«La bellezza della roccia rossa, del fogliame verde e del cielo azzurro era solo un’idea. Il mondo, la sua esistenza, ogni atomo era un orrore». A discapito di molte letture date sull’ultimo romanzo di Jonathan Franzen (Einaudi, 2015), Purity, non è la storia dell’omonima ragazza ventiquattrenne sulla quale incombe un debito studentesco di 130.000 dollari, alla ricerca, un po’ impacciata e inesperta, dell’identità del padre, negatagli da una madre squilibrata che le ha dato tutto l’amore possibile, relegando però la giovane Pip (così si fa chiamare lei per l’imbarazzo provato nei confronti del proprio nome) in una dimensione fuori dal reale, negandole la conoscenza di informazioni basilari per la creazione della propria identità tra cui, ad esempio, la propria data di compleanno.
Purity, lo si dica subito, racconta l’orrore dell’esistenza e la difficoltà umana che intercorre nel dialogarvi. Il problema che ne deriva è la percezione della verità (interiore o fattuale) che sta sotto i nostri occhi, ma che non siamo in grado di vedere.

Ulteriore dato da segnalare è che questo romanzo di ingente mole (637 pagine) è diviso in sette sezioni delle quali solo la prima e l’ultima, in maniera circolare, hanno come fuoco il punto di vista di Pip, mentre le restanti pagine si snodano attraverso i numerosissimi punti di vista dei molti personaggi affollati attorno a lei (la sezione che riguarda Tom è addirittura in prima persona), in un quadro di continuo movimento sia nello spazio che nel tempo: si passa dall’America di Oakland, Denver e New York alla Germania del muro tra Lipsia e Berlino, alla Bolivia e Belize, specchi di un sud America affarista e corrotto. Il tempo d’altro canto è questione più complessa: esso si sposta per generazioni di genti, madri, figli e nonni, tutti raccontati nella loro giovinezza e poi nella loro vecchiaia, che scalano le pagine del libro dimostrando come i problemi del singolo siano riconducibili ad un sostrato inconscio e freudiano attivo in ognuno. La virtù di questo shift temporale però risiede tutta nel non seguire un ordine cronologico, ma un insieme di rette centrifughe e poi centripete che sbalzano il lettore, ad ogni nuova sezione o paragrafo, in una dimensione in cui egli è costretto a ri-orientarsi tentando di filare un ordito e allo stesso tempo inserirvi le nuove informazioni.

La struttura dunque, molto complessa, è riconducibile all’influenza di due modelli. Il primo è certamente la serialità televisiva: con una capacità di suspance e colpo di scena alla Game of Thrones, Franzen crea una trama ricca di elementi e dati senza lasciare nulla di inespresso, la quale è però in grado di sorprendere ad ogni rigo, lasciando il lettore in questo intrico vettoriale di luoghi e momenti a chiedersi, col gusto della nuova puntata, in che modo e come i personaggi introdotti si inseriranno nella vicenda starter di Pip. Ecco che allora abbiamo una galleria vastissima che comprende Andreas Wolf, versione germanica di Assange, più bello e di successo, Tom Aberant, genuino americano caporedattore di un giornale d’inchiesta, e una ricca schiera di donne, a  partire dalla moglie di Tom, Leila Helou, anche lei giornalista e madre mancata, la giovane Annagret, complice di un indicibile segreto, Anabel Laird, ricca ereditiera fantasma di un passato la cui oscurità danneggia il presente e così via. Tutti i personaggi inoltre, anche quelli più marginali come David Laird, Tad Milliken, Lucy, amica di Anabel o Dreyfuss, l’ebreo possessore dello squat ad Oakland dove conosciamo Pip a pagina uno, sono, seppur per poco tempo, illuminati con un’acribia che culla il lettore, fornendogli anche in breve una serie di elementi per comprendere tutto ciò che c’è di necessario su ognuno di loro.

