Questa intervista è avvenuta attraverso alcuni scambi di mail e si è svolta in due fasi: nell’ottobre-novembre 2015 (in vista del convegno perugino su letteratura e crisi al quale ho partecipato con un intervento su Personaggi precari) e nell’aprile 2018. L’argomento principale dell’intervista è il progetto al quale Santoni ha lavorato per più di un decennio. Pubblicata per tre volte (2007, 2013, 2017) Personaggi precari è un’opera sperimentale che rientra all’interno della nuova letteratura sul lavoro (letteratura che fatti salvi alcuni notevoli precedenti esplode in Italia nei primi anni Zero). Personaggi precari fa della precarietà una condizione esistenziale, generazionale, emotiva. In un catalogo potenzialmente infinito di ritratti minimi lasciati allo stato di abbozzo, di macchia e di traccia neutra, l’autore cerca di esprimere uno stato psichico diffuso. Uno stato psichico apparentemente familiare e in verità straniante e inquietante. Pulsazioni grottesche, apparizioni fantasmagoriche, spot, evocazioni, spazi bianchi: i personaggi di Santoni sono relitti incorporei, sfigurati, fulminati, congelati; sono dettagli accumulati, desolati, superfici. Sono personaggi in lutto che hanno perso ogni coordinata temporale e spaziale, che hanno perso spessore e identità. Attraverso questo mosaico di insignificanze, l’autore intercetta a mio avviso uno dei punti decisivi della trasformazione del mondo del lavoro occidentale nell’era globale, e cioè il legame tra la precarietà dell’esistenza (dettata, sullo sfondo, dalla crisi del lavoro) e la frantumazione psicofisica della persona e dei suoi riferimenti culturali e ideologici.

Nel 2015 ti avevo chiesto a che cosa stavi lavorando e se avevi in mente qualche nuovo progetto letterario. Mi avevi detto che stavi lavorando a un romanzo fantastico, ambientato nel presente, e ad altri due progetti più laterali e ancora in fase di abbozzo. Cosa risponderesti oggi? Che rapporto c’è, ad esempio, tra i personaggi precari e questo nuovo romanzo, L’impero del sogno (2017)? Che cosa sono diventati i tuoi progetti embrionali e laterali?

rgbMi rallegro della mia affidabilità rispetto agli obiettivi che mi ero dato e ai tempi che calcolavo per essi. Quel “romanzo di ambientazione contemporanea” era La stanza profonda, che è uscito poi nella primavera del 2017 e ha avuto un bel successo, il “romanzo fantastico” era L’impero del sogno, fresco di stampa, e quei progetti laterali ed embrionali (mi rallegra anche vedere quanto ero cauto, cosa sempre opportuna in editoria) sono i libri a cui sto lavorando. O meglio, il libro a cui sto lavorando, perché chiusa quella macronarrazione di cui i suddetti due libri erano le ultime parti, oggi urge stringere sul grande romanzo a cui lavoro dal 2012, tant’è che ho rimandato a dopo di esso le altre due cose che ho in ballo – un piccolo saggio sulla scrittura per minimum fax e un altro “ibrido” per Laterza – onde dedicare a questo libro così grosso tutta l’energia che occorre, ovvero… tutta.

