L’opera poetica di Stefano Carrai si snoda con una grande compattezza tematica e stilistica. Il tema centrale è quello dello scorrere del tempo e della morte (presenza costante ma rimossa nella vita di ognuno) verso cui il poeta mostra una particolare sensibilità. Esso attraversa uniformemente le due principali raccolte poetiche dell’autore qui prese in esame, che erano state precedute, nel 2002, da un gruppo di poesie pubblicate sulla rivista «Caffè Michelangiolo» (alcune delle quali poi confluite, con delle modifiche, nei due lavori successivi).

Il tempo che non muore, raccolta poetica edita da Interlinea nel 2012, presenta già tutti i tratti caratteristici della poesia dell’autore. L’argomento è, come recita chiaramente il titolo, quello del tempo trascorso, che viene costantemente esplorato nei suoi diversi periodi corrispondenti alle cinque sezioni del libro. Si va dai ricordi legati al padre nella prima sezione, certamente la più toccante ed importante del libro (Foglio matricolare), a quelli relativi alla propria infanzia e giovinezza (Ai miei occhi soltanto), ai viaggi di studio e di lavoro nella prima età adulta (Cartoline), alla propria famiglia (quarta sezione, Taccuino familiare), e infine a persone ed episodi particolari che hanno segnato la vita di chi scrive (Aforismi ritmici). È il tema della memoria, della rievocazione di quanto abbiamo avuto di più caro nella nostra vita e che perdura ancora dolorosamente. L’autore dichiara apertamente questa propensione alla rievocazione, e a soffermarsi su quelli che potrebbero essere visti come dettagli minimi dell’esistenza, in una delle più belle poesie della raccolta, Angelus novus: «Non capisco il linguaggio delle stelle | non ho imparato a leggere | le parole del cielo || mi seducono le tracce | i residui | l’abbandono lasciato | passando | dalla grande ala del tempo» (p. 37).

I versi dei componimenti, quasi sempre “a gradino”, potrebbero inizialmente indisporre qualche lettore abituato a impaginazioni più usuali. Tuttavia l’inganno ha breve durata: si tratta solo di un espediente grafico dietro il quale si cela, se solo si riallineano i frammenti, una versificazione tradizionale fatta prevalentemente di settenari, novenari ed endecasillabi dall’accentazione canonica. Tradizionale è anche la cura della sonorità, data da rime e interessanti assonanze a fine verso che, disseminate qua e là, impreziosiscono il dettato: «Ne valeva la pena | ti chiedesti | questa terra di serpi? | Sanguinavi | un geniere ti prese a cavalluccio | tra gli spari» (p. 11); «Cominciò in treno il morso della fame | in baracca | poi | il rancio | era un secchio di bucce di patata | ma fu farsi coraggio | giocare a carte lì accanto alla branda | in cui uno di voi stava morendo (p. 13)».

Si tratta di elementi formali che svolgono la loro funzione in modo misurato, direi quasi pudico, segno della capacità dell’autore (e forse anche del bisogno) di calibrare con raffinatezza l’esposizione di sé e dei propri vissuti autobiografici; del resto la forma diventa, per alcuni poeti, un modo efficace per controllare con eleganza l’espressività dell’io. A questo aspetto contribuisce anche il lessico, sempre chiaro e non di rado vicino al parlato quotidiano, capace di mantenere una presa ferma sulla realtà con riferimenti personali o spazio-temporali precisi e frequenti: «Quante volte mi sono immaginato | l’aeroporto | a Tirana | il nove di settembre» (p. 12); «questi stucchi art decò | da ragazzino | non erano l’eleganza superstite | dell’Italia fascista || il magazzino Duilio Quarantotto | il Bagno Balena | il Bagno Tritone» (p. 23). «Ad Amsterdam | Prinzengracht | quattrocentosettantanove | su all’ultimo piano» (p. 32); «Qui su quest’angolo ho visto Folena | l’ultima volta | una sera di luglio | del millenovecentonovantuno» (p. 48). Da notare poi la quasi totale assenza di punteggiatura, che assieme alla frammentazione grafica dei versi crea un certo contrasto col carattere più tradizionalmente lirico dei componimenti; ma questa assenza quasi non si nota, perché i versi si reggono da soli grazie al loro ritmo interno e alla presenza costante degli elementi sonori che li raccordano – le rime e le assonanze, di cui si diceva, ma anche le varie forme di ripresa anaforica: «E ritrovarti | per caso | a una cena | tra spume di fantasmi | nei miei occhi | nei miei occhi soltanto» (p. 31); «Non sbattere di tacchi | né bandieroni e svastiche | non più…» (p. 45). Anche alcune immagini ed espressioni poi si rifanno alla nostra più alta tradizione novecentesca: penso a Montale (ad esempio quando Carrai parla di momento grandioso, statua mutilata nel giardino, sguardo retrorso) ma anche a Sereni (per una poesia in particolare, bellissima, dedicata al calcio: Virtus Arno) e, forse, a un certo Caproni (in riferimento soprattutto alla poesia Mia madre, così cantabile e rimata: «Primo di maggio del Cinquantatré | a giorni compirai diciassette anni || nel piccolo ritaglio di giornale | la tua fotografia è un francobollo || tra bandiere festanti | ti ha eletta Stellina della pace | un coro di braccianti», p. 53).