E proprio qui giace l’ingegno dell’autore: nel fornire apparentemente ogni elemento possibile al disegno di un personaggio, nel circondare la sua figura di motivazioni e ragioni inerenti comportamenti o situazioni costantemente supportate dall’intreccio narrativo. Fornisco, a titolo di esempio, un estratto dal commento non proprio entusiasta uscito su Grantland utile a chiarire cosa intendo: «given a strange situation (and his plots are full of them: Purity involves a mysterious father and turns on a secret hacker ring in the jungle), his impulse is to begin explaining it, organizing it, shepherding it into an idea (“purity”). Why does Pip live with anarchists? Because her mother was an idealistic recluse who raised her without television. Why is Leila, a fiftysomething journalist for the Denver Independent, jealous of Pip’s friendship with her husband? Because when Leila was Pip’s age, she had an affair with an older man that broke up his marriage. Tendencies are never unaccountable, decisions never bewildering, pain never truly mysterious». La pratica di inserire ogni personaggio in un processo costante di cause ed effetti, di scolpirlo a tutto tondo anche se ciò non serve ai fini della narrazione, lo rende ipoteticamente il possibile oggetto di un romanzo a se stante, potenzialmente sviluppabile all’infinito. Ed ecco dunque che giungiamo al secondo modello manifestamente operativo in Franzen.

L’autore si inserisce nel lungo solco del romanzo realista, guardando a Dickens (il nome Pip è quello del protagonista in Grandi speranze), a Balzac, ma, a mio parere, soprattutto a Zola (e, in ogni caso, come non pensare al Kurtz di Cuore di tenebra con tutto questo parlare di orrore?). è con Zola in particolare che penso di poter trovare una fortissima analogia: dalla denuncia sociale a favore dei minatori francesi in Germinale, fino all’idea positivista dei caratteri ereditari familiari ascrivibile all’intero ciclo dei Rougon-Macquart, Émile Zola è l’autore in questo frangente più vicino a Jonathan Franzen, il quale è effettivamente intento a tracciare le direttrici di un milieu, il nostro, che a causa della sua costituzione è chiamato a raccogliere su di sé l’aggettivo “globale”. Come ogni grande narratore realista Franzen ha allora bisogno di spazio e parole, ecco perché l’enorme mole di dati, ecco perché il soffermarsi sulle storie personali o sui dettagli di un’inchiesta giornalistica: è la realtà multiforme ad essere al centro dell’attenzione dell’autore. Il multistrato reale che abbraccia ogni luogo e ogni tempo rende Purity un vero romanzo corale, i cui componenti sono attanagliati non da una scientifica e meccanica trasmissione dei caratteri, ma da una trafila di complessi freudiani. A titolo di esempio possono essere addotti i numerosissimi i conflitti con la figura della madre (quasi ogni personaggio ha un rapporto tormentato con questa figura familiare e di conseguenza col femminile) e una dialettica costante genitore/figlio che tende all’inversione: spesso i padri sono infantili e capricciosi, i giovani, invece, alla scoperta necessaria della loro maturità. Tutti i personaggi sono in realtà album di psicosi, più o meno gravi, interessate a mostrare al lettore la fragilità della parte più intima di ogni uomo e l’orrore che esso si porta dentro.

È questo elemento a cozzare violentemente con l’idea che sorregge l’intero libro: la purezza. Tale valore è infatti un valore in negativo, notato per la sua assenza, presente solo come fine dell’agire di molti personaggi che, ereditato un mondo orribile, si adoperano per migliorarlo, purificarlo, ma che non colgono nei loro atti i segni di quello stesso orrore. Essi si spostano come molecole impazzite all’interno di un sistema, scontrandosi e incontrandosi, generando una catena di reazioni che diventa incontrollabile sfuggendo di mano anche a chi ritiene di poterla padroneggiare. Ognuno è infatti, in accordo con questa parte oscura e interna, trainato nel suo compiere danni da un’emotività irrazionale acutissima, che prende il sopravvento e si estrinseca in drammi psichici diversi per ciascuno: le folli regole di Anabel, le insicurezze corrosive di Pip, la sessualità distruttrice di Andreas. La logica e la razionalità, che dovrebbero servire questa presunta luce della ragione, il cui nome viene spesso tirato in ballo su un piano dichiarativo, ma che risulta il grande assente, sono subordinate costantemente ad un vitalismo fisico di accezione negativa: ecco allora che contro di esse si erige il sesso dozzinale, il cedimento alla cecità delle passioni, l’alternanza volitiva tra amore e morte e altro ancora. Molto più in generale si assiste a un richiamo alla fisicità in senso animale, se non deteriore: Pip parla costantemente del suo modo di recepire la realtà attraverso gli odori, spesso paragonandosi ad un animale; la madre e la nonna di Tom soffrono di dolori gastro-intestinali tali da metterle in pericolo la vita e così via. La parte corporale non è altro che l’oggettivazione di quello “sporco” che ci si porta dentro, un correlativo dell’orrore personale, sottolineato costantemente da una libertà di stile che sfocia con insistenza nella grettezza della parola volgare.