Non so quanto possa esservi un legame tra i personaggi precari e L’impero del sogno: come spiegavo a Zandomeneghi in questa intervista, L’impero del sogno, pur essendo forse il libro più “leggero” della mia produzione, svolge un ruolo importante, e molto preciso, quello di ponte tra l’incursione nel fantastico costituita dai due Terra ignota e il mio filone principale, e realistico, quello che da Personaggi precari prende una prima forma romanzesca negli Interessi in comune, continua con Se fossi fuoco arderei Firenze, che con P.p. ha più di un legame, per poi distendersi, oltre che in novelle come Tutti i ragni e Emma & Cleo, nei due romanzi ibridi –  e “gemelli” – Muro di casse e La stanza profonda. Ma, appunto, dovendo fare da ponte tra queste due linee, e costituendo P.p. forse il rappresentante più estremo e meno narrativo di quest’ultima, i legami con un libro invece interamente guidato da trama e ambientazione, poiché sostanzialmente “avventuroso” come è L’impero del sogno, sono minimi, se non forse nella condizione esistenziale che vive, a inizio libro, il protagonista Melani, con la differenza però che Melani è pienamente consapevole della propria condizione di disadattato e anzi a volte lascia intendere di rivendicarla con orgoglio, in opposizione a una società che non gli offre niente, e certamente non la possibilità di costruire un “sé” soddisfacente.

 Stai ancora lavorando a P.p.? Lo ritieni un progetto finito o al contrario interminabile?

Quando è uscito il volume ampliato presso Voland, nel 2013, ho dichiarato concluso il progetto. Se il volume del 2007 uscito per RGB in seguito alla vittoria del premio Scrittomisto non era che un embrione, poiché una parte significativa dei “personaggi”, direi un po’ più della metà, sono stati scritti tra il 2008 e il 2012, quello uscito per Voland, al contrario raccoglie una selezione che, sebbene quantitativamente ridotta – cinquecento “personaggi” su una produzione complessiva di circa settemila – mi è sembrata al momento della compilazione, e mi sembra tuttora, esaustiva rispetto agli scopi del progetto.

È vero che c’è stata una sorta di piccola appendice, uscita nel volume 64 di «Nuova Prosa» curato da Gilda Policastro, e che a volte mi scopro ad appuntare sul cellulare o sul taccuino un “Pp”, ma da quando è uscito quel volume ho smesso di tenere un faldone, anche mentale, aperto permanentemente sui Personaggi, e dunque il progetto può al momento dirsi concluso, sebbene la sua stessa natura, il fatto di avere infiniti “punti d’entrata”, renda possibili eventuali future riaperture. In questo momento non sta avvenendo, il romanzone mi prende tutte le energie, tant’è che non sto portando avanti neanche 999 rooms, e sì che di materiale in bozze ne avrei anche.

Personaggi precari VolandCosa aggiungeresti oggi dopo la riedizione Voland del 2017? Hai aggiunto dei personaggi?

Nella versione del 2017 ci sono effettivamente una ventina di personaggi nuovi, ma solo perché nel frattempo mi erano state chieste altre selezioni da riviste come «Linus» o Le parole e le cose e ne avevo approfittato per far uscire dagli appunti ancora qualche personaggio. Ma, appunto, per quanto siano integrazioni che mi piacciono, non le reputo sostanziali e non mi pare che traccino tra il libro del 2017 e quello del 2013 differenze paragonabili a quelle tra quest’ultimo e il primo, del 2007.

Quando due anni fa ti avevo chiesto se eri soddisfatto della ricezione di P.p. mi avevi risposto che l’attenzione critica era stata sufficiente a permetterti di pubblicare il libro successivo con un grande editore (Gli interessi in comune, Feltrinelli 2008). Mi avevi anche spiegato che la riedizione del 2013 era stata fortemente voluta da Raoul Bruni – postfatore dell’edizione Voland – e che diversamente dalla prima aveva ricevuto riscontri entusiasti su vari quotidiani e blog letterari. Bruni ha avuto pienamente ragione e tu stesso hai ammesso che la riedizione è un’opera diversa, più matura, più ricercata, frutto di un lavoro che prevedeva anche un giro di editing e revisione su Nazione indiana; un lavoro durato circa nove anni. Ora, alla luce delle varie edizioni dell’opera, mi domando se tra i P.p. non ci sia un personaggio più precario degli altri, voglio dire, ritornante, “protagonista”, etc. A me sembra di no ma mi pareva una possibilità. Hai mai pensato di crearlo?

