Continua la pubblicazione della serie di articoli dedicati all’esperienza delle giornate poetiche padovane “Convergenze”, tenutesi lo scorso giugno e organizzate in collaborazione con il CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) di Padova.


Più o meno a cavallo del 1990, i mutamenti che nel volgere di qualche decennio avevano cambiato aspetto ai centri urbani del Veneto sembravano aver infuso nelle comuni abitudini percettive una propensione altrettanto rapida all’assorbimento, quasi imponendo una sorta di distratta e pacata assuefazione. Dati spesso indecifrabili e tra loro contraddittori andavano sommandosi gli uni agli altri in stratigrafie che producevano un tessuto vivente, e verbale, sempre più labile. Di quelle discrasie tra il presente di allora (anni Ottanta e Novanta) e il passato ancora prossimo, Igor De Marchi e Sebastiano Gatto offrirono con i loro versi un metodo d’indagine privilegiato, in grado di agire all’interno del paesaggio come un indicatore di memoria.

In Resoconto su reddito e salute (Portogruaro, Nuova Dimensione 2003), il secondo libro di poesia di Igor De Marchi (Vittorio Veneto, 1971), le sortite in direzioni di temi «alti» non dimenticano mai il contingente, il prosaico “qui” da cui muovono; neppure la melodia del dialetto riesce a raddolcire «il male non ammortizzabile» (p. 52), la desolazione di uno sviluppo baldanzoso e devastante. Il suo è un realismo che nasce dal disincanto di una individuale e dolorosa iniziazione al Vero (si consideri la ripresa dall’Adelchi: «Hanno ragione loro: / non rimane che far torto o patirlo» [p. 73]), ma anche dall’amore per le cose e per le persone che traspare nella cifra corale del libro, nell’attenzione portata a ogni aspetto della vita quotidiana:

Zeleste
Portava in giro la sua Cinquecento
senza il sedile per il passeggero.
Per me mia madre c’è salita
con le doglie per andar su
a furia di doppiette all’ospedale.
Quello spazio in realtà serviva
a portare le bombole del gas:
funzionavano così i fornelli
di tutte le cucine del paese
prima dell’allacciamento
facoltativo del metano.
Questo era il suo primo lavoro.
Occupava il resto del tempo
Con poche vacche da macello:
rituale collettivo
le sere nel retrobottega.

Quando avevi bisogno di lui
Potevi trovarlo che custodiva,
ancora con mestiere e passione,
la sua stalla –
prima di finire
dentro al canale di irrigazione
aggrappato al suo vitello. (p. 43)

In Resoconto, De Marchi tenta il dialetto (nel suo caso, l’alto trevigiano) in più di un’occasione; ed il rifacimento in lingua del testo originario prende corpo secondo un procedurale già collaudato da altri: la sostituzione sistematica di termini concreti e domestici con voci italiane letterarie e astratte. Alcuni esempi: tirar i òci ‘acuire la vista’, tuta sta vita che bala e che casca ‘tutta questa vita che traballa e si sfila’, pèrsego cru ‘pesca acerba’. Quando a una forma unica del dialetto corrispondono in italiano due sinonimi, l’uno uguale l’altro diverso da quella, l’auto-traduzione di De Marchi tende insomma a privilegiare questo secondo, con un atteggiamento non dissimile da quello che detta il fenomeno dell’ipercorrezione, illustrato da Mengaldo1.

Sono presenti poi idiotismi ulteriori: su tutti, le espressioni verbali perifrastiche, del tipo verbo (semplice) + avverbio (‘su’, ‘giù’, ‘fuori’, ‘dietro’ ecc.); forme, queste, non solo comunissime nei vari italiani regionali, ma anche nell’italiano sub-standard. Alcuni esempi: Son ’ndat fòra ‘sono uscito’, fae fadiga ‘fatico’, ciapar sòn ‘addormentarmi’, smontar do ‘scendere’. De Marchi insomma, nel tradursi evade spesso verso soluzioni formali o letterarie, generalmente più intellettualizzate.

Tutto ciò non deve però trarre in inganno: il rischio della parola retorica e oziosa, che riduca o azzeri la carica elettrica della voce o espressione dialettale, è abilmente sventato. Per quanto riguarda infatti la produzione in lingua, l’italiano di De Marchi è fittamente incistato di specialismi afferenti a branche di sapere tra loro molto lontane, termini rari e obsoleti, regionalismi culti et cetera. Eccone alcuni lemmi: Rèdola (p. 21), toscano e letterario (un’occorrenza in Maia di D’Annunzio): ‘viottolo erboso fra i campi’. Debraglio (p. 23), deverbale di debraiare (un’occorrenza in Pomo pero di Meneghello): ‘frizione di macchina automobile, disinnesco’. Bisarca (p. 23); ‘autoarticolato a due piani’. Balzana (p. 33, antico settentrionale): ‘risvolto dei calzoni’. Melina (p. 41) (‘fare la melina’: nel gioco del calcio, ‘trattenere la palla al limite dei modi consentiti’): ‘traccheggiare’. Scavezzati (p. 74), da scavezzare, variante di scapezzare: ‘tagliare o rompere la cima degli alberi’; nell’uso veneto col significato di ‘spezzare l’osso del collo’.
Infine, il consapevole utilizzo di un decorso logico della frase sottilmente non ortodosso, di una minuzia ritmica anti-melodica, rallenta su di sé la lettura e scolpisce ogni parola nel suo senso più proprio; un esempio significativo, lo splendido distico «gli manca il fiato a dar di muso / contro il cavo della terra» (p. 41).