Ad esemplificazione concreta di tale orrore individuale si presta poi l’oggetto monolitico che serve a rendere presente a Franzen anche l’assunzione di quell’aggettivo “globale”, contenitore espanso in cui come abbiamo visto è possibile spostarsi avanti e indietro nelle categorie spaziotemporali, ma non vasto a sufficienza, però, da impedire che particelle impazzite collidano tra loro sviluppando centinaia di pagine. L’oggetto in questione è ovviamente Internet. La storia di Pip infatti si intreccia con quella di Andreas Wolf, personaggio già nominato, fondatore del Sunlight Project (una sorta di WikiLeaks). Tuttavia ciò che si scopre abbastanza presto nel libro è che Wolf ha creato l’SP, in maniera puramente fortuita per insabbiare un incidente personale, tentando di occultare, alla luce dell’abbagliante verità sugli altri, quella su se stesso. Wolf è dunque un personaggio pieno, psicotico, abissale, dominatore fallito e succube della propria paranoia, dichiarazione vivente del fallimento degli intenti di purezza che va professando. Ma è solo uno dei tanti che porta avanti la discrasia tra intenti e fatti, tra ideale e reale, dialettica alla base dell’intero libro e di tutte le relazioni umane al suo interno. Il rilievo da lui assunto è maggiore dal momento che sappiamo come sia preoccupazione dell’autore dipingere la negatività della rete, le sue possibili intrusioni nelle nostre vite e la poca moralità che soggiace nello spiare i segreti altrui. Così, la tanto decantata purezza solare assume i tratti di una distopia che Pip, venutavi a stretto contatto, non può ignorare.

Franzen affonda quindi la tematica sociale nel problema più bruciante d’America, dopo i casi di Wikileaks, Snowden & Co., attuando un paragone ardito ma calzante con la Germania dell’Est (patria di Andreas stesso e della madre di Tom) poco prima del crollo del muro. L’attacco alla rete è diretto ed esplicito: «sostituendo socialismo con network si otteneva internet, un sistema fatto di piattaforme rivali accomunate dall’ambizione di definire ogni aspetto dell’esistenza»; «il Nuovo Regime riciclava persino le parole in voga nella vecchia Repubblica: collettivo, collaborativo. L’assioma per entrambi era che stava emergendo una nuova specie di umanità» e ancora «uno dei talenti di Andreas, forse il più grande, era quello di trovare nicchie insolite nei regimi totalitari. La Stasi era il migliore amico che avesse mai avuto, finché non aveva incontrato internet». Ecco allora che la distopia prende forma chiamando in causa Orwell e Bradbury, ma anche il più recente Cerchio di Dave Eggers, anch’esso avente come protagonista una giovane stagista inserita in un sistema che fa della trasparenza insieme una bandiera e una prigione.

C’è chi sostiene che gli attacchi di Franzen al mondo di internet siano portati con il mezzo sbagliato, il che renda il suo romanzo sostanzialmente inefficace, per lo meno da questo punto di vista; si veda ad esempio PrismoMag: «Il suo proposito può essere anche nobile, ma lo porta a termine con dei mezzi ontologicamente sbagliati. Franzen aggredisce internet con quello che crede sia il corazzato russo (non bolscevico, sia mai) del romanzo realista quando invece si ritrova tra le mani una consolle da videogioco anni Ottanta. All’eterna distrazione e violenza della rete non oppone un sistema operativo diverso, ma uno più vecchio e lento» e «le alternative ci sono, e se il romanzo realista non è in grado di confrontarcisi, può anche abdicare». Ciò che non è chiaro, però, è come si possa pensare inefficace la volontà di fiducia di un mezzo letterario (a mio avviso l’unico) in grado di assurgere a mezzo globale, quale può essere il romanzo realista. E il fatto che ci si trovi ben distanti da Tolstoj non è un male; bisognerebbe tenere presente che l’autore non appare come un vetusto scrittore ottocentesco e, anzi, l’efficacia con cui irradia il mondo (interiore ed esterno) è tanto più vera quanto più rispondente ad un sentimento collettivo di cui il lettore è partecipe.

