Pubblichiamo oggi la prima di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2018, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 28 aprile 2018. Alessandra Sarchi è stata la prima finalista a presentare il suo libro, La notte ha la mia voce, al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrata nella hall dell’Hotel Excelsior San Marco di Bergamo e le abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portata a questo libro.


 

Sarchi

La notte ha la mia voce è un romanzo autobiografico, o almeno con uno sfondo evidentemente autobiografico: come mai dopo una raccolta di racconti e due romanzi a trama e con narratore in terza persona, la decisione di approdare al racconto autobiografico? Come mai a questo punto del tuo percorso, e non prima ad esempio?

Allora, secondo me c’è bisogno di una precisazione sul romanzo autobiografico, perché io penso che questo non lo sia, se non nella misura in cui ogni romanzo è autobiografico. Poi ho scritto questa storia, perché attinge molto alla mia esperienza, ma non è un’autobiografia, non è un memoir, e non ha neanche la pretesa di esserlo. Penso di averlo scritto perché credo abbastanza nel principio di Hemingway per cui ognuno scrive quello che sa e quello che conosce. E c’era un vissuto, un tipo di esperienza di essere nel mondo, in una condizione particolare, che è quello della malattia e del trauma, che mi sembrava di poter raccontare proprio per averle attraversate. Ma questa non è la storia della mia malattia o del mio trauma. Quindi in questo senso La notte ha la mia voce non è un romanzo autobiografico. E infatti c’è tutta una costruzione romanzesca, anche di personaggi, e anche di voce narrante, che non è la mia voce – se non nella misura in cui io ho scritto il libro.

 

Nel racconto del trauma della protagonista e di quello della Donnagatto, l’altro personaggio femminile con cui la protagonista dialoga nel corso del romanzo, quello che colpisce è la trama di figure e di immagini a cui tu ricorri per provare a restituire impressioni, percezioni e sensazioni che comporta l’esperienza della perdita dell’uso delle gambe e quindi una nuova esperienza di vita con un corpo diverso da quello che si conosceva. Molto spesso ricorri all’ambito delle forme preistoriche, degli organismi primigeni; c’è una forte presenza dell’elemento naturale. Da dove hai attinto per queste immagini?

Sì, a un certo punto viene citato questo tetrapode,Tiktaalik, che sarebbe, secondo le ricostruzioni dei paleontologi, l’anello di congiunzione tra la vita acquatica e quella terrena, che ha portato allo sviluppo del sistema osseo, vertebrale e soprattutto di respirazione che consentisse di stare sulla terraferma. Io ho cercato di aprire il più possibile in questa direzione, creando uno sfondo quasi cosmogonico – la stessa divisione in tre parti del romanzo, Terra, Aria e Acqua, richiama una forma di cosmogonia – perché non volevo scrivere un libro “di categoria”, cioè legato a una precisa condizione fisica, di malattia o di menomazione; volevo scrivere un libro in cui si parlasse della storia corporea, all’interno della storia di tutto il pianeta. Cioè, noi non siamo animali tanto diversi, se non per uno sviluppo ipertrofico del cervello, rispetto a quanto abita il resto del pianeta.

E il nostro esserci sul pianeta – anche il nostro esserci così artificiale, che permette di sopravvivere alla malattia, al trauma – è comunque da vedere all’interno di una grande storia, che è la storia della materia su questo pianeta. Che è una storia troppo dimenticata, rispetto alla storia delle idee o alla storia dello sviluppo umano, che noi vediamo sempre come un apice che sta al culmine di un’ipotetica piramide. Questa è un’idea che ormai è stata abbastanza smontata dalla filosofia, e soprattutto è un’idea molto controproducente, perché nel momento in cui tu vivi un’esperienza di grande spossessamento fisico, è proprio lì che ti rendi conto che sei un animale in mezzo ad altri animali. E che lotti per la sopravvivenza.

 

A livello di struttura, invece, una cosa che si nota rispetto ai due precedenti romanzi, Violazione e Un amore normale, dove diverse storie si intrecciavano, qua hai scelto di fare economia di personaggi – che pure erano una componente molto importante e particolarmente riuscita di quei romanzi – e di cedere tutto a queste due donne che dialogano. Come mai questa scelta di fare pulizia e di sacrificare?

Mah, perché questo non è un romanzo di trama. Mentre gli altri avevano una costruzione romanzesca legata alla trama un po’ più marcata e forte, questo è un romanzo in cui la parte cogitativa, autoriflessiva e introspettiva ha la prevalenza, quindi non ho sentito così tanto la necessità di allargare il gioco dei personaggi. Mi bastavano queste due figure, che è lecito anche pensare che siano il dritto e il rovescio della stessa medaglia.

 

Un’ultima domanda, più leggera, per chiudere l’intervista, come facevamo anche l’anno scorso. Qual è, secondo te, il carattere o l’aspetto del tuo libro che potrebbe far propendere la giuria per votarlo.

Il titolo, perché la notte è un luogo magico, per molti. O almeno spero.

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