Alta Fedeltà ritorna con la musica di questo secondo trimestre del 2018. Come sempre, la ciurma e i suoi collaboratori vi propongono una serie di consigli variegati per un ascolto multi-stile che possa coprire ogni esigenza musicale: dalla coda in tangenziale alle cuffie in spiaggia, dal soggiorno confortevole alla piccola tenda sperduta nella natura.

Buon ascolto!


 

Beach House, (Marco Longo)

A quasi tre anni dai gemelli separati Depression Cherry e Thank you lucky stars, i Beach House tornano sulle scene con uno dei migliori dischi della loro folta produzione. Il titolo, 7, non indica solamente il totale degli album del duo di Baltimora ma racchiude un significato più esoterico, quello della perfezione e della realizzazione del magico nel quotidiano, associato geometricamente a quel cerchio tanto caro ai musicofili. E come può essere descritta meglio se non come pura magia l’intesa ultradecennale tra Victoria Legrand e Alex Scally? Ascoltando la bellissima Lemon Glow è difficile pensare che i Beach House possano migliorarsi se non cambiando genere.

Diciamo anche che, al netto degli evidenti cambiamenti che rendono 7 il loro disco più riuscito dai tempi di Bloom, i detrattori del gruppo difficilmente cambieranno idea, visto che la loro impronta sognante ed eterea rimane inalterata, malgrado le batterie più movimentate, gli arpeggi elettronici preferiti alla sei corde. Ma forse è proprio la fedeltà alla loro “magia” primordiale il punto di forza dei Beach House: ascoltando canzoni come Dark SpringDive o Black Car, basta chiudere gli occhi e si ritorna subito in quel luogo accogliente ma misterioso che è la loro casa sulla spiaggia. Potrete vederli dal vivo nella loro tappa torinese al Club to Club.

Kamasi Washington, Heaven and Earth e John Coltrane, Both Directions at Once. The Lost Album (Michele Turazzi)

Gli ultimi dieci giorni di giugno si sono rivelati un inaspettato El Dorado jazz. Sono infatti usciti in rapida successione il nuovo, monumentale lp di Kamasi Washington (Heaven and Earth, 22 giugno) e “l’album perduto” di John Coltrane (Both Directions at Once, 29 giugno).

Kamasi Washington non è un sassofonista qualunque, è l’artista che – primo dopo Miles Davis – ha fatto uscire il jazz dai polverosi musei dove si era autoconfinato, per offrirlo di nuovo al grande pubblico, quello dei festival e dei palazzetti. Ora, tre anni dopo il grande successo di The Epic, Kamasi ci dimostra che la strada che ha tracciato continua a essere percorribile: Heaven and Earth è un doppio album di contaminazioni feroci – dal beebop di Freddie Hubbard ai film di Bruce Lee – che non cessa di ampliare i confini della parola “jazz”.

Per John Coltrane, invece, non servono presentazioni. Fino a poco tempo fa si pensava che del più grande sassofonista di tutti i tempi fosse stato pubblicato qualsiasi ansito, dal live registrato con mezzi di fortuna nel peggior caveau newyorkese alle infinite e infinite varianti dello stesso materiale. Invece è saltato fuori questo gioiellino: una nuova sessione che comprende, tra le altre cose, due brani totalmente inediti e l’unica versione in studio di un pezzo suonato esclusivamente dal vivo (One Up One Down). La band è quella classica (McCoy Tyner, Jimmy Garrison, Elvin Jones), l’anno il 1963 (diciotto mesi più tardi la stessa formazione avrebbe dato vita a A Love Supreme, il punto più alto mai raggiunto da Coltrane), gli studi di registrazioni quelli mitologici di Rudy Van Gelder. Insomma, Coltrane al cento per cento.

A Perfect Circle, Eat The Elephant (Davide Saini)

Non stiamo neanche a sottolineare da quanti anni si aspettava un nuovo album degli A Perfect Circle. Sembra però interessante dire che, dopo averlo ascoltato, il primo commento che sorge spontaneo è: non ce n’è più di musica così. Non con questo intendendo sia roba vecchia, ma nel senso della vibrazione: una maestosità che ricorda la migliore tradizione rock e prog rock, con testi capaci di mixare Douglas Adams e contenuti da far impallidire l’Apocalisse. James Keenan Maynard e Billy Howerdel, supportati da musicisti di tutto rispetto di cui vale la pena citare almeno James Iha (già chitarra degli Smashing Pumpkins), ci regalano un disco di rock adulto e vibrante in cui la cupezza, la critica sociale e le sperimentazioni musicali non sempre suonano in sintonia, ma che complessivamente è un grande album, un album come non se ne fanno più.