Questa tematica affonda nella nota vena moralista che guida la penna di Jonathan Franzen: ritrovare una forza oppositiva oltre i tempora et mores grazie allo strumento del romanzo significa voler riaffermare il primato della letteratura. Eppure ciò che si concretizza nel libro è una sorta di auto-smentita poiché proprio chi si fa baluardo del suddetto moralismo (parliamo di Anabel) sfocia in un rigore simile alla pazzia, potendo addirittura dire, senza svelare nulla di troppo, che è proprio questo moralismo eccessivo e veterotestamentario a creare i presupposti per la trama. Vivere con l’«azzardo morale» significa, mostra l’autore, essere prigionieri di un limite che, imponendo una coerenza impossibile da seguire, cancella la libertà. Franzen, dunque, sembra firmare, insieme al suo disincanto anche un’ammissione di colpa sostenendo che «non possiamo tollerare né i nostri vizi tradizionali né i loro rimedi» (Tito Livio) e che dunque la palingenesi debba essere affidata proprio alla generazione successiva, con il compito di assumersi le colpe dei padri e la capacità di redenzione dei loro mali. La problematica da gestire è vasta e ampia e abbraccia primariamente il tema della libertà di azione (Leila in un discorso fatto a Tom sottolinea il carattere della loro relazione come una relazione “da nuovo testamento”) che è ciò che a sua volta danneggia l’uomo. L’interrogativo sembra dunque palese: posto che il moralismo si configuri come una prigione e la libertà come distruzione, qual è la soluzione per sbrogliare la matassa della vita?

L’interrogativo non ha risposte, ma diventa oltremodo chiaro che l’intenzione di Purity è spingere il giudizio degli atti al di là del bene e del male (a un dato punto del romanzo viene proprio citato Nietzsche e in altra sede il sintagma-titolo compare direttamente in un dialogo). In primo luogo perché chi agisce, anche secondo un principio, non può svincolarsi dalla propria parte oscura; in secondo luogo perché il vuoto lasciato dal rigorismo morale può essere trovato solo in surrogati castranti (femminismo radicale, veganesimo, pauperismo) che hanno un effetto costrittivo nei confronti della libertà personale. Il moralismo censoreo del Vecchio Testamento non è la soluzione alla gestione dei principi del Nuovo (libertà e amore) e forse questo è l’unico limite del romanzo: Franzen dimostra come il nostro tempo sia privo di un principio superiore (la moralità) che regoli e sia garante dei nostri atti, dimostrando come i suoi surrogati siano palliativi e inefficaci, ma pone problemi senza dare soluzioni, evidenziando solamente come quelle date siano inadeguate.

Tutto infatti è affidato al finale, alle “grandi speranze” che i cocci si possano rimettere assieme, che il ciclo di errori finisca, con un’esistenza possibile però solo oltre le righe dell’ultima pagina. È qui che Franzen e il suo Grande Romanzo chinano il capo non avendo storie o esempi da offrirci: inventarsi una soluzione è il compito di Pip al termine del libro, Bildungsroman sui generis. Purity dunque non sarà certo un manuale per affrontare il futuro, ma il lettore attento vi troverà implicitamente un pungolo per afferrare e «scandagliare» (verbo usatissimo) la propria realtà al fine di portare in superficie il male, il quale, però, per essere purificato non si deve solo essere individuato, ma si deve risolvere. Questo è l’imperativo morale che ci affida Franzen: trovate una strada.


purityJonathan Franzen, Purity, Einaudi, Torino 2016, 656 pp. 22€