Il tempo che non muore è quindi un libro della memoria, in cui l’io poetico ripercorre luoghi, persone, particolari significativi della propria vita lasciando trasparire una malinconia sottile che è segnale di una dolorosa perdita ma anche della possibilità di esperirla, di raccontarla e quindi di elaborarla psichicamente e in qualche modo tollerarla. Ed è anche, più o meno esplicitamente, un libro dedicato al padre (13 componimenti su 41 si riferiscono a lui), figura amata e dolorosamente perduta, ammirata e sempre presente nella mente dell’autore («Ma trent’anni di buio | non bastano a mutarti | in una specie di milite ignoto», p. 20). Una poesia della rievocazione di perdite incise nella carne – «qui la morte non è | solo vuota parvenza di sé stessa | e soglia | varco | confine | passaggio | limitare | non sono delle pure | e semplici metafore | ma un atto vissuto | ancora visibile» (p. 63) –  ma che diventa, forse involontariamente, un inno alla vita che è questa esperienza di legarsi, triste e consolatoria insieme, alle persone, ai luoghi, ai momenti intensamente vissuti.

La traversata del Gobi (Aragno, 2017) è una raccolta che ripropone le soluzioni stilistiche tipiche della precedente, in particolare i versi “a gradino” che rompono graficamente versi canonici, espediente che consente all’autore di scandire più fortemente il ritmo dei versi riuscendo a fare completamente a meno della punteggiatura: «questa lingua infestata | da mille babelici parassiti […] | poi col falso della punteggiatura | cui cerco di sottrarmi quanto posso | segnando coi gradini | le battute della mia partitura» (p. 54). Si tratta di una scelta ben precisa quindi, che risponde ad un’esigenza ritmica e, come vedremo, di purificazione contenutistico-formale. La ‘traversata’ del titolo può essere considerata una metafora dell’esistenza, paragonata, specie nella prima sezione (Da una campagna di scavo), ad una terra desertica («un paese di crete | di crepe | tagli | buche», p. 12) in cui è necessario un miracolo o un’illusione («un inganno dell’occhio») per andare avanti senza lasciarsi sopraffare della desolazione circostante.

Si nota una grande coerenza col libro precedente anche per i temi (lo scorrere del tempo, la morte, i legami umani) e per la capacità propria dell’autore di rievocare con grande intensità emotiva persone più o meno prossime appartenenti al proprio passato: «Per quasi tutta la vita ho avuto | sulla coscienza la sua povertà | poi cerco | così | per curiosità || lo scopro su internét | funzionario del governo in Australia | ha due lauree | ha scritto | libri di economia» (Passeggiata); «Esco | attraverso una piccola folla | in attesa | entro in auto | riparto | incrocio un pullman di turisti | poi sorpasso un trattore || ma non riesco a vedere che il dolore | chiuso nelle parole di Antonino» (Un esame in carcere). Carrai non ha timore di sbilanciarsi sul versante del sentimento e della rievocazione nostalgica, anzi, in qualche modo la rievocazione è anche liberatoria: «Mi dico | basta freni | basta pudori | prova | a intingere un pennello | nel tuo cuore di cinquantotto anni» (Sfida).

