Continua la pubblicazione della serie di articoli dedicati all’esperienza delle giornate poetiche padovane “Convergenze”, tenutesi lo scorso giugno e organizzate in collaborazione con il CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) di Padova.


I:

In un suo libro recente, Futuro, Marc Augé distingue la parola “futuro” da quella di “avvenire”, perché la prima definisce «la vita che si vive individualmente», la seconda riguarda la contingenza dell’avvenimento, e quindi la dimensione sociale dell’individuo, perché dipende dagli altri; e aggiunge: «‘Futuro’ e ‘avvenire’ sono dunque due espressioni della solidarietà essenziale che unisce individuo e società. […] Un avvenire auspicabile per tutti è quello in cui ognuno possa gestire liberamente il suo tempo e dare senso al futuro individualizzando il proprio avvenire». Partendo da questi presupposti, l’etnologo poi distingue le due grandi modalità di rapportarsi con il futuro delle diverse società umane, ossia l’intrigo, che fa del futuro una conseguenza del passato, e l’inaugurazione, che fa del futuro una nascita – e cerca le loro declinazioni e mutamenti nella contemporaneità.

Nella dimensione dell’intrigo, vi è un duplice rapporto con il reale, perché «la messa in intrigo […] pone una domanda alla quale bisogna rispondere […] e che pesa sul futuro»; l’intrigo, infatti, «chiede di essere sciolto», e «la soluzione dell’enigma si orienta prima di tutto verso il passato, anche se pretende di liberare l’avvenire»: si tratta, in pratica, di reinterpretare il passato per immaginare il futuro. Allo stesso tempo, però, Augé mette in guardia: il ruolo del passato è innegabile, ma non si deve farne un attore unico, in quanto elemento dialettico, ma bisogna anche tenere conto «di tutto ciò che, nel rapporto con il tempo, sfugge alla storia […], alla determinazione storica: l’intuizione, la creazione, l’inizio, la volontà o l’incontro». In questo senso, è solo nella prospettiva del futuro che la «messa in intrigo» si scioglierà. A questo punto Augé, dopo aver messo in rilievo che l’epoca delle grandi narrazioni del XX secolo è finita, affonda però un colpo preciso, affermando che viviamo ora in sostanza nell’epoca delle “chiacchiere”, della micro-narrazione personale, del coming out, della confessione, dello scambio di informazioni per di più non sempre esatte. La “chiacchiera” amplificata fino allo sfinimento dai media (e, aggiungo, dai social media della Rete), crea come elemento evenemenziale un annientamento del passato e dunque del senso, che finisce per far apparire terrificante il futuro.

Per quanto riguarda la dimensione dell’inaugurazione, Augé nota che l’interrogarci sulla categoria del “nuovo” comporta anche una domanda sulla libertà: se infatti «si imprigionano gli individui in una totalità intellettualmente vincolante», vi sarà una notevole difficoltà di apparizione del radicalmente nuovo. Ma, al contrario di Sartre, Augé sostiene che da sola la libertà non basta ad assicurare l’apparire del nuovo nella storia, occorre mettere in relazione l’idea di novità e l’idea di libertà all’esistenza umana, in tutte le sue dimensioni (mortale, affettiva, emotiva, temporale ecc.). Qui Augé introduce una nuova distinzione, questa volta tra “evento” e “storia”: partendo dall’analisi dei riti delle tribù primitive, per le quali in genere si impiega la categoria fuorviante di “società senza storia”, l’etnologo asserisce che il rito da un lato è fedele al passato, in quanto deve riprodurre un preciso rituale, dall’altro si rivolge al futuro, nel senso che l’emozione legata alla celebrazione deriverebbe dal fatto che il rituale sia davvero riuscito far nascere qualcosa di nuovo. Infatti, Augé conclude dicendo che «l’inizio è la finalità del rito» (perché «l’inizio non è la ripetizione», e nel termine “ri-cominciare” l’attenzione si focalizza infatti sul verbo “cominciare”, non sul prefisso), e che l’arte, contro l’usura e la noia del tempo e dell’invecchiamento, è sempre l’occasione di vivere un inizio.

II:

È interessante notare l’ottica che Marc Augé suggerisce, e che trovo assai fruttuosa per la questione che riguarda oggi a mio avviso la poesia; e si noti: l’ottica di un etnologo, non di un “letterato”, e questa per me non è una scelta casuale, perché ritengo che oggi molta dell’elaborazione critica si sia fossilizzata su questioni e su termini piuttosto desueti, incapaci di cogliere il magma che si sta muovendo sotto la crosta del “va tutto bene, come sempre c’è la lirica, c’è la poesia di ricerca, c’è la spoken poetry” – e infatti per esempio i recenti studi di Alberto Casadei e Niccolò Scaffai cercano di introdurre davvero delle categorie critiche nuove, ibride, se non altro perché se si legge il nuovo con le vecchie categorie non lo si vede affatto e non certo come nuovo, ma solo come anticipazione o conferma di ciò che l’onda evenemenziale della postmodernità fa spiaggiare quotidianamente sulle nostre scrivanie o sui nostri schermi.

