Un particolare del dipinto “Ascesa all’Empireo” di Hieronymus Bosch, che per un momento potrebbe far pensare a certe condizioni atmosferiche di Mara Cerri, fa da porta d’entrata a Nella notte cosmica (Luca Sossella Editore, pp. 88, euro 10, con CD audio di circa 30′), quinto libro di poesia di Roberta Durante da quattro anni a questa parte. Arriva dopo Girini (Edizioni d’if, 2012), Club dei visionari (Di Felice, 2014), Balena (Prufrock spa, 2014) e Susina (Edizioni d’if, 2015). Giustamente scivolante sulle paranoie che talvolta emergono circa la frequenza delle pubblicazioni di poesia – come se poi si potessero introdurre anche in quest’ambito le “quote latte” e come se la stitichezza di scrittura e una bassa frequenza di pubblicazione fossero necessariamente garanzie di qualità e ponderatezza – l’autrice sguscia fuori da questo nucleo di testi, accolti nella collana Vivavox, risospinta da una scommessa espressiva rara, in un gesto fonico e di immaginazione difficilmente riscontrabile in autori nati nella stessa decade (attenzione: parlo di decade e non di generazione, perché il termine mi sembra più asettico e meno compromesso nel “poetichese critico-editoriale” che piace tanto agli utilizzatori della formuletta “il più [aggettivo X Y o Z] della sua generazione”). Tra l’altro, c’è da dire che i diversi (brevi) libri citati si possono iniziare a leggere ormai in sequenza. La scrittura è traboccante di fantasia e moto perpetuo, è festa della parola in una singolare, straniante (a tratti persino paradossale) nostalgia di un mondo senza parole. Perché forse c’è da dire anche questo, in apertura: chi scrive questi versi usa la parola e lo sa fare meglio di molti altri, ma allo stesso tempo potrebbe prima o poi farne a meno, improvvisamente, senza alcun rimpianto e con pari consapevolezza di rinuncia e di resa davanti a una «una parola inesistente e fatta soltanto di luce».

«sarebbe cominciato ancora tutto senza bisogno di parole» è il verso conclusivo di questo racconto (sogno?) di un viaggio spaziale tra terra, cielo e luna ovvero tra il pianeta, lo spazio di movimento dello sguardo e del corpo e il nostro satellite consigliere (e “Terra”, “Cielo” e “Luna” sono i titoli delle sezioni del libro). E che fa la luna? «la luna con quella compassione d’astromadre | fece come per darmi la sua spalla | (non so come spiegare io la protezione | ma si capiva tutta l’intenzione) | e mi guardò con occhi dolci inesistenti: | quelli di chi mi avrebbe portata veramente sulla luna | senza alcuna fatica ma non per amore». Questo triangolo di terra-cielo-luna, a suo modo comunque “amoroso”, in cui insiste il congegno di lode del movimento e l’astronave-letto della scrittura conferisce un senso di circolarità al tutto, ratificato proprio dall’ultimo verso già ricordato. L’inizio è assenza di gravità. E forse sarà capitato anche a voi di sognare di volare, dentro una stanza o all’aperto, di provare stupore per la facilità con cui si svolgeva l’azione. E così si apre il libro e la sezione “Terra”: «era la prima volta | che mi sentivo proprio nello spazio | aprivo e richiudevo le mie braccia | le gambe lisce come tazze | si aprivano nell’aria senza traccia di cammino: | facevo la Vitruvio distante anni luce | dalla mia gravità».  Movimento archetipico il volo, certo, così come archetipici sono trama e ordito dell’opera, cuciti sul velo di Maya di un viaggio spaziale che si svolge in una “notte cosmica”. Tuttavia, a dispetto del concetto di “ordine” cui rimanda qualsiasi “cosmo” o “cosmetica”, è questo un viaggio in una notte “cosmica” di disordine, che spariglia continuamente lingua e pensiero, corpo e percezione, visione e movimento («(la notte che era stata la mia vita)», si legge in un verso). Ne nasce un’inedita sensazione di insufficienza e incompletezza del pensiero, di resa, come già ricordato poco sopra (oltre all’insufficienza e sostituibilità della lingua, di cui s’è detto). Ravviso in quest’esplorazione dell’incompletezza uno dei motivi di maggiore interesse di questa favola in versi: «non era mica male quest’apocalisse qua veloce | che dai miei nuovi cieli mostrava la sua ricreazione | ed io pronta com’ero già in partenza per la mia metanoia | mettevo insieme tutti i risultati: | divini di tempi diversi e quelli lunari e terrestri | raccogliendo in un unico cesto | tutto l’illogico possibile tutto lo scibile della demenza | (assenza di vita e di morte)».

