Il romanzo d’esordio del quasi trentaquattrenne giornalista novarese Luca Ottolenghi, Questa terra, progetto editoriale vincitore del programma indetto dalla SIAE denominato “SILLUMINA – Copia privata per i giovani, per la cultura (Ed. 2016)” – Bando “Nuove opere” e pubblicato pochi mesi fa dall’editore napoletano IEMME nella collana Pantone curata da Giovanni Chianelli, è corretto e lascia avvertire la presenza di una mano che è difficile credere al primo tentativo. Appreso della gestazione decennale di questa storia di formazione, c’è da dire che essa potrebbe riguardare innanzitutto la crescita del suo stesso autore e che tanto tempo abbia fatto bene proprio a lui, che tutti questi anni di lavoro abbiano formato uno scrittore piuttosto insolito, nel panorama italiano, in virtù di una sua acuta percezione ritmica, di una padronanza dei tempi narrativi, delle interruzioni e delle conseguenti necessità di accelerare e moderare la velocità. Purtroppo, però, è come se Ottolenghi avesse acquisito quest’indiscutibile competenza metodologica e formale per compensare e quasi occultare alcune ingenuità contenutistiche: qualcosa, in lui, è andato molto avanti, a scapito del ritardo che certe voci del suo immaginario stavano portando, tanto che si avverte la loro lontananza; probabilmente, se questo romanzo si fosse manifestato prima – sei anni fa, per esempio, quando l’autore sostiene che fosse già pronto per la pubblicazione, ma senza un editore –, avrebbe esercitato un maggior potere di seduzione. Sebbene sia servito alla maturazione tecnico-stilistica, il tempo lungo di elaborazione sancisce “ideologicamente” una condanna, che cade sul corpo del testo quando lo scorrere avvincente ed esatto degli eventi viene sospeso, interrotto da riflessioni la cui sentenziosità riproduce quella ascoltata e respinta troppo spesso, in questi anni, altrove e dappertutto.

«Ho mancato la nostra Rivoluzione»: così Frank, il narratore, «il ragazzo più arrabbiato del nuovo millennio» che non è riuscito a partecipare alle contestazioni al G8 di Genova del luglio 2001 perché impegnato ad assistere la madre morente e che metterà in atto la propria fuga, passando attraverso un confronto con lo zio, impegnato nella lotta armata degli anni Settanta, e la ricerca dell’arsenale di armi del nonno partigiano. Il fatto è che troppi ragazzi di quella generazione potrebbero e vorrebbero, fortissimamente, affermare lo stesso di sé: “Piacere, sono il ragazzo più arrabbiato del nuovo millennio… come tutti” . Non sta bene fare il verso all’incipit più celebrato della recente narrativa italiana, ma cade a proposito, stavolta, a simboleggiare un’urgenza ribellistica che è diventata opprimente e di massa, nel frattempo, nel corso di questi decenni. «Se tutti vanno in una direzione, a me viene spontaneo andare in un’altra»: sul serio? Bisogna dimostrarlo, però: hic Rhodushic Genua, 2001.

Come si scrive un romanzo generazionale? Sembra facile: prendi l’aria del tempo, inchiodala alla carta… ma qual è l’aria del tempo? E se quella che ci sembra tale non fosse altro che un soffio del nostro cuore, per esempio? E se, addirittura, quel soffio non fosse che un’ipotesi ipocondriaca? Meglio: chi è colui che, di solito, riesce a scrivere un romanzo generazionale? E: per chi lo si scrive? Forse, sono queste le domande che più funzionano, perché non si tratta, per riuscire nell’impresa, di apprendere una tecnica mimetica, quanto di dare voce a chi non ne aveva o non ne aveva avuta abbastanza, o a chi quasi non sapeva di avere a disposizione un apparato fonico paragonabile a quello altrui, e stava ad ascoltare quei tenori, tutto quel frastuono. Succede, cioè, che il romanzo generazionale sia una scommessa, la realizzazione di un calcolo astratto, perché la sua eventuale affermazione renderà reale e consistente il numero di coloro che non avevano neppure pensato di farsi forza storica, per quanto questa loro forza possa essere stata quella del silenzio e dell’assenza: non volevano sentirsi coinvolti, non si erano espressi, non avevano partecipato a quelle lotte che, grazie al trompe l’œil mediale dell’informazione di massa, sembravano impegnare la più parte di una comunità.

