A cura di Marco Mongelli, Giacomo Raccis, Angela Maiello, Lorenzo Alunni, Maria Teresa Grillo e Cecilia Cruccolini.


I tempi della critica, si sa, non sempre possono coincidere con quelli della comunicazione o della strettissima attualità. È per questo che, a un mese di distanza dalla conclusione di Festivaletteratura, vogliamo provare a tirare le fila della nostra esperienza mantovana. Per la prima volta l’organizzazione del festival ha accolto due incontri coordinati da 404filenotfound, il lavoro culturale e La Balena Bianca: questi tre blog, sempre più affiatati, hanno deciso non solo di raccogliere la sfida lanciata dal festival, portando a Mantova – seppur solo attraverso un collegamento streaming – due personalità molto importanti del panorama intellettuale internazionale, ma anche di rilanciarla, creando una specie di incubatore condiviso che porti Prossimamente, la cornice dei due incontri, a ospitare nei prossimi mesi una serie di segnalazioni in vista della nuova edizione della rassegna mantovana.

Se la produzione più consistente dei nostri blog è comprensibilmente rivolta al dibattito italiano, la nostra concezione della militanza intellettuale ci ha spinto negli anni a sfondare questi confini ideali e a tentare di portare ai lettori italiani anche temi, fatti e persone che in Italia non avevano avuto ancora una risonanza adeguata. Che si tratti di politica, letteratura, cultura digitale o arte, siamo convinti che quanto accade fuori di qui spesso ci riguardi molto più di quanto pensiamo. La sfida è quella di provare ad allargare gli orizzonti per offrire sempre più strumenti utili a comprendere il nostro mondo e il nostro tempo.

 

Il 9 settembre abbiamo avuto quindi il piacere di intervistare Bhaskar Sunkara, il ventisettenne statunitense (ma trinidegno di origine) fondatore ed editore di «Jacobin Magazine», la rivista che, attiva da cinque anni in cartaceo e online, ha raggiunto ultimamente uno straordinario e imprevedibile successo, tanto da far dire a Noam Chomsky che rappresenta una «bright light in dark times».

E dunque, cosa fa di «Jacobin» un’esperienza così importante? Innanzitutto l’ambizione scientifica e la radicalità politica (“socialist perspective”) con cui affronta i temi sociali, economici e culturali contemporanei e trasversali a tutto il globo; e quindi il nuovo engagement che ne deriva, lontanissimo sia dal passatismo gergale di tanto discorso politico di nicchia, sia soprattutto dal cinismo divertito di tanti commentatori e intellettuali post-post-postmodernisti.

Secondo Sunkara, la sinistra deve ancora mantenere la promessa della Rivoluzione francese. «Jacobin Magazine» sin dal nome manifesta quindi la propria anima politica e si propone come nuovo riferimento della sinistra americana: la lettura socialista e marxista della società ispira le rivendicazioni politiche, la lotta allo sfruttamento capitalista e alle disuguaglianze che esso produce.

Le conoscenze e le competenze degli studiosi e degli attivisti ospitati sulla rivista sono esplicitamente usate per prendere posizione in una realtà complessa ma limpida nei suoi rapporti di forza e nelle sue aberrazioni, e che quindi chiede a chi ne parla di schierarsi.

L’obiettivo è “formare giovani attivisti”, non studiosi di filosofia politica o di macro-economia ma cittadini educati a leggere i fenomeni economici, sociali e culturali come fenomeni primariamente politici; e che siano quindi in possesso degli strumenti per decodificare la realtà e per volerla cambiare. Una rivista accessibile a molti se non a tutti e che non vuole parlare solo agli addetti ai lavori ma cerca di costruire una vasta adesione sociale: e a questo scopo usa i canali di comunicazione (senza feticizzarli o sopravvalutarli), e un linguaggio divulgativo ma rigoroso.

Jacobin ospita interventi incentrati sugli Stati d’Uniti ma non solo, e anzi promuove un discorso di sinistra unitario e quindi una lotta socialista comune a tutte le aree del mondo: un approccio la cui urgenza, in Italia e in Europa, sembra ormai ineludibile.

