Il libro di Carlo Bordini edito recentemente da Sossella è il resoconto interrogativo, umorale e dubbioso di una vita sospesa fra astensione e partecipazione.

Siamo negli anni Sessanta-Settanta e il narratore/protagonista sperimenta e attraversa i passaggi generazionali degli ultimi nati prima della Seconda guerra mondiale in un continuo ed estenuante alternarsi di interni ed esterni: da una parte, la visuale scorciata di una depressione cronica e profonda in cui il mantra “mi odio, mi odio, mi odio” risuona ossessivamente nella testa dell’autore personaggio, dall’altra gli scoppi di vita (vere e proprie deflagrazioni dinamitarde e autodistruttive) che riguardano viaggi, donne e politica.

L’autobiografia-romanzo di Carlo Bordini, autore che riscuote un notevole successo per la raccolta di tutte le sue poesie (I costruttori di vulcani, Sossella, 2010), è il risultato sconnesso e barocco di un assemblaggio difficoltoso, abbandonato e più volte ripreso nel lasso di tempo che va dal 1976 al 2013. Un libro-consuntivo che funziona come uno sfogo o una mormorazione all’orecchio del lettore, una auto-intervista per vederci chiaro, una registrazione su carta di quadri a metà fra la confessione e l’analisi di una vicenda che necessita di essere raccontata in modo non convenzionale, il che significa inventando gli strumenti verbali necessari per descrivere mezzi pensieri, atti mancati e lunghe rimuginazioni di questo rivoluzionario timido che possiede la grazia aggressiva e goffa dell’orso.

È per questo motivo che la lingua delle Memorie è un originalissimo grammelot editoriale in cui le parole sono a volte maldigitate, le frasi non terminano con il punto (spesso non terminano affatto) e la punteggiatura si eclissa o si accavalla, rivendicando per sé uno spazio importante nell’esercizio di espressione totale. È l’autore stesso a spiegare che accorgimenti del genere servono a rendere l’idea di un linguaggio deformato, utile a superare «la piattezza dell’italiano televisivo su cui si basa il linguaggio letterario contemporaneo e per cercare un impasto sospeso tra il sogno e la realtà» (dalla quarta di copertina). Propedeutici alla lettura del libro sono il Quartetto d’Archi n. 5 di Šostakovič, Cosmik Debris di Frank Zappa e Cronache Animali di Nicola Campogrande.

Memorie di un rivoluzionario timido è diviso il tre parti, alternate da piccoli capitoli come Intervalla insaniae e corredate da Pezzi scartati. La vita di questo militante sentimentale è raccontata in maniera libera e occasionale, seguendo placidamente il filo del ricordo. Sono così i giorni di una lontana giovinezza trascorsa alla scoperta del nord Europa (Germania, Svezia), una lunga carrellata di visi femminili, periodi di assoluta oscurità e dimenticanza di sé, sedute freudiane e speranze di vita auto-boicottate da un forza sovrastante che costringe a rasentare il bordo della realtà; ma anche rivincite, scoperte esaltanti, un lavoro all’università e infine una problematica maturità coincidente con la stagione post-sessantottesca, la liberazione sessuale, nuove stagioni d’amore e lo stigma indelebile del sopravvissuto. Bordini mette ordine in una stanza labirintica e confusa senza adottare nessun piano specifico. 

Ma questo libro non si esaurisce nella memoria appannata e abbacinante di sé. Esso è innanzitutto un romanzo sugli anni della lotta, come altri che abbiamo letto negli ultimi anni. In questo caso però è particolarmente viva l’idea che per tanti fra gli aderenti al fervore sociale, il motivo principale non era e non poteva essere soltanto quello ideologico; era bensì un motivo di consapevole e direi volontaria incapacità di adeguamento agli altri e soprattutto a se stessi. Nelle Memorie di Bordini il nesso fra psiche individuale e ribellione generazionale organizzata è messo in rilievo con grande onestà. Quello che ne deriva è il racconto inedito di un’epoca fatta, nella nostra percezione di lettori posteri, solo di grandi aspirazioni e imperativi categorici.

