Questo è un romanzo delizioso, tanto quanto sembrano deliziosi i piatti di cucina tradizionale che l’attempato Robert Dubois, l’io narrante, ama degustare: si tratta de La novità del settantenne Paul Fournel, segretario e presidente dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle), pubblicato da Voland nella luminosa versione di Federica Di Lella, una delle nostre maggiori traduttrici dal francese: le osservazioni di quest’ultima sono utilissime, perché permettono di rilevare le numerose difficoltà di un compito del genere, quando si ha a che fare con un oulipiano cui piaccia sbizzarrirsi in assonanze, rimandi interni ed esterni e trovate ludico-letterarie. In questo caso, il testo del romanzo consiste di una lunghezza prestabilita e ricalca la struttura della sestina trobadorica del XII secolo, ne rispetta i dettami: i trentasei capitoli corrispondono alle strofe di quella, andando a decrescere di lunghezza, e terminano con la stessa parola che, secondo una precisa alternanza, andrà a chiuderne altri.

Essere malinconici senza riuscire a mettere malinconia al lettore: tale è la qualità della levità pensosa delle osservazioni di Dubois, il quale si trova a doversi confrontare con l’avvento della novità rappresentata dalla comparsa di un eReader che andrà a rimpiazzare il libro, i libri, i tantissimi libri che potrà contenere. Questo strano oggetto, questa “lavagnetta magica”, “cosa nuova”, “nera”, “fredda”, “ostile”, è in grado di dare vita a un’editoria altrettanto sconosciuta, quella digitale, e innesca tutta una serie di sostituzioni, a cominciare dalla propria, perché lo stesso eReader, nel giro di pochi mesi, dovrà essere forzosamente rimpiazzato dal modello più evoluto. Sembra al tramonto, così, un’epoca intera, in un trapasso segnato dalle disillusioni del vecchio Dubois, nostalgico senza lacrime, costretto ad accompagnare all’oblio le proprie abitudini, la carta e i pranzi al ristorante Tilbury di rue du Dragon, nel quale veniva accolto, da trent’anni, dalla signora Martin, la quale decide di lasciare, di vendere a dei cinesi “che hanno intenzione di fare cucina giapponese”: e che fine farà l’amata bottiglia di vino rosso, l’ordinario Brouilly grazie al quale l’intero pomeriggio si rendeva più sopportabile? Sostituito dalla birra, preferita dai giovani stagisti che hanno preso ad affollare la casa editrice e che invogliano Dubois ad aggiornarsi, a tentare la fortuna sul nuovo mercato dell’eBook: sono loro a darsi da fare, ad andare alla ricerca di “autori digitali ante litteram” che abbiano prodotto testi “adatti ai dispositivi di lettura, ai giochi e via dicendo”, a pensare subito alle opere di quei burloni dell’Oulipo, che sembrano perfette, contemporanee e future.

PARIS : Paul FournelIl romanzo è del 2012, ma l’editore romano lo ha appena mandato alle stampe, e cinque anni sono tanti, stavolta, perché la vicenda in atto si rifà quasi a un’altra epoca tecnologica, quella in cui l’avvento dei libri digitali sembrava dovesse relegare l’obsoleta carta in un glorioso dimenticatoio, e che dovesse farlo in breve tempo: così non è (ancora) stato, forse perché, semplicemente, il mutamento avrà luogo con più lentezza. Nell’interregno e nella compresenza del nuovo e del vecchio, c’è modo, allora, di assistere alle peripezie di un editore di qualità che rimugina sulla propria carriera di ingranaggio di quella “macchina folle che vende i libri”: uno che, da direttore editoriale della casa editrice, finì per diventarne proprietario, un misantropo riflessivo che non si fida affatto dei propri giudizi, pur sentendosi in dovere di contrastare i pareri del comitato di lettura, e che si rifugia in campagna per dare libero sfogo al proprio male, per inscenare senza intralci quella salvezza che è anche una condanna, la bibliomania. Come fa a gestire una casa editrice chi ammetta di preferire “i libri ai soldi” e come comportarsi di fronte all’alluvione dei romanzi che sembra il tratto saliente del nostro tempo? Gli autori

vanno a stanare i lettori a uno a uno, battono le scuole materne, i licei, le università, i convegni, le associazioni e gli istituti di cultura francese, con l’unico risultato di rovinarsi le ginocchia e di contribuire all’inquinamento globale

e scrivono per guadagnarsi un’apparizione nel programma di Bernard Pivot – il nostro Fabio Fazio farebbe al caso? –, l’autorità ultima in grado di decretare o negare il successo, tanto che si ricorda il fallimento televisivo di “un grande scrittore accademico come non se ne fabbricano più”, uno “un po’ difficile ma interessante, e con una così bella faccia da scrittore” che, però, “si spense come una lampada scarica, si mise a farfugliare, sopraffatto dal peso della posta in gioco, delle aspettative di tutti e di lui stesso in primis”: fu allora che il conduttore, abilissimo, “passò alla sua vicina, che non aveva niente da dire, ma lo diceva in modo piacevole”.