 

Domenica 11 settembre è stata poi la volta di Hossein Derakhshan, scrittore e blogger canadese iraniano, ormai conosciuto come il padre dei blogger persiani. Derakhshan ha cominciato a scrivere il suo primo blog in lingua persiana proprio all’indomani dell’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e a causa della sua attività è stato imprigionato a Teheran dal 2008 al 2014. Al suo rilascio ha pubblicato un post su Medium, che ha fatto il giro del mondo, in cui sostiene che il web sta morendo a causa della fine del sistema dell’hyperlink.

Abbiamo cominciato la nostra chiacchierata chiedendogli innanzitutto di spiegarci meglio la sua posizione: secondo Derakhshan il web, che era alla sua origine un luogo testuale dedicato al ragionamento e alla discussione, si è trasformato in una forma di intrattenimento. Da un lato l’accelerazione tecnologica, dall’altro l’intensificazione del lavoro per la classe media hanno provocato una diminuzione di attenzione ed energie verso temi che richiedono un maggiore impegno riflessivo. Proprio su questo tipo di impegno si basava l’originaria cultura del web e dell’hyperlink. Oggi invece il web è uno spazio centralizzato dominato dall’immagine e dalle emozioni, per molti versi simile alla televisione.

Quali sono le alternative a questa situazione che Derakhshan stesso definisce molto buia, che permette l’emergere di figure politiche come Berlusconi, Trump, Erdoğan e Sarkozy? Ci sono tre possibili soluzioni, che operano su tre livelli diversi. A livello personale dobbiamo cercare di confondere gli algoritmi che regolano la vita online, per cui ad esempio dare il nostro mi piace a pagine che non amiamo, e viceversa. A livello sociale dovremmo tentare di obbligare le compagnie che operano nel web a essere più trasparenti e a considerare anche la diversità e la qualità come valori. E infine, a un livello ancora più alto, dovremmo far sì che i governi intervengano presso queste compagnie per mantenere determinati standard rispetto alla diversità, alla partecipazione democratica e alla garanzia delle minoranze.

 

In definitiva, a ripensare ai due incontri che hanno composto la serie Prossimamente di Festivaletteratura, si potrebbe essere portati a definirli come due modi di vedere il futuro che ci attende: ottimistico l’approccio di Sunkara, pessimistico quello di Derakhshan. Bicchiere mezzo pieno e bicchiere mezzo vuoto. Ma sarebbe una lettura troppo semplicistica dei due incontri. È indiscutibile che la storia personale, il percorso di formazione e il contesto di vita di Sunkara siano stati ben diversi da quello di Derakhshan, cosa che di per sé potrebbe già spiegare l’opposta sensazione che hanno dato le due interviste; ed è indiscutibile che alcuni degli elementi da loro citati potrebbero essere oggetto di lunghi dibattiti (pensiamo per esempio all’intervento statale nei social network invocato da Derakhshan). Ma quello che, da ascoltatori, è interessante estrarne è il bisogno di articolare i due approcci al mondo e le due visioni delle cose, il bisogno cioè di far tesoro tanto di un prezioso slancio ottimistico quanto di un altrettanto prezioso sguardo lucido sullo stato attuale delle cose, tutt’altro che gioioso. Senza dimenticare che uno sguardo tendente alla disillusione non inibisce sempre la volontà di azione, come testimoniato dalla fiducia di Sunkara nella nascita di un giovane attivismo che avrà sempre un peso maggiore e dalla proposta di Derakhshan di giocare degli scherzetti agli algoritmi dei social network. È abbinando queste due morali del pensiero, per così dire, che gli incontri di Prossimamente hanno aiutato a riflettere e affinare il concetto di sguardo critico sul mondo. Ed è per questo che non ci rimane che adoperarci per nuove occasioni (nuove e mantovane, aggiungiamo) in cui poter ascoltare altre voci imparando a incorporarle nel nostro sguardo sul mondo che ci attende prossimamente, o già oggi, anzi adesso: proprio adesso.