A quarant’anni dalla pubblicazione della raccolta che l’ha consacrata poetessa, Sciarra amara, e a un anno dalla sua morte, Jolanda Insana occupa nell’orizzonte della poesia italiana degli ultimi decenni una linea di margine molto preziosa, che è necessario ricordare e omaggiare. E forse, per questa poetessa e traduttrice dal greco antico, che tanto sforzo ha messo nel dare all’italiano una consistenza ritmica e sillabica tutta materiale e corporea, il migliore risarcimento possibile è quello di riconsegnare la sua opera ad una dimensione performativa; questa poesia ha origine infatti dalla «voglia di sbraitar cantando», dall’esigenza fisica di prendere parola e si manifesta sotto forma di un’irriducibile tenzone di voci interiori. Non per niente la parola araba “sciarra” significa “lite”, “lotta” ed è un prestito attestato nel siciliano antico e in altri dialetti centro-meridionali, come a dire insomma che quest’opera vuole non solo soddisfare una clamorosa volontà di contrasto sul piano tematico, ma è concepita anche nel segno di un ibridismo e di un plurilinguismo dalle radici profonde.

Il primo libro inaugura un ciclo in cui entrano a far parte Schitìcchio e schifìo, Lessicorìo ovvero Lessicòrio e infine Fendenti Fonici (Società di poesia, 1982), che si aggiudica il Premio Mondello Opera Prima; in questa fase Insana sperimenta tutti i linguaggi e attinge a molti generi dell’oralità, «si aggira per teatranterie tra insulto e bestemmia, o piomba nell’enigma della passione perché la voce non vuole smorire e urla scongiuri, per scongiurare nefandezze, muovendo il fendente che finisce in risata, sulle vie della parodia e dell’impuro», come afferma nell’Autodizionario degli scrittori italiani.
La struttura di queste raccolte è il risultato dell’assemblaggio di frammenti che appaiono come veri e propri blocchi ritmico-sonori, e della loro scrupolosa organizzazione in unità, laddove ogni strofa viene numerata come momento, “mossa” essenziale a quella lotta che ogni sezione sviluppa.

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il cacasegni sticchioso
risbaldo rubaldo
facendo ciarlamenti frappe e bugie
recinge il suo regno di balordìa
per bettolare a tirapancia
con favolatori di lessi bollenti
e lessemi bolliti

è giocoforza perdìo dare fendenti fonici

Nella nota a Sciarra amara, Raboni scrive che la poetessa di origine messinese «dimostra la sua appartenenza alla schiera dei macheronici, degli aderenti ante o post litteram alla grandiosa “funzione Gadda”». Nella sua personale indagine ritmica e linguistica, Insana procede per via carnale, scandagliando anima (che pure possiede per lei consistenza muscolare), membra, cuore, midolla, polpa e ossa, pervenendo a «sgrav[are] con dolore ǀ figliando famiglie di parole»: sorgono così dal suo «poesificio» ricchissimi campionari di «storture» e «graffisegni», irti neologismi, rime “petrose” e recuperi dall’antico (quelle parole che «si avviano al calvario ǀ portando la croce ǀ e morte escono dal dizionario»).
A furia di parole sputacchianti, glossolalie e scivolose sibilanti, questa ricerca espressiva può rivelare la spassosa controindicazione di fare incespicare nella lettura tanto i migliori declamatori quanto coloro che leggono privatamente, silenziosamente (in questo caso restano più stupiti quelli che credono che la lettura silenziosa sia davvero silenziosa). E d’altro canto rende più comprensibile ciò che da alcuni anni Gabriele Frasca va affermando, ossia che la poesia non è un genere letterario, ma un medium; un mezzo, nel caso dell’Insana, di una comunicazione percettiva e partecipativa, che permette la riscoperta di una dimensione fisica dello spazio (le forti cesure, prima ancora che fatti ritmici, sono indicatori di presenza, barriere identitarie, amministrazione di un territorio privato) e insieme del tempo, poiché ogni segno, spazio bianco incluso, deve essere restituito attraverso il respiro, come aveva teorizzato nel saggio Spazi metrici Amelia Rosselli, da lei tanto amata.