“Un ragazzo che incontra una ragazza…”, “una ragazza che incontra un ragazzo…”, a seconda del sesso di chi scrive: non sembra esserci molto altro, nella narrativa contemporanea, per Dubois, quantomeno nel perimetro delle storie che attraggono, nonostante (o grazie a) la loro indistinguibilità, all’insegna di un “sentimentalismo all’acqua di rose” che si vende in 200.000 copie, in un migliaio di copie al giorno, e che catapulta l’autrice verso il trionfo mediatico, la condizione invidiabile di chi è stato invitato a risiedere stabilmente in televisione a “dire la sua su argomenti di cui non sa nulla”. A prescindere da ogni efficacia testuale, infatti, i libri occorre promuoverli, proporli dal vivo al pubblico, e va dato atto alla presentatrice seriale di una professionalità inestimabile e riconosciuta, dei tentativi empatici che vanno a buon fine, del suo riuscire implacabilmente ad accattivarsi le proprie lettrici:

Conosce un sistema per tenersi i mariti, lei che non ne ha, confronta il piacere vaginale e quello clitorideo, ha imparato da sua nonna una ricetta speciale del far breton, secondo lei la corsa fa più male alle ginocchia dello sci alpino, crescere un bambino è un’avventura, la letteratura di domani sarà leggibile o non sarà affatto, la leggerezza è una forma di eleganza, lo stile è donna e lei ne è la prova, il formaggio di capra è molto meno grasso del camembert, i libri di Janine Boissard non sono male, sì, Balzac e Maupassant sono imprescindibili, e anche Simone de Beauvoir, certo che si può leggere guardando la tivù, sono d’accordo con voi, i reality non mi sembrano poi così reali, molto meglio un buon libro delle edizioni Robert Dubois acquistato nella vostra libreria preferita.

La letteratura, anzi la narrativa, anzi il romanzo, come “fatto sociale”, per dirla con Durkheim e con la tradizione antropologica francese: nello specifico, maussianamente e lévi-straussaniamente, come “fatto sociale totale” che coinvolge comunità intere, modella le aspirazioni e retroagisce sulle vocazioni, amministra e propone condotte, le accomuna, le seleziona, e condanna le infrazioni. Si esagera? È esagerato anche il culto che certi autori realizzano e che, però, è vitale per la sopravvivenza stessa dell’editoria, tanto che Dubois sottopone sé stesso a domande poco pietose: “Sono queste le lettrici per cui lavoro? Oggettivamente sì, ma in cuor mio lo faccio per una specie di lettrice ideale, immaginaria, un tipo di lettrice di cui ormai si è perso lo stampo”. Allora, si leggano le frustrazioni dell’editore come le voci di un manuale d’avvertimento per chi ne mitizzi il lavoro, l’idealista che si troverà alle prese con miriadi di manoscritti simili e tendenti al mediocre: “Le probabilità di imbattersi in un capolavoro sono quasi nulle, quelle di leggere un buon testo sono già più numerose, ma per essere certi che un testo sia buono, bisogna valutarlo tenendo conto del livello dei maestri e non del livello degli altri manoscritti buoni”. Chi lo fa più? Quanti critici letterari si comportano ancora così? Non ci siamo tutti livellati verso il basso, per essere molto contemporanei, verso la produzione annuale, mensile, settimanale?

“Un personaggio comico”, Dubois, nella propria auto-definizione, che ha trascorso una vita a misurare la commerciabilità dei propri gusti, a domandarsi, nel caso di un manoscritto che sia riuscito ad appassionarlo: “Quante copie si possono vendere di un testo così magnifico?”. Ci pensa la collega Sabine, principio o principessa di realtà, a riportare ogni volo disinteressato alle esigenze di un’azienda che, al netto di ogni romanticismo, ha da funzionare:

Col suo atteggiamento mi fa capire che devo trovare un autore famoso, non caro, di quelli che i lettori comprano in prevendita, pieno di talento, gentile (con Sabine), fedele, prolifico, regolare, astemio, modesto, spiritoso, di bell’aspetto, perbene e che non scende mai sotto le 300.000 copie. È il mio mestiere, dopotutto.

Si può ritenere La novità uno dei frutti migliori dell’Oulipo, senza turbare la memoria di Raymond Queneau e Georges Perec? A chi avesse perso le tracce di questi giocherelloni, cioè fosse rimasto all’epoca d’oro degli anni Sessanta e Settanta, quando riuscirono ad avvicinare e coinvolgere anche il nostro Calvino, farà piacere ritrovare al proprio meglio uno di loro, nonostante l’evidenza del paradosso, il sapore quasi testamentario: gli oulipiani, progressisti quanto altri mai, che intonano un lamento al bel tempo che fu, all’amata carta, ai ristorantini di quartiere, mentre ce li immaginavamo iper-connessi e seduti su terrazzi asettici e bianchissimi, di fronte allo skyline disegnato da qualche archistar… Invecchiamo tutti, e molto dipende dal come: questo è il modo eccellente di farlo di un gruppo di amici che non costituivano un’avanguardia nel senso novecentesco del termine, perché il loro intento non era quello di sovvertire, bensì di divertire. Dove hanno portato tutti gli sperimentalismi combinatori, però, ci si potrebbe domandare? A un buon punto, cioè alla presenza discreta che equivale l’estinzione silenziosa, un risultato mirabile: se non fosse per la nota finale dell’autore, nessuno si accorgerebbe delle restrizioni formali cui Fournel sottopone il proprio testo, cosicché quello scheletro quantitativo, quel calcolo delle battute (spazi inclusi), non sembrano altro che argini eleganti da imporre a sé stessi, o mòniti non insistenti né vistosi da indirizzare alla più generale tendenza dei romanzi-fiume, delle opere-mondo, alla pretesa che possa essere riassunta la sterminatezza del mondo in quella della propria fantasia.


fournelPaul Fournel, La novità, Voland, Roma 2017, 143 pp. 15€