I luoghi poi hanno un ruolo importante nella poesia di Carrai, e sono, come già detto, sempre ben definiti anche se presi di scorcio (il piccolo negozio di dischi Vinicio e Nadie, via Filippo Webb, Piazza Maggiore a Bologna, Piazza Mazzini a Viareggio, via dei Serragli ecc.) e diventano dei palcoscenici immaginari in cui tante cose perdute per sempre, trascorsa ormai la giovinezza, riprendono vita per qualche istante. Le poesie sono l’esito di questo scavo, l’azione di una «puntina nel microsolco della memoria», come dice l’autore con una bellissima immagine che si rifà al mondo della musica, caro al poeta perché legato alla gioventù come quello dello sport (in entrambe le raccolte ci sono poesie dedicate alla passione giovanile per la chitarra e al calcio). Ne vengono fuori lacerti di ricordi delicati e struggenti, come ad esempio nella poesia dedicata a Viareggio (Piccola litania), un chiaro omaggio – nel titolo, nel tema e negli aspetti metrici e fonici (in particolare per l’insistenza sulle rime e la cantabilità dei versi brevi) – alla poesia quasi eponima di Caproni (Litania, dedicata però a Genova). Non è un processo facile però quello di rimestare nel passato (un «grattare e un graffiare | da far spillare sangue») anche perché, a volte, il confronto con l’esperienza attuale può essere impari: «Vorrei riavere le false certezze | di quando si giocava | nel polveromelmoso | terreno del campino || invece a grandi tappe mi avvicino | al tempo in cui anch’io | non sarò che un ricordo | nel vivo di altre vite» (Necrologio privato). Il lavoro poetico è un mezzo che l’io ha a disposizione per accettare questa realtà, ricucendo i brandelli dell’identità straniata nel fluire dei ricordi.

La coerenza tematica della poesia di Carrai emerge in modo chiaro anche nel ripresentarsi di alcune figure centrali nella vita dell’autore: quella del padre, che perde simbolicamente una parte di sé per il figlio: «dall’emarginazione ci salvò | l’unico membro che non sia | seppellito con te || la tua gamba amputata | buttata ancora calda | dai guardiani di Schweinfurt | tra i rifiuti | per legge | ti assicurò l’impiego | mi garantì gli studi (Intermittenza)»; quelle della moglie e delle due figlie, descritte ancora una volta con grande tenerezza attraverso il filtro di alcuni ricordi molto precisi, come solo un marito e un genitore amorevole saprebbe fare: «Il tuo nome ha una grazia | rara | in russo | lo sai? | vuol dire cara.» (Mila); «Avevi desiderato ogni specie di piccola creatura | gattino | coniglietto | cagnolino | un pesciolino | un porcellino d’India | perché una più tenera vita entrasse | in casa | si mischiasse con la tua.» (Claudia); infine, quelle di una serie di persone sempre ben tratteggiate, che hanno intersecato in modo significativo la vita del poeta, a dimostrazione dell’attenzione di Carrai alle esistenze singole più che a quelle collettive (donde il carattere, a mio avviso, più propriamente lirico che ‘civile’ della sua poesia, nonostante i riferimenti a vicende storiche drammatiche e i valori sociali che traspaiono da certe narrazioni e descrizioni). Le poesie dedicate ad alcune di queste persone (familiari, letterati, conoscenze varie) ma anche alcuni luoghi (Leida, Amsterdam, Viareggio) ritornano specularmente nelle due raccolte, segno di quella forte continuità tematica di cui si diceva prima e che fanno delle due sillogi l’esito di un dialogo con se stesso ininterrotto nel tempo.