Justin Timberlake, Man of the wood (Giacomo Raccis)

A che punto il pop, da specifico e legittimo genere musicale, si trasforma e diventa quella melassa indistinta che si spande per la gran parte dei palinsesti delle radio commerciali? Nel punto in cui si leva la voce falsetta e sbarazzina di Justin Timberlake, che da una vita corre lungo una linea invisibile, dimostrando, grazie a un insospettabile senso dell’equilibrio, di saper conservare una dignità musicale non da poco. E questo Man of the wood sta lì a dimostrarlo. Inutile tentare di ragionare su arrangiamenti, soluzioni vocali o altre formalità da critica musicale, Justin piace perché ha conservato l’irriverenza dolce dei tempi degli NSYNC, ma l’ha portata a maturità confrontandola di volta in volta con generi, stili e umori diversi e l’ha trasformata in un groove che non lascia indifferenti. Un disco in cui si balla, questo, e in tutte le salse: dal funky di Midsummer Night Jam all’elettro-rap di Supplies, fino al singolo in rotazione dappertutto in queste settimane, vero apice dell’album, Say something, insieme a quel tamarro di Chris Stapleton.
[Si noti il video prodotto in collaborazione con La Blogothèque, a certificare anche il riconoscimento da parte della sfera indie-hipster.]

 

Sleep – The Sciences (Paolo Caloni)

Come se il Messia ti inviasse un messaggino dieci minuti prima della Parusia e tu fossi ancora con la bocca impastata dagli oppiacei e non sapessi bene cosa provare, sentendoti in colpa per il casino in casa, ma anche provando soddisfazione per l’approssimarsi certo della redenzione. È stata un po’ questa la reazione che ha suscitato l’annuncio online dell’imminente pubblicazione del nuovo disco degli Sleep, nel torpore che precedeva la mezzanotte del 20 aprile. Sono infatti passati 15 anni dal seminale Dopesmoker (la versione integrale di Jerusalem del 1998, quindi in totale sono 20 anni di attesa) e il mondo è cambiato parecchio. Matt Pike e soci sono tornati da mestieranti di altissimo livello e suonano esattamente come gli Sleep dovrebbero suonare in questi tempi turbolenti: non stravolgono e non innovano, ma regalano un disco, The Sciences, godibilissimo e, considerato il genere, molto accessibile.

Se il riff portante Marijuanaut’s Theme introduce direttamente al moto ricorsivo delle onde contro la scogliera, le bellissime Sonic Titan (pezzo in circolazione da anni) e Giza Butler (il genio al lavoro) sono già dei classici che tramandano l’insegnamento del Sabba Nero, di cui a volte pare di risentire in poche note intere discografie. Antarctica’s Thawed è un lungo e pesantissimo cingolato, mentre la conclusiva The Botanist fluisce rapidamente grazie alle notevoli proprietà psicomimetiche. L’andamento del disco è pachidermico senza essere asfittico, alternando con sapienza le sfuriate metal agli svarioni stellari; anche il cantato di Al Cisneros accompagna salmodiando la liturgia solenne, senza strafare. In una scena affollatissima come quella dello stoner doom, piena di gemme e di adoratori del riff, gli Sleep ricordano a tutti da dove si viene e dove si va.

Nine Inch Nails, Bad Witch (Massimo Cotugno)

Trent’anni sulla scena e uno spirito inalterato. Quello di Trent Reznor e soci è uno di quegli esempi di totale abnegazione alla propria concezione artistica, merce rara di questi tempi. C’è qualcosa di liturgico nella produzione e nell’attitudine dei Nine Inch Nails, che attraversano le decadi assorbendo i mutamenti sonori e rimasticandoli senza perdere un grammo della loro granitica identità. Merito di un frontman dal talento immenso e interessato a produrre unicamente musica – a detta sua – che non venga dimenticata dopo un ascolto distratto, ma scavi nel profondo, con quelle disumane unghie lunghe nove pollici. Così nasce Bad Witch, ultimo lavoro che chiude un ideale trittico con i precedenti Hesitation Marks e Add Violence. Si tratta di un EP breve quanto intenso, dove Reznor ci accompagna in un tour attraverso l’estremo scenario, a osservare le splendide macerie dell’umanità che fu. Tra brani quasi del tutto strumentali e pezzi più tirati che ricordano i NIN dei tempi della collaborazione con David Lynch per Lost Highways, ci viene mostrata l’architettura affascinante – e squisitamente cyberpunk – della fine, o forse dell’ennesimo mutamento. Come accade anche al suono dei NIN, che, pur restando estremamente riconoscibile, si dota di elementi inediti, vedi un cupo sassofono, giunto direttamente dalla metropoli di Blade Runner.