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H. Bosch, Quattro visioni dell’aldilà, 1500-1503 ca. (Palazzo Grimani, Venezia)

In quest’ascesa verso l’insufficienza e quindi in questa perlustrazione del limite del dire e del pensare, che a tutti gli effetti rappresenta una metànoia, nel senso del pensiero ma anche nel senso della retorica, cioè di continue affermazioni che si susseguono correggendo, rafforzando e indebolendo le precedenti, si flette e riflette la vocalità di chi ha scritto questo libro. E in questa visione che sembrerebbe tutta in perdita, così come avviene nei precedenti libri ricordati in apertura (e soprattutto negli ultimi due), anche il recente Nella notte cosmica punta il dito su un assetto in realtà meno rinunciatario della scrittura poetica, un’estensione di pensiero e pronuncia che prova a spingersi oltre il noto, dentro appunto una disarmata incompletezza di pensiero e sensibilità. Per fortuna siamo davvero lontani dalle tristi veline di poesia che talvolta si palesano a noi come un’emanazione seriale e reiterata di un novello MinCulPop poetico nazionale diretto da triumvirati o quadrumvirati a geometria variabile ma i cui vertici son meno variabili (talvolta, soprattutto fra i più giovani, è ravvisabile un’inspiegabile stanchezza del verso e dell’inventiva, una totale mancanza di coraggio che si riesce persino a far passare nei casi più spinti di malafede per “asciuttezza/freschezza” e allora soltanto adesso, per i fan del dato anagrafico, ricordo che l’autrice è nata nel 1989). Si incontra infatti tra queste pagine di poesie brevi, collegate tra loro in tante scene o pezzi, un gioco aperto con le aporie del pensiero e dell’immaginazione, con la lotta ingaggiata all’ubriacatura di pensarsi vivi nello spazio, fluttuanti, capaci di vedere e esser visti. Se questo libro è il racconto di un sogno (ma non lo è, anche se forse lo è… questa è un po’ la metànoia) allora il sogno è stato tutto ricordato e trascritto. Qui e lì affiora una paradossale nostalgia di un mondo senza parole, che tuttavia nella parola e nella sua irrinunciabilità trova il modo di inverarsi e ripetersi, e quindi il modo di far patire un inconsueto valore pedagogico di questa nostalgia. Sussiste il pensiero della problematica identitaria («[…] in una lotta più lunga della vita | contro l’identità già fatta e già finita» oppure «sul finire continuo dell’infinito mio | al limite della mia luce | riflesso simile di mille me nell’atmosfera») e altresì le continue risurrezioni da shapeshifter di celluloide, assieme alle insurrezioni ologrammatiche di un panorama cosmico sorvolato con un incosciente ritmo ragtime («poco più di kebab | colava la mia essenza sulla terra»).

Il libro, unito al CD audio contenente la registrazione della lettura integrale del testo che fa l’autrice, può rappresentare un richiamo per chi desidera provare a disancorarsi dalla gravità e riprendersi il deliquio del buio, della paura totale (“paura” è parola fondamentale di tutto il testo), della sacralità di uno spazio cosmico (si avverte, secondo me, un tentativo di rielaborazione dell’ultimo Zanzotto, quello ancora tutto da percorrere nei Conglomerati). Appare quindi come danza circolare, com’è tutto circolare questo componimento, nel quale la luna ancora una volta fa la parte dello scrigno di pulsioni («ma io sapevo che capiva | capiva da satellite;») e, in fondo (ma quale fondo?), continua a giocare un ruolo così innestato nella tradizione, così saldo in questa, tanto da arrivare a tradirla. Significativo in tal senso il pezzo a pag. 63, da citare per intero: «mi feci forza sola che senza gravità | di fatto era più facile | e fu nuotando a rana sempre verso la luna | che cominciai a sentirmi uscire un gracidio | leggero come un filo da cucire; | andavo velocissima | ma mi ero fatta così piccola | che forse sulla strada sarei finita male | ma qui la cosa più vicina eran le stelle | e quando la distanza non ferisce | sparisce ogni pericolo». Il verso nasce dalla paura di uno spazio sfidato e sfondato con le immagini, nel ritmo creato con reticoli fonici disseminati in un testo privo di virgole (ma non di due punti o punti e virgola), una fune tesa di paronomasie e onomatopee, in compagnia di vivi, morti e… mirto (sic!).


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Roberta DuranteNella notte cosmica, Luca Sossella Editore, pp. 88 + CD audio (~ 30′),  € 10.