L’ottica di Augé, in definitiva, suggerisce che c’è bisogno del futuro per definire la dimensione dell’intrigo, e c’è bisogno del passato per definire la dimensione dell’inaugurazione; quello che vuole dirci, in realtà, è che per l’arte sono necessarie le due prospettive concomitanti, e del resto la nozione di tradizione porta con sé il concetto di trasmissione e di tradimento assieme. Se portiamo queste riflessioni nell’ambito della poesia (Augé non a caso nel suo saggio cita moltissimo Baudelaire) – che a mio avviso ha e avrà sempre il privilegio di essere un’arte libera, perché svincolata costitutivamente da questioni economiche – se portiamo queste riflessioni nell’ambito della poesia il problema in cui ci si imbatte è il concetto di storia, che ha cambiato paradigma, o per meglio dire è esploso. Il concetto di storia attuale riguarda da vicino specialmente la poesia, come nuova sfida, in grado di far produrre ancora una poesia che resti, e che non sia meramente evenemenziale, e che allo stesso tempo sia davvero nuova.

La nostra età sembra di fatto non avere più storia non tanto perché è l’età del riuso, ma perché la tecnologia informatica ha reso tutto eterno, memorizzabile, archiviabile: in pratica, non produce più rovine. Perfino i morti rimangono ancora in rete nei Social.  Ma la rovina è essenziale perché, dice ancora Marc Augé nel saggio Rovine e macerie. Il senso del tempo, «il paesaggio delle rovine, che non riproduce integralmente alcun passato e allude intellettualmente a una molteplicità di passati, in qualche modo doppiamente metonimico, offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un’attualità massiccia, ma gratuita. Conferisce alla natura un segno temporale e la natura, a sua volta, finisce col destoricizzarlo traendolo verso l’atemporale». Ora, è precisamente la mancanza di rovine, cioè di storia, a far ripiegare, a volte anche appiattire, molta poesia contemporanea solo sull’esperienza (cioè sul dato evenemenziale), condannandola così prima di tutto all’impossibilità del deporsi come strato geologico su cui si fonda il pianeta intero della conoscenza. Una poesia senza storia è destinata ad essere anche senza memoria di sé stessa, addirittura e in prima istanza anche come semplice riuso ravvicinato.

Serge Gruzinski, nel suo recente saggio Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, propone una soluzione interessante: in un mondo globalizzato ma solo apparentemente omologato, guardando più da vicino la realtà dei fatti, si scorgono elementi non riconducibili a reti storiche istituzionali, ma fattori che vanno a costituire altre reti, a colmare vuoti e silenzi secolari, quindi del tutto attuali. Per certi versi, quindi tutta la storia è ancora da riscrivere. Questo paradigma nuovo di una storia globale, o glocale, o geostoria planetaria, a mio avviso può essere fruttuoso anche nell’ambito del poetico. Perché appunto non usa più parametri poetici per rapportarsi alla poesia, sia che la si scriva, sia che la si legga, sia che la si studi. Le vicende storiche del dopoguerra sono state pacifiche per le generazioni precedenti alla mia e per quelle venute dopo, e quindi apparentemente non abbiamo subito traumi, se non quelli tramandatici per via genetica da nonni o genitori. E in realtà, tutta la violenza del mondo fuori dall’Europa non ci può toccare, in quanto Europei nati in tempo di pace, anche se alcuni poeti affermano il contrario: semplicemente, non ne abbiamo davvero fatto esperienza. Non sarà certo il crollo virtuale delle Torri Gemelle a provocarci un trauma reale: abbiamo visto delle immagini in diretta, che a tutti noi sono apparse per prima cosa un film orrendo. Ed ecco, invece, la parola chiave che connota ora più che mai in maniera sotterranea la poesia oggi è proprio trauma. Notoriamente, la condizione del trauma non afferisce tanto al fatto violento e inaspettato in sé, ma alla sua interpretazione, o risemantizzazione, che ha sia una valenza collettiva che una valenza individuale. Per essere riconosciuto come traumatico, l’evento accaduto deve aver portato un cambiamento nella percezione della realtà. Tirando le fila dei discorsi precedenti, il trauma, più o meno inconscio, espresso nello stile dalla migliore poesia contemporanea (laddove la lingua, dal lessico alla sintassi, sia cioè “spaesante”, per non dire proprio “distopica”, quindi ancora una volta altro rispetto al linguaggio comune), è riconducibile al concetto di assenza/vuoto/oblio/rimozione: noi calpestiamo e viviamo su di un “paesaggio contaminato” (mi riferisco al bel saggio di Martin Pollack), infettato da secoli di orrendi crimini culminati nel XX secolo; siamo reduci da una storia che più che un tessuto continuo, sembra un colabrodo di omissioni e silenzi; ci rifugiamo nell’evenemenzialità dell’esperienza, pensando che questo realismo sia davvero funzionale a spiegare il mondo nell’unico modo che si ritiene ormai possibile. In tutto ciò, si è collaborazionisti con il potere e la sua mercificazione globale.

Mi chiedo, e qui lascio aperta la questione, se invece ai più attenti ai segni del trauma non spetti il compito di riscrivere davvero la storia, tutta la storia, e proprio nell’accezione a cui faceva riferimento Andrea Zanzotto, a patto che, in quanto chierici, i poeti non tradiscano ancora una volta il loro compito, ossia quello di essere autonomi rispetto al potere politico e religioso, e aggiungo, culturale. Citavo Julien Benda non a caso: a mio avviso il problema oggi è proprio chi vogliamo essere, in quanto poeti. Personalmente, ritengo profondamente vere queste parole: il chierico è una «figura di intellettuale che si tiene in disparte, che non esita a dire la verità al potere, uomo scontroso, facondo e iracondo, dotato di straordinario coraggio, per il quale nessun potere incute così soggezione ed è così immenso da non dover essere sottoposto a critiche e inchiodato alle proprie responsabilità». Questa è una scommessa per cui vale la pena essere poeti, oggi.

Immagine: Per Kirkeby, Senza titolo, tempera su tela, 2005.