Premesso che una ricorsività lo renderebbe meno precario, dato che alla precarietà dei miei Personaggi concorre anche il loro essere atomizzati, fuori da una narrazione e dunque dalla possibilità della storia, foss’anche solo quella privata, nel progetto ci sono tre o quattro figure ricorrenti. Gli Iacopo e i Vasilij, che sono due tipi diversi di miei alter ego, e anche qualche altra figura che mi sono divertito a far tornare. In nessuno di questi casi però ho calcato troppo la mano, rendendo troppo manifesto il “ritorno” o dandogli un significato diverso e ulteriore rispetto alla semplice – e casuale – ricomparsa: è bene che si perda comunque nella folla, poiché la narrazione di Personaggi precari si basa specificamente sulla forma anarrativa della costellazione umana che va a comporre.

Perché non hai messo i “cognomi” e hai chiamato tutti per nome?

Quando ho cominciato il progetto non tutte le intenzioni erano chiare, navigavo a vista. In realtà nella vita di uno scrittore si comincia sempre navigando a vista, poi quando si fa un minimo di esperienza si comincia a credere di progettare, e infine, quando di esperienza se ne è accumulata abbastanza, si realizza di star comunque navigando a vista, solo con una sala macchine un po’ meno approssimativa. La decisione di dare solo il nome ai Personaggi (con qualche eccezione là dove si rendeva necessario un dato aggiuntivo di collocazione storica, geografica o sociale che poteva essere fornito tramite la specificazione del cognome) è dunque venuta per caso, sebbene oggi sia evidente che si tratta di una caratteristica cruciale del progetto, poiché proprio in virtù di ciò i personaggi mantengono un indispensabile grado di genericità.

vanni santoni

 

Quanto conta il lavoro (il precariato) nelle vite dei tuoi P.p.? Infatti: la precarietà sembra prescindere dal lavoro. Su quale aspetto dell’esistenza agiscono allora la precarietà e la flessibilità della vita contemporanea? Da dove derivano?

La prima “nota critica” sensata intorno a Personaggi precari – di più: il primo commento che mi fece capire che quello che stavo sviluppando non era più un quaderno degli esercizi ma un progetto letterario – arrivò da un professore universitario pugliese, di cui purtroppo ho perduto ogni traccia, non esistendo più il servizio di e-mail che utilizzavo dieci anni fa, che mi scrisse complimentandosi e dicendo «Finalmente qualcuno che declina il precariato non come fatto meramente giuslavoristico, ma esistenziale». Lì scattò qualcosa: in effetti – al momento di tale mail il progetto esisteva da un paio d’anni – avevo progressivamente abbandonato i personaggi “di genere” o appartenenti a periodi storici diversi dal nostro, per concentrarmi su quelli di ambientazione contemporanea, e su un registro che poteva andare dal comico all’ordinario al tragico, ma sempre con un occhio alla questione esistenziale. Avevo anche smesso, ma questo forse riguardava la semplice maturità formale del progetto, di scrivere Pp in forma di profilo o “scheda personaggio”, favorendo sempre più lo squarcio improvviso, lo stralcio di dialogo o di pensiero, la prospettiva obliqua, il momento apparentemente ordinario in cui sbocciano nuove significanze.

La precarietà è una condizione in cui siamo immersi in senso ampio: alcuni P.p. sono anche precari in senso lavorativo, ma quello che importa è il fatto che si vive in un contesto liquido, se non addirittura gassoso, privo di punti di riferimento non solo lavorativi o giuslavoristici, ma anche ideologici, religiosi, ideali. Il che non è necessariamente un male, anzi il collasso di religioni, ideologie e “valori” tradizionali è un fatto positivo, ma porta con sé anche una serie di problematiche, che su alcuni possono ben avere un effetto devastante.

