Anche quest’anno la Berlinale tiene fede alla sua vocazione politico-sociale e presenta una rassegna piena di film engagés. Il direttore Dieter Kosslick afferma che mai come in questa edizione, il festival tedesco ha saputo cogliere lo spirito del momento politico, traducendolo in immagini pronte e scuotere le coscienze delle migliaia di spettatori che si riversano in questi giorni nelle sale berlinesi. Ce n’è per tutti i gusti: dal redivivo Kaurismäki con la storia di un rifugiato siriano (The othe side of hope) a Raul Peck con un biopic su Karl Marx da giovane (Le Jeune Karl Marx). Non mancano ovviamente le pellicole sul secondo conflitto mondiale e sul nazismo, la Storia per eccellenza, l’epoca forse più cinematografica di sempre. Ed è proprio con un’opera ambientata in quegli anni che si è aperta la sessantasettesima edizione del festival del cinema di Berlino: Django, storia di uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi costretto alla fuga in Svizzera per evitare i campi di concentramento. L’argomento non è di certo tra più originali, ma dietro a un convenzionale dramma storico si cela un tema più forte che attraversa molte opere della rassegna: quello dell’identità. In un mondo dove i confini si trasformano in continuazione, mutilando comunità e valori dati per scontati fino a ieri, l’essere umano si trova diviso e in cerca di una nuova aggregazione sociale a cui appartenere, sia essa una famiglia, un popolo o un’altra persona solamente. Le categorizzazioni di comodo lasciano il posto a una realtà più articolata, che il nuovo cinema vuole raccontare in tutta la sua indeterminatezza. Ho selezionato tre film di tre registi al loro primo lungometraggio presentato alla Berlinale, come esponenti di tre modi diversi di sviluppare il tema dell’identità.

Django e l’identità ritrovata

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Il film di Etienne Comar, famoso produttore e sceneggiatore alla sua prima volta dietro la macchina da presa, è un lavoro formalmente convenzionale, quasi una fiction televisiva. La ricostruzione delle atmosfere della Parigi occupata dai tedeschi risulta accademica e priva di qualsiasi volontà autoriale. La forza del film del resto non risiede né nella ricostruzione del momento storico né nella vicenda biografica del famoso musicista Django Reinhardt, bensì nella messa in scena di un dubbio. Il protagonista ricorda per molti aspetti lo Stefan Zweig del bellissimo Stefan Zweig Farwell to Europe di Maria Schrader: entrambi artisti in esilio presi tra l’urgenza della propria arte e le incombenze di un conflitto che avvertono come estraneo. È il sangue alla fine a scegliere per entrambi, quello ebreo di Zweig e quello gitano diReinhardt. La riscoperta dell’identità rivela dunque a Django il suo ruolo nel mondo e lo trasforma in cantore di un popolo, come quello gitano, la cui tragedia è stata portata raramente sul grande schermo.

Dayveon e l’identità strappata

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Dayveon è il nome di un ragazzino di tredici anni dell’Arkansas. Suo fratello Trevor faceva parte di una gang locale chiamata Bloods ed è rimasto ucciso qualche anno prima. Sopra il letto nella stanza di Dayveon  campeggia un quadro realizzato con le bombolette spray, che ritrae il fratello defunto in posa da gangsta. Ora Dayveon sente che c’è un solo modo per rimanere in contatto con la propria famiglia: prendere il posto di Trevor nella gang. Amman Abbasi, il giovanissimo regista di origini pakistane, prima di girare questo suo primo lungometraggio, aveva partecipato a un progetto sulla gang e la violenza a Chicago. Per il cast del film ha scelto tutti attori non professionisti, la maggior parte dei quali con trascorsi in bande criminali. Lo scopo di Abbasi non è però quello di girare un film inchiesta o di muovere critiche al sistema politico americano; Dayveon racconta infatti il desiderio di appartenenza di un ragazzino che non conosce altri modi di avverarlo se non attraverso la spersonalizzazione. Dayveon cede la sua identità e si maschera dal fratello Trevor per intraprendere un rito iniziatico ben lontano dalla spettacolarizzazione dei Gangsta movie ma fotografa una condizione più che normale in una periferia americana depressa e priva di prospettive.

Pieles e l’identità mutante

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Infine abbiamo l’opera prima di un altro giovane regista – questa volta spagnolo – di soli 25 anni: Eduardo Casanova. Pieles è un film suddiviso in brevi capitoli con protagonisti persone che presentano gravi malformazioni. Chiusi in spazi immacolati e protetti, conducono vite da emarginati, mentre i rari casi di contatto con l’esterno li espongono inevitabilmente a scherno o, peggio ancora, feticismi. Casanova sembra rifarsi alla lezione di Almodovar per una spiccata tendenza a contrapporre scenografie piatte e colori da rotocalco a contenuti dall’alto impatto emotivo, per poi aggiungervi un tocco di grottesco tipico della scuola spagnola a partire da Buñuel. L’identità in questo caso è chiusa in una pelle che confonde la percezione dell’altro e assorbe il senso delle esistenze dei personaggi. I freaks di Casanova sono condannati a un perenne fraintendimento a causa di una superficie che li isola e distorce ogni espressione di sé.