Tornando allo stile, si può notare che i versi spezzati spesso si riducono ad una sola parola, dei veri e propri versicoli di stampo ungarettiano funzionali a scandire meglio il ritmo e il significato delle poesie, e, inoltre, legati all’esigenza dell’autore di depurare la lingua da «sovrastrutture e superfetazioni». C’è poi un richiamo semantico specifico ad Ungaretti in alcune poesie, quella del padre nel passaggio citato, con quel participio – «buttata» – che ricorda il passaggio di Veglia (1915): «Un’intera nottata | buttato vicino | a un compagno | massacrato»; ma anche nella poesia Monumentino partigiano, dove il finale «ma di tanta passione | di tanto coraggio | che altro ci resta | oggi | se non gli anacoluti?» ricorda alcuni celebri versi di San Martino del Carso (1916) «Di queste case | non è rimasto | che qualche brandello di muro || Di tanti | che mi corrispondevano | non è rimasto | neppure tanto». E non è un caso che questi richiami avvengano in corrispondenza delle poesie che parlano del proprio padre, che nella guerra era rimasto tragicamente coinvolto finendo prigioniero in un campo di lavoro tedesco, ferita atavica che ha lasciato i suoi segni anche sul figlio che ne porta la memoria. Per questo, credo, particolarmente intense risultano le poesie incentrate sul ricordo di episodi che si svolgono durante la guerra (in particolare nella sezione Amori d’angeli), nelle quali emerge, senza dichiarazioni troppo esplicite, l’antifascismo autentico e radicato dell’autore, come ad esempio in Stazione di Ferrara: «Passarono di qui | il diciannove ottobre | lo testimonia la targa murata || e della città non seppero nulla | non le strade o il parlare | non il rosso flottare del castello | nella nebbia | ma abbaiare di cani | ordini | grida | saluti romani».

La lingua di Carrai è, anche in questo secondo lavoro, caratterizzata da un lessico piano e da una sintassi che presenta i modi tipici del parlato, come l’uso del ‘che polivalente‘ o degli anacoluti, forse ancora più frequente che nella raccolta precedente. Inoltre, rispetto a Il tempo che non muore si può notare una riduzione delle rime e assonanze e un maggior numero di termini provenienti da altre lingue ma spesso di uso comune, a voler forse rendere ancora più neutro e oggettivo il linguaggio dinnanzi al dolore dei ricordi. È forse una scelta che consente all’autore di controllare ancora meglio il tono emotivo dei componimenti, che tende alla malinconia; ma questa non diventa mai una ‘posa artistica’, essendo una disposizione che ha radici profonde nel Sé di chi scrive («Estrovertermi | estroflettermi | espandermi | non è nella mia natura», p. 24) e nella sua storia, e credo sia per questo che la poesia di Carrai arrivi al lettore sempre forte e diretta, con un numero veramente significativo di componimenti che restano impressi nell’immaginazione per la loro delicatezza e l’originalità delle immagini (Passeggiata, Intermittenza, Lezioni di chitarra, Claudia, Biografie).

Visti gli esiti non posso auspicarmi, come sembra fare Niccolò Scaffai nella sua postfazione, che la poesia di Carrai riparta da una vena più umoristica e comunque diversa, saldati ormai in gran parte i debiti col passato. L’autore infatti, nonostante il fardello del tema centrale dei suoi lavori, riesce a intridere di speranza la propria poesia aiutato in ciò anche dall’avventura di essere padre, che gli consente di potersi perdere nuovamente, pur se in modo diverso rispetto al periodo giovanile, in una dimensione altrettanto ricca dell’esistenza: «Spesso continuare | a vivere dopo la giovinezza | accresce l’esperienza non la gioia | ma io mi sarei perso | quella felicità | a tratti travestita | da noia | di seguirvi nel mulino | a vento della vostra fantasia»  (Impressioni di settembre).

Certo, il tema della morte come prospettiva sempre presente ed esplicita della vita (in agguato, potremmo dire), specie quando si è oltrepassata la soglia della giovinezza, costituisce un elemento di cupezza («Ho la morte tra le dita e non so buttarla via», Cartolina da collezione). Ma l’autore ha un modo di approcciarsi al tema sfaccettato ed equilibrato: da un lato vivo emotivamente, dall’altro espresso in modo sobrio e mai greve. Credo anzi che nell’insistenza su questo tema, forse oggi un po’ negletto anche in letteratura – se non quando lo si tratta in modo spettacolarizzato o umoristico – stia il coraggio dell’arte, che deve sempre provare a nominare e approfondire ciò che sfugge, ciò che tende ad essere dimenticato o emarginato dalla società. Carrai lo fa, a mio avviso, in modo invidiabile, e non si può che sperare possa continuare a sondare gli aspetti più tragici dell’esistere con le sue immagini vive, il suo ritmo sicuro, la sua intelligente ironia (come si può ben vedere nelle poesie dell’ultima sezione, In cauda) e la sua umanità (vedi le brevissime prose, novità interessante del secondo libro), sempre lontana da esibizionismi e concettosità di maniera.