotta con tratti millenaristici, ma anche con meravigliose aperture astronomiche, leopardiane, siderali e dure, la voce narrante “autofinzionale” ci porta a spasso per le strade notturne di una città del Nord, una Milano rarefatta e iperurbana. Man mano che il viaggiatore s’addentra nella notte viene visitato dai cloni, appunto, di celebri nomi della letteratura, della cultura, della filosofia e delle scienze: Hawking, Leopardi, Dostoevskij, Marx, Nietzsche, Freud, Emanuele Severino, Michel Houellebecq, Elvis e molti altri ancora. Ciascuno di loro parla con le parole dei propri libri, parole di saggezza millenaria alle quali Moresco controbatte sempre con le stesse obiezioni, che di fatto ruotano intorno alla impossibilità di conoscere l’istante preciso del Big Bang, la qualità di forze che da vari pensatori sono state riportate all’immanenza dell’uomo e della Storia ma che invece andrebbero viste come innate al sapiens sapiens.

Ben presto la conversazione si trascina in un pisciatoio infame, dove il protagonista e i cloni si radunano e, al cospetto di un Elvis dalla pisciata infinita, il certame si fa sempre più acceso.

Quella che mette in scena Moresco è la notte dell’umanità: il punto più buio e più silenzioso, nel quale soltanto cloni-fantasma possono irrompere nella testa dell’uomo solitario. E benché il senso del ridicolo sia sempre dietro l’angolo è necessario portare rispetto a questo grido dell’Uomo: grido che rimarrà inascoltato come del resto lo sono gli altri migliaia in giro per il mondo, anche adesso. Siamo vittime di distorsioni cognitive, si dice, che c’impediscono di inquadrare il problema e leggerlo con chiarezza. Siamo molto lontani dall’invenzione di specie che auspica Moresco.

 

Già, ma com’è il libro?

È difficile dare un giudizio quando tutto è così condivisibile. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per ogni tesi e antitesi la sola sintesi possibile è che “tutto è spaccato in due” e che serve una “invenzione di specie”. Ripeto così tante volte questa formula perché è quello che accade nel testo: una reiterazione di sintagmi e parole che forse aspira a una sacralità, a una ritualità, ma francamente rischia la monotonia.

Se tutto è “spaccato in due”, se tutto, man mano che ci si avvicina alla ferita appare smosso – così si leggeva in un memorabile reportage dello stesso Moresco, Zingari di merda – e a prevalere sulle ragioni e le irragioni degli uomini è un pianto creaturale, allora la sensazione è che più che un salto di specie dobbiamo accettare l’ineluttabilità. Se tutto è sostanzialmente indecidibile, data la tellurica oscillazione della prossimità delle cose; se man mano che restringiamo il campo, sfoltiamo i dettagli inutili e ci concentriamo sui fondamentali, emerge un comportamento quantico, probabilistico, eventuale, allora non abbiamo speranza né di capire qualcosa né di arrestare la nostra corsa verso lo schianto finale. Forse il problema non è che le idee e le ideologie sono così persistenti da essersi incarnate a tal punto da aver reticolato una cataratta ingannevole, ma al contrario: le idee e le ideologie sono troppo assenti dal nostro orizzonte. Non è una delle vittorie del capitalismo neoliberista aver dato l’impressione che il conflitto non dovesse più esistere? Tutto, vicino all’origine, è smosso e spaccato, certo, ma Trump e Bolsonaro hanno piani molto precisi e rispondono, più che a metafisici impulsi autodistruttivi, a esatti programmi iper-liberisti e iper-capitalistici. Sembra strano, poi, che fra tutti i convocati nell’assemblea notturna manchi proprio Hobbes. Forse il problema di tattica poetica del Grido è nell’aver voluto utilizzare la meccanica quantistica anche per spiegare problemi ai quali si dedica la relatività generale. Il comportamento dell’infinitamente piccolo, anzi, è in netto contrasto (almeno apparente, almeno per ora, in mancanza di una Teoria del Tutto che per adesso non esiste) con l’infinitamente grande.

Se prendo Il grido come una cartografia del presente, come un tentativo di disegnare i profili della nostra impotenza, del nostro – rovesciando lo slogan obamiano – No, we can’t non posso che plaudire alla prosa vulcanica dell’autore, alla sua strana e speciale eleganza nella miseria, alla sua poesia e alla sua meraviglia stellare. Ma mi riesce difficile prendere Il grido per quello che, forse, vorrebbe essere: un accorato appello all’umanità. E non ce la faccio proprio, perché anch’esso, coerentemente con la visione d’insieme del suo autore, è “spaccato” in più fronti e manca della lucidità critica nel separare le cose. Mai Moresco direbbe ch’è necessario separare, che anzi, uno dei mali dell’umanità è proprio questa separazione: ad esempio fra filosofia e letteratura, sorelle siamesi che soltanto l’arroganza degli eruditi potevano scindere l’una dall’altra. Di fronte a un giudizio così insindacabile non è possibile, allora, fare molto. O ci stai o non ci stai.

Mi rendo conto che anch’io sono caduto nella stessa trappola di sempre, anche con Il grido: non so scindere la sostanza dalla forma in cui viene proposta; forse allora quest’ultimo libro è perfetto – ambiguamente perfetto, diciamo – perché qui davvero cosa e sostanza coincidono, perché qui lo stile è aderente alla declamatoria che altrove accompagnava il post della scrittura. Il rischio è quello di trasformare un libro in un immenso auto-libretto d’istruzioni, una guida alla fruizione dell’opera di Antonio Moresco. Non so se questo sia un merito, ma in ogni caso avrei voluto che quelle pagine stellari, quelle dove la potenza della scrittura moreschiana e la sua terribile poesia sono ancora intatte, avessero occupato più spazio.


il gridoAntonio Moresco, Il grido, SEM, Milano 2018, 204 pp. 16,00€


 

Immagine di copertina: AFP/Getty Images (2014)