A partire dal 1987, con la pubblicazione de La clausura si segnala un sensibile cambiamento nel progetto poetico: la struttura del collage viene infatti abbandonata per adottare quella poematica, capace di esaurire in un’unica tensione narrativa una materia riconoscibile. La “sciarra” non si placa, ma è come stemperata in strofe più fluide e versi più lunghi. L’intento è ancora una volta quello di rievocare la memoria di un corpo, aprendosi da questo momento a una sua più ampia dimensione per vivificarne la memoria civile, quella storia di corpo tra i corpi che non manca di scorni e dolori, di «coltellate di bellezza». Seguono allora Medicina carnale, in cui Insana sviscera il tema complesso del rapporto tra cura e malattia, La tagliola del disamore, dedicata al ricordo della madre e all’irrisarcibile scempio della Seconda guerra mondiale, e infine, passando in rassegna polemicamente i conflitti contemporanei e il problema ambientale, Turbativa d’incanto.

Ma il libro senz’altro più celebre nella produzione degli anni Duemila, vincitore del Premio Viareggio, è La stortura (Garzanti, 2002), di cui Raboni ha celebrato il “realismo” visionario, «ma realismo quale si può trovare, se si guarda alla nostra tradizione, soprattutto in alcuni grandi poeti dell’anima, da Jacopone a Michelangelo a Testori». Il titolo fa riferimento ad una duplice condizione di infermità, quella propria alla società presente e quella personale e biografica della poetessa. Il dettato, cadenzato da sfilze di participi passati appartenenti alla sfera corporea (spesso deformazioni che la vivace «mente cannibala» della poetessa ha prodotto, tra cui «smummiata», «desviata», «smaneggiata»), procede per totemiche concrezioni narrative, reliquie di un vissuto tremendo. Si veda a questo proposito la sequenza che chiude l’ultima e densa sezione del libro, efficacemente intitolata Il martòrio, nei cui versi Insana esibisce il corpo straziato da una malattia che comporta disturbi della fonazione e dell’articolazione della parola:

inarticolata fallisce ciondola
nelle fiumare abbandonate
torna schietta e abbaia per troppe bestialità

screpolata non mastica né inghiotte
non è liturgica né sacrilega
è franca e bastarda e non se ne vanta
poi che è uscita dal corteo della vanità

sfrenata si srotola nella cavità e si sfessa
e non trovando il giusto appoggio non consuona
sicché s’affloscia sul pavimento
e fa fatica con la effe fessa
finché divien tremando muta sotto la volta crollata

straniata nella sua Tebe
non ritrova la casa con angoli e pareti
la lingua martoriata

Corpo e memoria sono i temi che dominano anche Cronologia delle lesioni (2008-2013), ultima raccolta licenziata dall’autrice e recentemente pubblicata dall’editore Luca Sossella, libro che offre un’amara disamina dei mali che per oltre un secolo hanno afflitto il nostro paese. Nella seconda sezione, Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina, la lingua tellurica e il «terroso dialetto siciliano» contribuiscono a registrare, in versi brevissimi allineati in centro pagina, quasi in forma di sismografie – le voci e i racconti di coloro che sopravvissero a quel tremendo giorno, il 28 dicembre 1908, in cui la terra «s’imbriacau e vomitau». Nell’ultima infine, Terra / Luna: un’infinita risonanza, l’astro più sedotto dai poeti lamenta: «e tutti lì a domandarmi ǀ che faccio io ǀ pallida luna in cielo ǀ verecondo raggio ǀ eccetera eccetera ǀ e invece ora sono io che domando ǀ che fai tu terra ǀ terra di misfatti e di torture ǀ che fanno i tuoi pallidi terricoli | infoiati e inverminati»; e dietro quella luna rampognosa, riconosciamo ancora e per l’ultima volta Jolanda, “insana” «pupara», come lei stessa si definì, che sempre ha fatto nella sua poesia «teatrino con due soli pupi ǀ lei e lei ǀ lei si chiama vita e lei si chiama morte».


 

Immagine di copertina:  Renato Guttuso, Fuga dall’Etna, 1938-40,  olio su tela.