Come autodefiniresti P.p.? A che genere assomiglia o si rifà? Avevi in mente qualche “narrazione” in particolare che ti ha ispirato, qualche altro progetto letterario o qualche altro autore? Sei d’accordo con Raoul Bruni quando dice che hai inventato un nuovo genere letterario in sintonia con i ritmi del mondo attuale? E cosa ne pensi dei paragoni (suggeriti da Bruni) con Campanile, Bontempelli, Manganelli, Pontiggia?

Quando cominciai a lavorare a Personaggi precari – era il 2004, anno che coincide con l’inizio della mia attività di scrittore – non conoscevo nessuno di quegli autori. La mia formazione di lettore era stata ampia ma disorganica, pochissimo o per niente orientata sulla letteratura italiana del Novecento. Mi ero formato per lo più sulla letteratura russa e francese dell’Ottocento, sul nostro canone medievale e rinascimentale, sulla poesia inglese e francese pure dell’Ottocento e su innumerevoli altre letture mai stabilite in base a percorsi organici ma sempre secondo la suggestione del momento. Se mi inventai quella forma fu semplicemente perché cercavo una forma narrativa che fosse adatta alla pubblicazione online. In rete la gente cercava contenuti brevi, e la rete offriva un formato, quello del blog, che per la sua divisione in post si prestava particolarmente, oltre che al diario, alla forma aforistica. Tra gli autori che citi il primo a venire accostato a Personaggi precari fu Centuria di Giorgio Manganelli, in una recensione online, e subito corsi a comprarlo. Fu forse leggendolo che realizzai che un “padre nobile” il mio progetto lo aveva: era il Calvino delle Città invisibili, un testo per me fondamentale (torna tanto in Se fossi fuoco… quanto nel mondo fantastico di Terra ignota) che in quel caso mi aveva suggerito la possibilità della griglia analitica e del sistema di finestre come possibili formati narrativi.

Prsonaggi precari VOland 2Tiziano Scarpa ha paragonato P.p. a Mi ricordo di Perec: sei d’accordo? Le relazioni interpersonali sono davvero spezzettate e fragili (precarie) come i ricordi? Da che cosa dipende?

Ci sono dei punti in comune. In Mi ricordo di Perec sono ugualmente atomizzati, e come in Personaggi precari a volte l’ellisse, il non detto, il panorama che si apre nella mente del lettore in virtù di un’evocazione di per sé parziale o parzialissima, è sovente più importante di quel che viene scritto.
Credo poi che se molte relazioni interpersonali hanno questa fragilità, questa parzialità, questa evanescenza deriva anche dal fatto che le relazioni si sono moltiplicate, diffuse, addirittura virtualizzate, perdendo dall’altro lato la normatività (dovuta ad esempio all’appartenenza a gruppi sociali determinati e molto più rigidi) che avevano un tempo.

Mi chiedo, oggi, se hai tenuto conto o meno (e quanto) della critica letteraria e dei commenti che hai ricevuto nella costruzione dei tuoi personaggi?

Sicuramente un progetto che si sviluppa su tredici anni di lavoro, e che grazie a questa durata ha avuto così tanti commenti, critiche, saggi e menzioni in tesi di laurea e dottorato, non è indifferente a esse: aiutano ad avere uno sguardo più lucido su di esso, e quindi di fatto, che l’autore voglia o meno, lo condizionano.

Mi è sempre sembrato e mi sembra ancora oggi che i tuoi P.p. siano colti in pose per lo più superficiali, in pensieri banali, in momenti marginali della vita. Sono grigi o grigiastri, leggeri. Spesso si coglie una certa comicità o ilarità nelle loro fugaci apparizioni. Tutto questo segna a mio avviso in maniera molto originale l’odierna forma di vita precaria e flessibile (per lo meno italiana). Però ti chiedo: questi personaggi, così come tu scrivi «disposti alla flessibilità», sono tutti così arresi e appunto disposti a essere usati al bisogno? La loro insofferenza si dà solo in qualche battuta sagace ad amici, al bar o in famiglia? Non c’è da qualche parte – magari implicita – una “indisposizione”?