Viene da pensare, perciò, al romanzo generazionale ancora da scrivere e che sarà di chi non abbia preso le parti né dei torturatori di Stato – e ci mancherebbe altro –, né quelle di chi ha allestito le assillanti sfilate di fantocci mitici dell’Assalto alla Zona Rossa, degli Eroi contro il Potere, contro gli sbirri, i “pulotti”, che funestano tanti nostri discorsi: rompere con le scenografie ideologiche del proprio branco di riferimento significa, allora, scindersi da esso, non preoccuparsi di dispiacergli, al fine precisamente di produrre il romanzo generazionale – sembra che si stia proponendo qualcosa d’inaudito? Però, basterebbe pensare che i romanzi che sono diventati per davvero generazionali hanno preso forma proprio quando nessuno, magari, li stava più aspettando, producendo inevitabilmente uno shock epistemico in chi ha riconosciuto il proprio ritratto, così come in quegli altri, nei semplici osservatori; basterebbe pensare, inoltre, che tali romanzi eccome se hanno rotto, eccome se sono stati scomodi, innanzitutto per quella stessa fazione della quale, a posteriori, hanno rappresentato la sublimazione artistica: Una questione privata di Beppe Fenoglio, cioè «il libro che la nostra generazione voleva fare» (Italo Calvino), non venne affatto alla luce tra gli applausi dei coetanei dello scrittore di Alba.

Diversamente, a tutela degli opposti e speculari estremismi, esistono i mezzi d’informazione: il romanzone generazionale che alcuni potrebbero avere in mente, che pretenderebbero e che è inautentico, è stato già scritto dai mezzucci impiegati nella formazione degli opposti conformismi, quei media ai quali l’autore si premura di specificare, intervistato, la propria appartenenza, dichiarando di avere «sempre frequentato l’ambiente dei centri sociali» – ecco, per rispondere alla domanda di cui sopra: un maggiore distacco, forse, avrebbe aiutato Ottolenghi, gli avrebbe permesso di somigliare di più al soggetto ideale che è in grado di rappresentare il proprio habitat uscendone, o restandone fuori, o stazionando sulla soglia.

Il romanzo, oltre che essere il primo di un’annunciata trilogia, si svolge in tre tempi, perché il narratore dell’estate del 2001 lascia la parola allo zio del 1977 ed entrambi alla voce del nonno del 1944, combattente ai piedi del Monte Rosa, negli stessi luoghi in cui Frank troverà rifugio, ma, tra corsi e ricorsi della lotta, sono proprio le testimonianze del passato a stonare: è lecito chiedersi, per esempio, se quarant’anni fa l’espressione «come uno tsunami» fosse di uso comune e gli scritti dello zio, pagina dopo pagina, sembrano materializzare una sorta di Corrado Guzzanti che prenda a piene mani i peggiori luoghi comuni dell’ideologia settantasettina, della cui approssimazione e maniacalità non dubitiamo, portandoli all’estremo e facendo molto ridere… C’è da dire che, forse, il Settantasette è stato proprio così e, prima di imputare alla penna dell’autore un difetto di realismo, bisognerebbe imputare a quel tempo, ai dominatori di quel tempo, un difetto di realtà: combattevano, i settantasettini, convinti tanto quanto i propri fratelli maggiori del Sessantotto che fosse giunto il momento di portare a compimento le nostre precedenti “rivoluzioni tradite”, in primis la Resistenza, o mettevano in scena le mosse che alludono al combattimento? (Che sia il Settantasette e non il Sessantotto a porsi a metà del cammino, a dividere simmetricamente i decenni di storia italiana che separano il 1944 dal 2001, è significativo e meritevole di ulteriori riflessioni, ma non in questa sede.)

Questa, per Frank, è l’estate della maturazione, delle conclusioni inaspettate, disincantate e realistiche: quella del nonno, allora, sì che era una «guerra autentica, non come quella inventata dallo zio e dai suoi compagni». Vale a dire che ogni generazione risale alla verità dei propri nonni e si distanza da quella dei propri padri, o dei propri zii? Dovremo aspettare il nipote di Frank per decretare l’inautenticità della “guerra” di Genova? (Ciò che è tragico sono gli effetti autentici di un evento inautentico, il dolore delle torture e l’irreversibilità della morte di un ragazzo.) Di nuovo, infine, questo è un romanzo corretto che “funziona” e che in quella correttezza scopre il proprio difetto, quando avrebbe potuto trarre forza dall’audacia, segando il tronco sul quale, così, non può non appoggiarsi: un romanzo che, per restare a simili altitudini e latitudini, quand’è al suo meglio, quando si abbandona al romanzo d’azione e d’avventura, richiama Il diavolo sulle colline del Pavese picaresco, per il resto… Frank non poteva davvero fare altro e di più, le rimanenti mosse spettano a Luca.