In Sebastiano Gatto (Venezia, 1975), la coscienza dell’estraneità è una scoperta graduale. In Padre vostro, il libro d’esordio (Udine, Campanotto 2000), partendo da una meticolosa descrizione del paesaggio che lo circonda e dei suoi aspetti più marginali, il poeta giunge, attraverso una rammemorazione intermittente di gesti antichi e desueti, ad accertare l’avvenuto svuotamento del sacro:

Non è per tentare
che vado o rimango appresso
a lingua e mestiere non miei. 
È per il conforto
di confrontarmi con quel che sarei
stato se fossi stato diverso.
Chissà se un defunto sussiste
nell’occorrenza di devozioni. (p. 63)

Il linguaggio in effetti sconta la divergenza del terzo verso («lingua e mestiere non miei») e offre, a parziale risarcimento, un florilegio di termini seletti, talora specialistici, alternati a un lessico vernacolare spesso altrettanto tecnico, che s’innesta nella trama con indifferenza soltanto apparente. In altre parole, dati in italiano due sinonimi, ancorché riconducibili a varietà diverse (diatopiche, diacroniche e diastratiche), Gatto, al contrario di quanto avviene per le auto-traduzioni dei dialettali (e di De Marchi), sceglie per i propri componimenti (in lingua, sempre) quello che meglio corrisponde alla parola in dialetto.

Per una maggiore intelligenza del testo, un glossario ragionato chiude il volume; vi si legge tra l’altro: Falive e favolesca ‘corpuscoli volatili di carta, frasche o altro bruciati e alzati dal vento’, la cui direzione vaticìna, in occasione del Panevìn (il falò che ha luogo la vigilia dell’Epifania), la scarsità o l’abbondanza dei raccolti nell’anno a venire. Barco ‘ricovero degli attrezzi’. Tèsa ‘fienile posto sopra la stalla’. A squara ‘ad angolo retto’. Stonfi ‘inzuppati’. Musina ‘salvadanaio’. Piova ‘pioggia’. Trosi ‘tracce di passaggi che, iterati, rimangono permanenti nel territorio’. Trame ‘spazio pedonale o carraio lungo il perimetro dei campi e degli argini dei fossi’. Gombina ‘striscia di terreno con superficie baulata, fiancheggiata su entrambi i lati maggiori da due solchi destinati a smaltire l’acqua piovana o a permettere l’irrigazione’.

Sul versante più strettamente espressivo, i repentini salti di cadenza, le collisioni sillabiche, le incalzanti paronomàsie (del tipo «il conforto di confrontarmi»), i nessi fonetici che si aggrumano e stridono l’uno contro l’altro, restituiscono l’effetto sonoro di una ineliminabile stonatura, la cui metafora alligna forse nella «posatura imperfetta» dalla quale il libro prende avvio:

Una delle piastrelle canta
da vuoto. Sottratto a chi di diritto,
alle ore del vero lavoro, questo
lavoro è comunque riuscito.
Solo un tacco scoperto, un oggetto
caduto risvegliano a tratti
gli angoli sordi
[…]
La posatura imperfetta
tiene un crepo in sospeso. 

Sotto l’alta guida di Pascoli, Padre vostro rappresenta un buon esempio di commistione di «sublime d’en haut » e di «sublime d’en bas», nella direzione di quella «lingua che più non si sa», di quello scarto sistematico dalla norma che, in Gatto, oltre che a una posizione di soggettivismo critico verso il mondo contemporaneo, risponde anche a un bisogno espressivo autenticamente avvertito.

Nei libri di De Marchi e Gatto, attrezzi da lavoro dismessi, scorie di materiali edilizi, laminati, stoppa, insieme con le parole che un tempo ne permettevano la pronuncia, affiorano come testimoni silenti di un ordine del mondo millenario, superato e sommerso nel volgere di pochi anni. Come nella reminiscenza kafkiana occorsa in Padre vostro, «il secchio è vuoto / la pala inutile» (p. 51): se mai si poteva offrire una qualche forma di risarcimento, nei termini di una rappresentazione documentaria di quanto restava, essa poté forse inverarsi grazie alla pronuncia della poesia.


1 Cfr. P.V. Mengaldo, Come si traducono i poeti dialettali?, «Lingua e stile», XLVII, dicembre 2012.