Credo che, sia pur mai messa in primissimo piano, perché una sua predominanza statistica sarebbe poco realistica, ci sia una linea forte di indisposizione: non sono pochi i P.p. che si uccidono, che si fanno del male da soli (o lo fanno agli altri in modo arbitrario), che hanno reazioni esagerate o insane. Il problema è piuttosto il fatto che difficilmente li vediamo ribellarsi rispetto alla società o anche solo al contesto: tale direzione operativa pare escissa dal panorama delle possibilità di chi vive nel nostro tempo, tanto che addirittura la pura devianza pare più plausibile, e probabilmente è da ciò che giunge una parte consistente del malessere esistenziale tanto diffuso oggi. Un malessere che per di più viene poi generalmente etichettato, e percepito dalle stesse persone che lo vivono, come malattia (da curare magari con benzodiazepine e altre droghe) e con ciò definitivamente introiettato.

Infatti: quanto sono “corresponsabili” della loro flessibilità questi personaggi? Quanto – vuoi per l’autoironia, vuoi per la loro superficialità – sono “indifferenti” alla loro precarietà? A paragone ad esempio con le masse di immigrati che attraversano le autostrade a piedi, questi personaggi sembrano di carta, stupidi, svuotati di passioni, di eroismo, di tragicità, di pensiero critico. Sembrano dei sonnambuli.

Un simile dato di “indifferenza” esiste. Tuttavia è un’indifferenza che viene dalla fine del succitato orizzonte di possibilità reattive, dall’accettazione di tale fine, e dunque da un diverso posizionamento esistenziale rispetto alla storia. La differenza che vedi – e che esiste – tra queste persone e le masse di profughi che fuggono dalla Siria o da un altro paese lacerato dalla guerra, rimane una questione di contesto: il figlio del migrante di oggi, se costui riuscirà a penetrare nella “fortezza Europa” e a costruirgli un avvenire decoroso al suo interno, si troverà con ogni probabilità a vivere la medesima condizione esistenziale di “indifferenza” degli occidentali di oggi.

le vite potenzialiSi continua a scrivere di lavoro, soprattutto a narrare. Works (2016) di Trevisan, Ipotesi di una sconfitta (2017) di Falco e 108 metri. The new working class hero (2018) di Prunetti lo dimostrano a sufficienza. Due anni fa mi hai detto che l’emersione della narrativa sul lavoro è stata in certo senso il frutto naturale della cesura che c’è stata tra due idee di lavoro. Le cose sono cambiate e quindi in molti hanno inevitabilmente registrato tale cambiamento. Ci sono secondo te delle novità nella letteratura sul lavoro? Hai letto Trevisan, Falco, Prunetti? Chi altro in Italia sta raccontando e rappresentando il lavoro? Chi ci consigli di leggere?

Li ho letti e mi sono piaciuti. Visto che citi un romanzo recentissimo come quello di Prunetti, ne aggiungo uno ancora più nuovo, e cito Le vite potenziali di Francesco Targhetta. Mentre per citarne uno precedente ai tre che chiami in causa, ma ancora rovente, ricorderei Il mondo deve sapere di Michela Murgia.

L’ultima domanda, allora come oggi, è questa. Se l’interesse letterario, artistico e mediatico nei confronti del lavoro dipende, volente o nolente, dalle grandi trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro – precarietà e flessibilità in primis – c’è qualcosa a tuo avviso che la letteratura può dire in più o di diverso rispetto alle analisi dei vari sociologi, storici e giuristi?    
Ritengo che il compito dell’arte sia appunto non limitarsi a registrare i fatti in sé, ma l’intera temperie psichica e sociale in cui vanno a collocarsi, nonché gli effetti sulla medesima. Il suo “valore aggiunto” mi pare quindi implicito.