Il tempo schiacciato all’interno di un centro commerciale, galassia in continua espansione che assorbe l’esistenza di un’umanità (quella dei suoi lavoratori, e in misura minore, o diversa, dei suoi clienti) e la fa propria soggiogandola alle leggi imposte dal mercato. Questo è il cuore tematico di Suite Etnapolis di Antonio Lanza, poemetto ibrido e polifonico, scandito in composite sequenze, ciascuna dedicata a un giorno della settimana: nel XIII Quaderno si possono leggere le prime quattro.

Il luogo autentico e metafisico di questa descensio ad inferos è il centro commerciale Etnapolis, che da oltre dieci anni nei pressi di Belpasso si contrappone all’Etna con una forza magnetica oscura e opprimente che quasi lo dissolve, così come dissolve tutto ciò che gli sta fuori:

Più irreale l’Etna una tonalità di blu
più scura del cielo alle spalle
che Etnapolis ancora illuminata
dopo la chiusura […]

Perché « Etnapolis di etnapolis, tutto è etnapolis » (formula che ritorna in forma variata e insistita nel corso del poemetto): Lanza rovescia il passo dell’Eccesiaste e reinterpreta il concetto biblico di vanitas, rendendo Etnapolis simbolo ultimo di un tempo ridefinito, segnato spietatamente dall’altoparlante (« Le ore annoiate | scorrono scortate dagli annunci: | le 11 e un minuto, le 12 | e cinquantanove minuti »).

L’orizzonte linguistico del poemetto è stratificato e accoglie le voci dei lavoratori portati in scena, contribuendo all’affresco di una collettività oppressa, sfruttata o comunque in costante tensione per affermare la propria presenza in un recinto chiuso, soffocante (sul piano della lingua, una maggiore escursione semantica – questa l’impressione con lo scorrere dei versi – avrebbe probabilmente giovato alla forza di impatto della rappresentazione). Il payoff che l’efficientissima e inarrestabile macchina del marketing fa accompagnare a Etnapolis fa da lugubre contrappeso all’esistenza delle personae: “La città del tempo ritrovato” (« così, oscenamente, una delle definizioni in uso », dice Fabio Pusterla nella sua nota introduttiva alla suite). Tempo ritrovato: un mito insondabile, massima epitome del consumo che alimenta se stesso in un cerchio perfetto, mosso da soggetti emblematicamente anonimi (in opposizione ai lavoratori, citati nel testo a più riprese con i nomi propri nello sforzo di conservarne fino in fondo il valore umano, sotto assedio) e come assuefatti:

[…] La gente agli ingressi appende la morte
sugli appositi attaccapanni, è pronta a lasciarsi
portare su e giù sui nastri mobili, per i negozi,
la musica ripetitiva, martellante; degli altri
rassicurante la presenza.

Alla voce narrante, a quella dei protagonisti, a quella femminile e suadente o invece maschile e ferma dell’altoparlante (a seconda che si inviti alle compere o a concludere gli acquisiti in prossimità della chiusura serale), si somma quella dell’io narrate: che emerge, con passo fermo, alla chiusa di ogni giornata e segna un altro assestamento prospettico. In questi momenti il soggetto poetico entra in scena e si affaccia dal terrazzo superiore del centro commerciale, nel momento in cui le saracinesche si stanno abbassando; dà un’occhiata meditativa e sconfortata al paesaggio, che sembra « quasi bucolico », ed è soltanto il corrispettivo capovolto del centro commerciale. E « mentre si abbassano le saracinesche | comincia la conta del profitto.»