L’autore non ci lascia genericamente alle soglie della sua lotta. La rievoca per condividerla e per gettare finalmente luce sul tempo opaco e frenetico che gli è toccato in sorte. È così che all’inizio della seconda parte, dopo un avvio in cui il personaggio si presenta per quel che è, confuso ed entusiasta scopritore della civiltà, alle prese con una galleria di ragazze pescate da una realtà che appaghi la frenesia di straniamento di questo extraterrestre naturale; è così, dicevo, che nella seconda parte del romanzo il lettore incontra parole come “entrismo” e “trotskista”: ed è qui che la lucida calata nella propria estraneità al reale si ammanta di un velo di storicità direttamente connesso con i recessi dell’inconscio, quando cioè il giovane Carlo va dal suo “psica” e dice: non ho più bisogno di lei, sono guarito, adesso sono comunista, «Mentre tornavo a casa – prosegue il paragrafo – ero piuttosto fiero. In realtà non sapevo che stava per cominciare quella mia fuga nel reale, o nelle ombre profonde del reale – che sarebbe durata per moltissimo tempo» (p. 77).

A pagina 83 della sua memoria romanzante l’autore tira le somme di una pagina dal gusto irresistibilmente ironico e tragico: La psicologia del trotskista. L’autore spiega come il battesimo del perfetto militante si adempia procurandosi un nome falso, uso alla copertura e alla cospirazione, un nome da eletti che devono riconoscersi nel buio di una condizione clandestina e catacombale: «Col passare del tempo questo nome tese a sostituirsi al primo anche al di là delle ragioni di copertura, e diventò il nome normale con cui ci chiamavamo. Esso suggellava in un certo senso la doppia vita, era il richiamo costante all’esistenza dell’organizzazione e al peso che essa aveva nei nostri confronti. Io mi sono spessissimo presentato all’esterno con nomi falsi, e questo ha avuto conseguenze sulla frantumazione della mia identità. Al limite anche il mio vero nome diventava uno dei tanti nomi falsi» (p. 83).

Di qui in avanti il personaggio narratore sarà coinvolto in avventure che lo porteranno in giro per il mondo (Torino, Montevideo, l’Algeria) in qualità di dirigente di partito: «Il mio destino era quello di diventare un quadro di ferro, e come tale si sforzarono di costruirmi» (p. 90). C’è un gusto quasi settecentesco nella narrazione di questi episodi, confermati da capitoli intitolati ad esempio Descrizione della città di Goteborg e dalla primissima produzione poetica (superstite) dell’autore. Sfogliando le memorie di questo rivoluzionario timido si ha l’impressione di leggere i casi grotteschi e picari di un Da Ponte o di un incasinatissimo Casanova, anche per la frequenza delle liaisons amorose destinate a finir male, quando non malissimo, per il nostro povero eroe. La sua è una Coscienza di Zeno post-postmoderna, animata da un ego capace di rattrappirsi nei precordi del dovere, o di esplodere e frantumarsi in severe crisi esistenziali.    

Memorie di un rivoluzionario timido è un libro importante, per quanto di non facile né accomodante fruizione. Ed è un libro importante perché consapevole di raccontare una storia individuale, di essere una particella non totalizzante del tutto, esperienza ed espressione parziale di un testimone dei tempi indipendente e ancora fortemente dubbioso e diffidente di sé e del mondo. Bordini non ha e non vuole crearsi né vendere nessuna verità. Se qualche verità contiene questo libro, è per puro accidente di composizione, mai per soddisfare una idea prefissa, anche residua. L’esperienza gli ha insegnato l’arte del diffidare, e, per contro, la dolcezza ineffabile dell’affidarsi. Il suo è un affidarsi al lettore come alle braccia protettrici e care di un genitore. Il lettore guadagna in queste pagine un ruolo che normalmente la fiction e la memorialistica dura e pura gli negano, quella del confessore e anche dell’arbitro. 

Le memorie di questo ex ragazzo sensibile possiamo vederle come un viaggio ininterrotto, un ritorno continuo a qualcosa che ha la figura di una donna o di un paesaggio. E le sue storie e le sue parole balbettate e sorrise (se così si può dire) sono al tempo stesso il monito demistificante di un testimone o la confidenza di una questione privata: «Io volevo essere libero; ma non sapevo cos’era la libertà; ne avevo una visione estremamente vaga. Ed ecco, il punto fondamentale è questo: per me la libertà era una fuga» (p. 141).


bordiniCarlo Bordini, Memorie di un rivoluzionario timido, Sossella, 2016, 192 p., € 10,00.